Compagni dal porto e dalle officine
Di Valerio
Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 presenti nella provincia di Pesaro e Urbino erano caratterizzate da una forte matrice operaista. Più o meno tutte avevano costituito una sorta di commissione operaia. Davanti alle fabbriche si appendevano in continuazione striscioni e tazebao (manifesti), ai cancelli si distribuivano volantini e s’improvvisavano comizi.
A Pesaro le fabbriche più organizzate erano le metalmeccaniche Benelli Moto e Morbidelli (macchine per il legno) e i cantieri navali Gennari. Quando la FIOM proclamava lo sciopero, al suono delle sirene migliaia di tute blu uscivano dai luoghi di lavoro per riempire piazza del Popolo e bloccare la città. A Fano era presente un’altra forza molto combattiva: i pescatori. Gli scioperi dei pescatori fanesi furono momenti memorabili della lotta di classe, l’ultimo avvenne nei primi anni ’80 e riguardava il rinnovo del contratto di lavoro, durò circa una quarantina di giorni e strappò agli armatori uno dei contatti della pesca ancora tra i più avanzati d’Italia. Alla proclamazione dello sciopero veniva tirata una catena o una calomba (altro non è che una grossa gomena con anima d’acciaio) tra i due moli in modo che nessun peschereccio potesse uscire e se qualche equipaggio di crumiri accendeva i motori per tentare di forzare il blocco, gli altri, con maniere alquanto spicce e qualche tuffo fuori stagione, costringevano i malcapitati a desistere.
Ci furono diverse lotte importanti, come quando nella seconda metà degli anni ’70 i padroni volevano chiudere la Cassese di Mondolfo. Lo sciopero e l’occupazione della fabbrica permisero a 250 operai di salvare il posto di lavoro. La madre di tutte le battaglie operaie fu però, senza dubbio, quella condotta in una fabbrica di dimensioni modeste, il calzaturificio Serafini, uno dei massimi esempi dell’affermarsi del “modello marchigiano” di frantumazione della grande industria e decentramento produttivo. All’interno del calzaturificio lavoravano circa un centinaio di operai, per la maggior parte donne, mentre gli uomini fungevano principalmente da capisquadra o da sorveglianti. I Serafini erano una vecchia famiglia fanese legata al fascismo dei bei tempi andati. Gestivano la fabbrica con il pugno di ferro. Fino alla fine degli anni ’60 gli operai erano pagati a cottimo, i turni erano di dieci ore ed erano costretti a lavorare anche il sabato fino a mezzogiorno. Inoltre erano in vigore le multe come nelle fabbriche dell’Ottocento: se durante la lavorazione un’operaia rovinava un pezzo di cuoio, il valore del pezzo le veniva decurtato dalla paga. Per modificare queste condizioni gli operai del calzaturificio, ma soprattutto le operaie, iniziarono a lottare fin d’allora.
Nella seconda metà degli anni ’70 per una mera speculazione edilizia, dato che la fabbrica si trovava dentro le mura della città, i proprietari decisero di chiudere, licenziare e vendere l’immobile. Gli operai si mobilitarono in massa contro quella chiusura. Fu innalzata una tenda in piazza XX Settembre, che divenne il centro della mobilitazione e della propaganda. Lo sciopero durò una cinquantina giorni ma si concluse con una sconfitta, la fabbrica chiuse e gli operai vennero licenziati. A dar manforte a quella lotta di resistenza si mobilitarono tutti i gruppi della sinistra allora presenti in città (Democrazia proletaria, Lotta continua, Organizzazione anarchica marchigiana e perfino la Comunità dei preti operai fanese).
Nonostante la sconfitta, quell’esperienza di lotta dura e senza quartiere rappresentò il momento più alto ed esaltante del conflitto di classe; la prima vera saldatura tra quelle donne e uomini che costituivano la base operaia più emancipata e i gruppi nati dalle lotte studentesche che da qualche tempo agivano in città.