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Destituire, bloccare, hackerare (#4)

Destituire, bloccare, hackerare
Di Vittorio

A partire dal 9 marzo scorso, un movimento radicale di protesta si oppone tenacemente alla riforma del codice del lavoro francese. Dalle occupazioni di scuole e università si è passati a quella delle piazze, per giorni interi. La parola e la determinazione dei giovani hanno spinto anche i lavoratori più garantiti a radicalizzarsi fino ad aderire ai blocchi della circolazione ed estendere lo sciopero alle raffinerie e persino alle centrali nucleari, senza contare i numerosi sabotaggi alle reti informatiche e di comunicazione. Per chi vive nell’Italia imbambolata da Johnny Renzi sembra incomprensibile come un movimento al centro dell’Europa possa sfidare lo stato d’eccezione imposto dopo gli attacchi terroristici di novembre 2015 a Parigi ed allo stesso tempo mettere in discussione il modello economico esistente. In fondo, si pensa, non stanno mica nella merda come noi in Italia e il loro “jobs act” è acqua fresca in confronto a quello che qua abbiamo ingoiato senza troppo strepito. Ma se lasciamo da parte i luoghi comuni sui francesi “che si incazzano” anche i movimenti più imprevedibili si spiegano con le loro ragioni politiche e culturali. Pubblichiamo per questo la trascrizione della presentazione del libro “Ai nostri amici” del Comitato Invisibile, pubblicato per la prima volta in Francia nell’ottobre del 2014, che si è tenuta presso la libreria Il Catalogo di Pesaro nel gennaio 2016 sotto forma di dialogo.

Da dove arriva questo libro? Chi è il Comitato Invisibile che lo firma? Perché in Italia è uscito in maniera semiclandestina, in forma di autoproduzione senza un riferimento editoriale riconoscibile?

Il libro nasce da un percorso politico e intellettuale che è quello del Comitato Invisibile che in Francia ha una storia di almeno dieci anni. Le pubblicazioni del Comitato Invisibile sono state tradotte in molte lingue, sono circolate in molti paesi, hanno creato una rete di contatti, di complicità e di condivisione. Facendo a ritroso una genealogia di questa iniziativa politica e culturale, alcuni si ricorderanno di «Tiqqun» che è stata una rivista uscita in tre volumi dal 1999 al 2001. Era una rivista politica che si definiva di “metafisica critica”, proponeva un discorso che rompeva con i codici della sinistra e dell’anarchismo ma anche con quello che era in quel momento il movimento della globalizzazione anticapitalista. Cercava una critica radicale dell’esistente, ma attraverso codici filosofici e politici leggermente spostati rispetto alla tradizione della sinistra e dei movimenti antagonisti. Si rifaceva al pensiero di Walter Benjamin, di Giorgio Agamben, di un’evoluzione del situazionismo francese e così via.

«Tiqqun» ha chiuso i suoi lavori nel 2001 e nel 2004-2005 in Francia ha cominciato a circolare un piccolo opuscolo che si chiamava Appel, che poi è stato tradotto anche in italiano e in altre lingue. In quel periodo in Francia c’è stato un movimento particolarmente importante per i movimenti sociali dell’epoca che è stato prima la rivolta delle banlieue del novembre 2005, poi il movimento contro il CPE del 2006 (contrat de premiere embauche, cioè contratto di primo impiego), un tentativo in parte riuscito del governo di allora di imporre maggiore precarietà nei contratti dei giovani, che scatenò un grande movimento universitario molto forte. All’epoca Appel circolò e cominciò in qualche maniera a emergere come posizione politica. Gli autori vennero chiamati “appellisti”, ci fu un po’ di discussione attorno a questa posizione che si definiva rivoluzionaria e anticapitalista ma in rottura con le tradizioni politiche del Novecento e soprattutto molto critica verso l’ambiente degli attivisti politici radicali dell’epoca.

Dopo la storia di Appel, nel 2007 esce L’insurrezione che viene, pubblicato dalla casa editrice La Fabrique, che è una casa editrice commerciale, seppur appartenente a una parte della sinistra francese. Questo libro ebbe un successo di vendite e di pubblico pazzesco per un pamphlet politico, vendette circa 8.000 copie nei primi mesi e poi ci fu un avvenimento che accese ancor di più i riflettori sul libro, cioè l’operazione “Taiga” dell’11 novembre 2009, con cui la Direzione antiterrorismo francese andò ad arrestare una decina di compagni e compagne nel paese di Tarnac, con l’accusa di far parte di un’associazione terroristica e di sabotaggi contro il treno ad alta velocità in diverse città della Francia. Il quadro dell’accusa contro questi attivisti è basato proprio sulla lettura del libro L’insurrezione che viene. Questo è stato descritto come il loro programma politico, come uno dei libri più pericolosi di quel periodo, come un libro altamente sovversivo da un noto criminologo che è Alain Bauer, che ha fatto scuola in Francia prima con Sarkozy e poi con Holland con le sue teorie sulla radicalizzazione. La repressione nei confronti degli autori del libro non ha avuto molto successo nel frenare la diffusione delle loro idee, visto che dopo il loro arresto il libro è arrivato a vendere 25.000 copie ed è diventato un caso editoriale.

Dopo quella vicenda, che ancora non si è conclusa da un punto di vista giudiziario, gli autori rimangono attivi, vengono organizzati seminari, incontri, il libro circola e c’è una discussione che viene riportata in parte nell’introduzione di Ai nostri amici. Qui si racconta come dopo L’insurrezione che viene e al fuoco vivo delle rivolte a cui gli autori e le autrici hanno partecipato, viene pensato questo nuovo libro che, se vogliamo, è una continuazione delle tesi precedenti, un’attualizzazione delle ipotesi su un’azione politica rivoluzionaria nel presente, una riflessione sulle rivolte e sulle insurrezioni che abbiamo visto dalle piazze arabe del 2011 a quelle europee e americane degli indignati nel 2011-2012. Dunque, il libro esce in Francia nel 2014 anche come una riflessione critica sul percorso proposto da L’insurrezione che viene e come il tentativo di attualizzare il dibattito politico con un invito all’autorganizzazione.

In Italia perché non viene pubblicato? Come ho detto prima le vicende sono varie, di fatto non si è trovato un editore che avesse il coraggio e la voglia di pubblicarlo, perché quelli che hanno una posizione politica definita in qualche maniera o sono di qualche parte o partito, lo sentono come non allineato alla loro visione, quelli commerciali hanno paura di sputtanarsi con un libro troppo radicale e quei pochi interessati hanno temuto di affrontare un investimento non previsto nei loro piani editoriali. Quindi, impazienti del fatto che questo libro non venisse pubblicato in italiano, c’è stata una specie di iniziativa dal basso che l’ha stampato a luglio dell’anno scorso e adesso viene presentato in tutti i posti dove c’è interesse a discuterne.

Quello che si nota subito leggendo il libro è che il lessico, il linguaggio non somiglia al gergo classico della sinistra radicale. Allo stesso tempo il Comitato afferma nell’introduzione di voler costruire un dibattito per liberare “il Gulliver della rivoluzione”, ma un dibattito necessita di interlocutori. Chi sono questi “amici”? E a chi si riferisce la prima persona plurale “nostri” utilizzata dagli autori? Puoi spiegarci chi sono tutti questi soggetti chiamati in causa?

Effettivamente il termine “amici” a qualcuno un po’ più attempato suona come gergo democristiano. Questo libro rompe con la sinistra come concetto politico, è fortemente critico verso la sinistra e questa idea di amicizia non ha niente a che fare con l’amicizia pelosa dello scambio di favori, ma è un’amicizia politica, cioè è una riflessione che parte dall’idea che il politico è prima di tutto un terreno dove si definiscono l’amicizia e l’inimicizia, dove in qualche maniera la forza, il motore del conflitto e della trasformazione politica è proprio questa dicotomia tra amico e nemico. Il concetto viene da questa radice di riflessione politica e filosofica che attraversa la sinistra, attraversa i movimenti rivoluzionari ma è anche precedente alla modernità.

E soprattutto il “noi”. Esso è chiaramente un riferimento all’idea che è necessario, gli autori e le autrici propongono che è necessario organizzarsi con una forza politica, con una forza collettiva che agisca, quindi questo noi è un noi che invita e riconoscersi, a creare delle situazioni collettive. Ma in che modo farlo? Per rendere l’idea vi leggo proprio il passaggio dove si utilizza questa metafora del Gulliver della rivoluzione: “Organizzarsi non ha mai voluto dire affiliarsi alla stessa organizzazione. Organizzarsi significa agire secondo una percezione comune, a qualsiasi livello essa sia. Ora, quello che fa difetto alla situazione non è la «collera della gente» o il bisogno, non è la buona volontà dei militanti né la diffusione della coscienza critica e nemmeno la moltiplicazione del gesto anarchico. Quello che ci manca è una percezione condivisa della situazione. Senza questo legame i gesti si dissolvono nel nulla senza lasciare traccia, le vite hanno la consistenza dei sogni e le sollevazioni finiscono nei libri di scuola. La profusione quotidiana di informazioni, per gli uni allarmanti e per gli altri semplicemente scandalose, plasma la nostra comprensione di un mondo globalmente inintelligibile. Il suo aspetto caotico è la nebbia della guerra dietro la quale esso si rende inattaccabile. È grazie al suo aspetto ingovernabile che è realmente governabile. È questo il trucco. […] Una intelligenza condivisa della situazione non può nascere da un solo testo, ma da un dibattito internazionale. Ma perché un dibattito abbia luogo bisogna cominciare a mettere in circolo dei documenti. Eccone uno, quindi. Abbiamo sottoposto la tradizione e le posizioni rivoluzionarie al banco di prova della congiuntura storica e abbiamo provato a tranciare i mille fili ideali che tengono legato al suolo il Gulliver della rivoluzione”.

Quindi l’idea degli autori è quella di non proporre un’organizzazione politica come un luogo di identità nel quale cercare dei tesserati, ma proporre una riflessione più ampia su quelle che sono le forme dell’organizzazione sociale e del vivere collettivo, quindi “noi” fa riferimento a questa volontà di non creare un perimetro identitario per un’organizzazione con un’entrata e un’uscita ma attivare una riflessione più ampia.

Destituire, bloccare, hackerare: sono le parole chiave del metodo che il Comitato Invisibile legge all’opera nelle insurrezioni succedutesi dal 2008 ad oggi, fuori e dentro l’Europa. Se queste sono delle buone strategie, perché non hanno vinto? Come si costruisce, se è possibile costruirla, una prospettiva rivoluzionaria a partire da queste fiammate insurrezionali?

Se qualcuno ha letto L’insurrezione che viene, un limite sicuramente di quel libro era un certo, detto volgarmente, volontarismo, cioè l’idea che una rottura radicale con questo sistema politico ed economico fosse anzitutto una posizione etica che potesse portare a questa rottura. Il problema dell’etica è che in qualche maniera si scontra quotidianamente con l’economia, quindi in Ai nostri amici si approfondisce un filone che c’era già nel libro precedente che è quello se vogliamo più materialista rispetto a quelle che sono le forze reali che governano la società e che fanno sì che appunto le rivolte che abbiamo visto dal 2011 in avanti non riescano a costruire una rivoluzione.

Dallo stadio di rivolta o di insurrezione anche particolarmente estesa come quelle avvenute in Tunisia o in Egitto e in tanti altri posti non si riesce a passare a quello che alcuni chiamerebbero un passaggio costituente. Ai nostri amici parla invece della necessità di un passaggio destituente, poiché gli autori non credono che si debba costituire un nuovo potere ma che lo sforzo principale sia quello di destituire il potere in quanto tale nella società. Per fare questo l’analisi si articola su quattro terreni su cui secondo loro si poggia il governo dell’esistente. Uno è appunto il tema del governo, ma governo inteso non solo come governo istituzionale, ma proprio come lo intenderebbe Foucault, come forma di far vivere, non tanto come istituzione che legifera ma come capacità di gestire la vita delle popolazioni. Da questo deriva la grande centralità della logistica come forza principale di riproduzione del capitalismo, che si riproduce soprattutto attraverso la circolazione che crea il valore delle merci. Qui il dissapore con i marxisti di varie scuole è molto forte, perché per i marxisti l’elemento principale di creazione del valore è lo sfruttamento del lavoro e tutta la dinamica del plusvalore, mentre secondo questa analisi è la sfera della circolazione, della logistica ad essere oggi centrale piuttosto che quella della produzione. La cibernetica che è la tecnica principale di governo, non è l’informatica ma utilizza anche l’informatica per controllare, normare, prevedere, modellizzare la società attraverso l’uso dei calcolatori e dell’economia. Sarebbe molto lungo parlare di cos’è l’economia secondo i “nostri amici” però sostanzialmente l’economia è l’opposto del comunismo. Il comunismo non come sistema politico sociale storico, ma il comunismo come forza di comunizzazione, condivisione e negazione della scarsità, critica radicale della logica economica. Se la logica economica è creazione della penuria, creazione del bisogno, il comunismo è l’opposto, è la negazione della penuria, la negazione della povertà attraverso la negazione di ogni proprietà, di ogni limitazione dei bisogni e della possibilità di condividere. Ecco queste sono le quattro gambe su cui si appoggia il potere e l’analisi del libro in qualche maniera, capitolo per capitolo, cerca di smontare l’articolazione di questo potere attraverso delle proposte e delle pratiche che vengono indicate come possibili.

Attorno al libro sono esplose polemiche anche molte accese che hanno portato ad una sorta di boicottaggio e anche alla diffusione da parte di alcuni anarchici di un pamphlet intitolato Ai clienti in cui viene nettamente rifiutata la proposta del Comitato Invisibile che si può sintetizzare nella frase: “non esiste un esperanto della rivolta. Non spetta ai ribelli imparare a parlare anarchico, ma agli anarchici diventare poliglotti”. Qual è il problema?

Secondo me ci sono vari motivi, uno è legato alla scelta degli autori di non voler costruire esplicitamente un perimetro identitario preciso, ma allo stesso tempo di volersi organizzare in una forza politica. Questa ambivalenza viene vissuta in maniera scomoda e negativa da chi invece fa dell’identità politica, dell’ortodossia della propria visione un punto di forza. E qui già c’è un primo problema. L’altro è quello dell’etica, sicuramente cioè che accomuna alcuni anarchici e i “nostri amici” è sicuramente un primato dell’etica, un’idea etica molto forte dell’azione politica e di ciò che spinge all’adesione a una determinata scelta di vita. Se vogliamo, da una parte c’è un’etica puritana, contro un’altra che dal mio punto di vista è meno dogmatica.

Detto molto bruscamente, vedo in certe critiche una sorta di invidia, di preoccupazione che un pensiero prenda campo e invada dei territori che sono presidiati da altre iniziative, perché di fatto quello che è avvenuto è che queste idee sono circolate e secondo me hanno avuto il pregio di saper attraversare un momento storico complesso, come è stato la transizione dal movimento contro la globalizzazione capitalista dal 1999, 2001 e poi riuscire a interpretare quello che è successo in un altro ciclo di lotte, quello degli anni 2000 e poi quest’ultimo non ancora concluso delle insurrezioni nei primi anni del nuovo decennio del 2000. La forza dei “nostri amici” è la capacità, proprio perché non si chiudono in una posizione identitaria, di essere capaci di ascoltare e anche di contaminarsi con altre esperienze che avvengono e questo chiaramente da qualcuno viene etichettato come opportunismo, come marketing politico, come volontà di essere buoni per tutte le stagioni. Per qualcuno la circolazione e il successo di un’idea la squalificano per principio, se l’adesione a qualche idea politica supera un numero minimo di persone diventa necessariamente commerciale. Secondo me quando un pensiero, una riflessione diventano collettive, diventano ampie, diventano necessariamente anche plurali e a volte anche spurie. Se siamo diecimila a leggere questo libro forse daremo diecimila interpretazioni e se abbiamo dei luoghi collettivi dove discuterne potranno diventare cento, ma sicuramente non diventeranno mai una.

Oggi non sembra che viviamo in una fase di crisi del capitalismo ma nel “capitalismo della crisi”, cioè è la crisi stessa (la sua gestione e il suo controllo) una forma di governo. In nome della “crisi” diventa tutto giustificabile. Al di là di prospettive rivoluzionarie, auspicabili ma forse difficilmente immaginabili nell’immediato, vedi possibilità di svolte alternative del capitalismo, cioè una uscita da questa crisi prolungata per mantenersi in piedi con altre strategie?

Quando si sente parlare di rivoluzione sembra una parola completamente fuori contesto, desueta e assurda, quando invece è stata una parola che è stata il motore della politica e della cultura in Europa per almeno due secoli. Perché questa parola è collassata e questo concetto è stato dato per morto. Invece è ancora vivo. Secondo me e secondo gli autori del libro un punto fondamentale è il tema dell’Apocalisse. Viviamo in un’epoca che si compiace e che costruisce il suo consenso sul governo e sull’economia della catastrofe, sulla riproduzione continua della crisi e sull’apocalisse come prospettiva, cioè un’epoca il cui governo si legittima sul fatto che ci dovrebbe in qualche modo difendere da un’apocalisse incombente. La crisi ecologica, la crisi economica, il crollo di tanti sistemi politici del Novecento piuttosto che indebolire il governo di questa società lo hanno rafforzato e questo è il grande problema. Questo ha anche in qualche maniera tagliato le gambe all’idea di rivoluzione almeno per come si era costruita nella cultura e nella politica del Novecento, in cui la rivoluzione era un’alternativa all’apocalisse, un’altra linea storica che aveva cercato di scalzare l’idea dell’apocalisse cristiana, cioè la fine dei tempi non attraverso una grande purificazione finale ma attraverso una grande trasformazione sociale.

Il pensiero rivoluzionario oggi sta ancora cercando il suo senso del tempo e della storia, ma continuare a lottare è fondamentale per continuare a capire il presente. Vi leggo a proposito questo passaggio: “Se questa epoca va matta per le messinscene apocalittiche, che costituiscono buona parte della produzione cinematografica, non è solo per il godimento estetico che questo genere di distrazione autorizza. Del resto, l’Apocalisse di Giovanni ha già tutto della fantasmagoria hollywoodiana, con i suoi attacchi aerei di angeli scatenati, i suoi inenarrabili diluvi e i suoi spettacolari flagelli. Solo la distruzione universale, la morte di tutto può lontanamente procurare all’impiegato che vive nelle villette a schiera il sentimento di esser vivo, lui che tra tutti è il meno vivo. «Che la si faccia finita!» e «Purché duri!» sono i due sospiri che alternativamente procurano un’eguale disperazione civilizzata. A ciò si mescola un vecchio gusto calvinista della mortificazione: la vita è un rinvio, mai una pienezza. Non si è parlato invano di «nichilismo europeo». Del resto è un articolo che si è esportato così bene che il mondo ne è ormai saturo. Infatti più che una «mondializzazione neoliberale» abbiamo avuto soprattutto la mondializzazione del nichilismo”. La rivoluzione, se vuole vincere di nuovo, deve affrontare questo compito immenso di critica radicale del nichilismo quale unica metafisica che è rimasta in piedi nelle nostre società.

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