La questione abitativa in Italia: i numeri della discriminazione
Di A. Soto
Io voglio: un tetto per ogni famiglia
Bartolomeo Vanzetti
La lotta per la casa, da terreno di resistenza di una minoranza attiva tra i poveri urbani, sta diventando oggi uno degli strumenti principali di opposizione sociale al modello economico e abitativo dominante. Le Marche, lontane dalla emergenza abitativa dei grandi centri metropolitani, vivono comunque da anni l’aumento della tensione e delle disuguaglianze abitative. Ad essere colpite sono le persone più sfruttate e impoverite, italiani e non, giovani e anziani. L’elemento distintivo, però, è quello di una crisi abitativa che colpisce anche nei piccoli centri. In alcuni casi riescono ad attivarsi delle reti anti-sfratto che presidiano le abitazioni per opporsi alla forza pubblica, ma la maggior parte delle esecuzioni avviene nel silenzio. Secondo dati governativi questi sono i comuni a più alta tensione abitativa: Ancona, Fabriano, Senigallia, Ascoli Piceno, Grottammare, Montegranaro, Monteprandone, Monte Urano, Porto Sant’Elpidio, San Benedetto del Tronto, Civitanova Marche, Macerata, Potenza Picena, Recanati, Colbordolo, Fano, Fermignano, Montelabbate, Pesaro, Sant’Angelo in Lizzola, Urbino. Nel 2014 sono state 2.074 le richieste di esecuzione, 1.794 gli sfratti emessi, di cui 1.700 per morosità, e 728 quelli effettivamente eseguiti nello stesso periodo.
L’articolo, che offre un quadro della situazione a livello nazionale, riassume il testo di un intervento tenuto presso uno spazio anarchico di Atene nel dicembre 2014, preparato su richiesta di alcuni gruppi locali. I dati citati sono tratti dall’Ufficio nazionale di statistica del Ministero dell’Interno, da elaborazioni dell’Unione inquilini-Cub e del Sunia-Cgil, di alcuni collettivi e dalla stampa italiana e internazionale.
Undici milioni sono le case sfitte in Europa. Ne basterebbero meno della metà per dare alloggio ai quattro milioni di senza tetto che abitano il continente. In Italia gli appartamenti vuoti sono due milioni e tra questi ci sono anche 40.000 case popolari, ovvero alloggi pubblici che non vengono assegnati.
Mentre milioni di case rimangono vuote, chi perde il lavoro o non riesce a ottenere il permesso di soggiorno (come è noto, dal 2003, con la legge Bossi-Fini, il rinnovo del permesso di soggiorno è legato al possesso di un contratto di lavoro) viene sfrattato e buttato in strada. Dal 2008 (scoppio della crisi) a oggi in Italia c’è stato un aumento dei provvedimenti esecutivi di rilascio di quasi il 50%. Vediamo la progressione: 1 provvedimento esecutivo di rilascio su 539 famiglie nel 2011, 1 su 375 nel 2012, 1 su 353 nel 2013, 1 su 334 nel 2014. Nel 2013 i provvedimenti sono stati 68.000, di cui 30.000 eseguiti con l’intervento dell’ufficiale giudiziario e in alcuni casi della forza pubblica. Nel 2014 oltre 77.000, di cui 36.000 eseguiti (più 13,5% rispetto al 2013).
Qual è la causa degli sfratti? La morosità. Se prima del 2008 essa era la causa del 50% degli sfratti, oggi la cifra raggiunge il 90%. Anche in questo caso l’aumento progressivo negli ultimi anni è evidente, e ancor più accentuat nelle regioni “ricche” (Lombardia su tutte) e nei grandi comuni: dal 2008 al 2012 (in cinque anni quindi) sono stati emessi 290.000 provvedimenti esecutivi di rilascio di cui 240.000 per morosità. Di questi 140.000 sono stati eseguiti. Negli ultimi tre anni (2013-2015) tali provvedimenti sono stati 300.000 di cui 250.000 per morosità.
Chi sono gli sfrattati? Tutti coloro i quali pagano le conseguenze della diminuzione progressiva della retribuzione netta nell’ultimo quindicennio da una parte e dell’aumento del canone d’affitto fino al 130-150% dall’altra. Ovvero, i precari con meno di 35 anni (21%), i migranti (26%), gli anziani (38%). Il 62% per cento delle famiglie sfrattate ha figli, nel 35% dei casi il cosiddetto capofamiglia ha perso il lavoro.
Entro tale contesto il decreto Lupi ha rappresentato un ulteriore “salto di qualità”. Il decreto legge n. 47 del 28 marzo 2014 (“Piano casa”) contenente misure urgenti per l’emergenza abitativa, convertito in legge il 20 maggio 2014, stabilisce tra le altre cose che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge” (art. 5). Ciò costringe migliaia di persone in una condizione di illegalità e marginalità. Senza residenza non è possibile ottenere diritti fondamentali come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’accesso al welfare, il voto. L’art. 5 è inoltre uno strumento pensato apposta per dare ulteriore legittimità all’azione repressiva del governo. Da maggio in avanti si sono moltiplicati gli sgomberi e la criminalizzazione mediatica ha supportato quella giudiziaria: decine sono i processi contro chi occupa o prova a resistere agli sfratti e si sprecano le misure cautelari, provvedimenti emanati in maniera del tutto arbitraria dalle questure, quali tra gli altri il foglio di via, l’obbligo di dimora o l’avviso orale (per un approfondimento su questi temi consiglio la lettura dell’agile testo Difesa legale. Note per una maggiore consapevolezza a cura dell’Associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione di Bologna e provincia <www.mutuosoccorso.noblogs.org>).
In Italia, va da sé, non esiste nessun investimento pubblico nelle politiche abitative e anzi varie e frequenti sono state negli anni le procedure di alienazione del patrimonio residenziale pubblico (di proprietà dei comuni, degli enti pubblici, degli Iacp), fino ad arrivare all’art. 3 del decreto Lupi che nella sua versione iniziale – poi stralciata in aula – prevedeva senza tanti infingimenti la vendita del patrimonio pubblico (case popolari comprese) per fare cassa.
Ben si comprende perché da parte dei governi e delle amministrazioni locali non c’è nessun entusiasmo all’idea di costruire case popolari. Qui il canone si aggira sui 100 euro. I comuni così preferiscono spingere sulla cosiddetta edilizia convenzionata e agevolata, dove il canone è di 350 euro. Così mentre la costruzione delle poche case popolari è lentissima, gli stabili costruiti dai privati godono di una corsia preferenziale. Inoltre è evidente che limitare il numero di case popolari significa trasformare quelle esistenti in ghetti e permettere ai proprietari di tenere più alti i canoni di affitto. A questo proposito, si pensi agli studenti, tra i più colpiti dal caro affitti. In Italia ci sono 600.000 fuori sede non pendolari che sono costretti a spendere l’80% del proprio budget in affitto. A Milano si pagano fino a 400 euro per un posto letto e 700 euro per una camera singola; a Roma 300 euro per un posto letto e 700 euro per una camera singola. E a queste cifre non ci si può sottrarre: il sistema universitario offre posti letto in strutture organizzate ad appena il 2% degli studenti fuori sede (contro il 10% in Francia e il 20% nei paesi del Nord Europa).
Per fuggire dal caro affitti servirebbero, evidentemente, le case popolari. Ma queste sono poche e le liste d’attesa per accedervi sempre più lunghe. A Bologna a fine anni Novanta in lista per una casa popolare (allora come oggi poteva essere iscritto solo chi aveva un reddito) c’erano circa 4.000 persone: oggi sono il doppio, e di case ne vengono assegnate 400/500 all’anno. A Milano sono 23.000 in attesa e ne vengono assegnate 700. In tutta Italia ci sono 65.000 persone in attesa di entrare negli alloggi popolari.
Nel nostro paese solo il 6% del patrimonio immobiliare è di edilizia residenziale pubblica, contro il 18% della Francia e il 21% della Germania e le case in affitto costituiscono appena il 25% del patrimonio immobiliare: il resto sono di proprietà. Per decenni i governi hanno spinto per fare della casa di proprietà uno status symbol e migliaia di famiglie pur di comprare si sono indebitate con le banche. Non è un caso che le banche in Italia, nell’ultimo anno, si siano mangiate mille appartamenti: sono pignoramenti per insolvenza che colpiscono chi non riesce a pagare le rate del mutuo “prima casa”.
Questi numeri evidenziano la legittimità, e necessità, del movimento di lotta per la casa. Un movimento autorganizzato e diffuso, con specificità diverse a seconda della situazione locale, capace di ottenere notevoli risultati concreti. Prendiamo le due principali città italiane: a Milano nel 2014 ci sono state 1.000 occupazioni di alloggi popolari vuoti (1.278 tentativi, 732 riusciti), a Roma 5.000 occupazioni nell’ultimo anno (e 300 sgomberi). Questo movimento oggi ha un doppio obbiettivo: risolvere il problema qui e ora attraverso i picchetti antisfratto e la pratica delle occupazioni e aprire un discorso pubblico per l’abolizione del “Piano casa” e per il blocco generalizzato di sfratti e sgomberi. È chiaro a tutti, d’altra parte, che per fare cambiare il vento, e ottenere quindi massicci investimenti in favore dell’edilizia pubblica popolare, c’è bisogno di allargare e radicalizzare il movimento di lotta, così da mettere i governi con le spalle al muro. Un’eventualità, quest’ultima, temuta non poco dalle nostre classi dirigenti, pronte a scatenare polizia e giudici contro chi è colpevole di cercare un tetto sotto cui provare a costruirsi una vita degna.