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Le prigioni andrebbero buttate via (#3)

Le prigioni andrebbero buttate via
Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram

Pubblichiamo una intervista raccolta a febbraio 2016 da Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram, detenuto nella galera di Barcaglione ad Ancona. Alla sua storia abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero #2 e questa volta siamo contenti di far parlare lui in prima persona. La repressione che ha subito ha costretto molti ad aprire gli occhi sulle reali condizioni delle carceri nelle Marche e ha reso visibile anche in provincia il fatto che una inimicizia insanabile separa i ribelli dai tutori dell’ordine della nostra società. Una vendetta legalizzata ha colpito Alessio perché da anni lotta nella strada, con lo sport popolare, a contatto con chi soffre lo sfruttamento e il razzismo sulla pelle. Le sue considerazioni sul carcere ci descrivono una realtà lontana da alcune posizioni radicali ma puramente teoriche che spesso aleggiano sul dibattito anti-carcerario e ci restituiscono un quadro inquietante delle mutazioni soggettive prodotte dalla repressione, dal razzismo e dall’isolamento sociale.

Alessio Abram si trova in carcere dal 13 novembre 2015. Sulle spalle una condanna assurda a 5 anni e 2 mesi, poi ridotta a 3 anni e 4 mesi con una udienza tenutasi a metà dicembre. È bene specificare che si tratta di una pena definitiva. Il tutto per il mancato rispetto dell’obbligo di firma in questura per un provvedimento di DASPO che lo ha colpito una decina di anni fa. Si sta parlando di quattro, cinque casi in tutto. Una cosa abnorme da cui come già più volte sottolineato traspare una chiara volontà persecutoria per il suo impegno nei movimenti.
Alessio attualmente si trova da qualche settimana al carcere del Barcaglione dopo che ha passato i primi tre mesi di prigionia a Montacuto. È stato lui a chiedere il trasferimento visto che notoriamente Barcaglione è un carcere dove si sta meglio, o forse è più opportuno dire meno peggio dell’altro.
In questi mesi ha ricevuto e continua a ricevere lettere, messaggi di solidarietà e affetto da tutta Italia e anche dall’estero da parte di compagni, associazioni, gruppi di tifosi. Un sostegno fondamentale per aiutarlo a superare una prova così difficile.
Dal punto di vista dell’iter giudiziario il prossimo 18 maggio è stata fissata l’udienza per discutere la richiesta di affido ai servizi sociali, scelta che farebbe aprire le porte del carcere. Inoltre è in ballo anche il ricorso alla Cassazione per abbassare ulteriormente la condanna ridotta a 3 anni e 4 mesi.
Abbiamo inviato ad Alessio, via lettera, alcune domande per un’intervista incentrata inevitabilmente sulla condizione carceraria.
Ecco le sue risposte.

Come è stato l’impatto con il carcere e quali sono state le tue prime impressioni?

Il carcere è un luogo che non auguri a nessuno. L’impatto è terrificante. Una volta varcati i cancelli subisci subito la prima umiliazione. In piedi completamente nudo con tre appuntati che ti guardano e ti fanno fare le flessioni per vedere se non hai nascosto della droga nel culo. Dopo le foto segnaletiche ti consegnano lo stretto necessario: piatti e forchette, un rotolo di carta igienica, spazzolino, dentifricio, coperta, lenzuola, materasso, cuscini che trascini fino ad arrivare alla tua cella. Capisci subito a caldo che hai perso molto più della tua libertà.

Che tipo di composizione sociale hai trovato, chi sono i reclusi nel carcere di Montacuto e ora a Barcaglione?

Al Barcaglione sono arrivato solo da tre giorni quindi non posso dire nulla. In ogni caso il trasferimento è stato traumatico. A Montacuto ci sono tanti, tantissimi ragazzi stranieri, la maggior parte per reati legati alla droga. C’è molta ignoranza, troppo razzismo, la maggior parte è gente di destra con tanto di simbologia. Questo è il primo impatto. Per noi compagni diventa così ancora più difficile, più dura. Ma poi gradualmente si instaurano rapporti e capisci molte cose.

In passato nel carcere di Montacuto si sono verificati numerosi casi di suicidio per il sovraffollamento. Com’è ora la situazione? Il numero dei detenuti è stato notevolmente diminuito… che contesto hai trovato?

Dicono che sia un carcere con una mortalità alta. Di suicidi o presunti tali. Oggi ad essere sinceri non si vive uno stato di sovraffollamento. Le celle ospitano quattro persone, ma sono dignitose con bidet e doccia in stanza.

Un tempo il carcere era anche l’occasione per acquisire una coscienza politica, capire che alle origini della reclusione ci sono determinate condizioni sociali. Ora quanto è difficile comunicare ai detenuti questo messaggio, favorire una loro consapevolezza?

Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Il primo impatto non è facile. Sin dall’inizio ti accorgi che noi compagni siamo troppo diversi, e non mi riferisco alla differenza dei reati. Il problema reale è che il carcere così com’è concepito non serve a niente. Le prigioni andrebbero buttate via. Ma nel frattempo gli stessi carcerati devono prendere coscienza che i protagonisti di questa battaglia sono loro, siamo noi. Questo risulta assai difficile farlo capire, così come risulta difficile farlo dall’esterno perché siamo e viviamo sotto scacco. Prima si pensa a sé stessi.

Nonostante questo, a Montacuto nei primi tre mesi ho visto qualcuno cambiare e prendere consapevolezza dei propri diritti. Abbiamo vinto una piccola battaglia per ottenere alcune cose per la stanza come un tavolino e il phon. Dopo aver inoltrato una lettera collettiva alla direttrice abbiamo ottenuto la possibilità di tenere 2/3 riunioni collettive. Ora, tramite il garante, abbiamo chiesto di rendere più a portata dei bambini la sala colloqui: togliere le reti vicino alle sbarre che sono di forte impatto traumatico, nonché di controllare i prezzi alti dei prodotti in vendita dentro il carcere.

Quali sono le problematiche maggiori che hai riscontrato e che risposta trovano dalle istituzioni interne?

Le istituzioni? Dove? E quali? Ci sono state delle visite, molto simili a quelle della gente che va allo zoo. Passano, ti guardano e se ne vanno. Il problema principale è capire a cosa dovrebbe servire il carcere.

Che tipo di attività è possibile svolgere e quanto sono utili per i detenuti?

Ci sono delle attività, corsi, ma poca cosa, con la scusa dei fondi sempre più scarsi servono al momento solo a svagarti qualche ora. Certo niente non è, ma ci pensate voi se dentro al carcere ci fossero davvero dei corsi di formazione con possibilità lavorative? Quando esce dalla prigione dopo dieci anni cosa dovrebbe fare un uomo senza soldi e con la fedina penale sporca? È chiaro che così concepito il carcere non serve a niente, come non serve a niente la visita dei parlamentari nelle modalità in cui oggi si svolge. Spero che questa mia testimonianza possa sollecitare chi di dovere per favorire un lavoro serio e costruttivo. Se in questa fase storica proprio non si può fare a meno dell’istituzione carceraria almeno ripensiamola profondamente, altrimenti è chiaro che una volta che ci entri nove volte su dieci ci ritorni.

Infine un’ultima domanda: nell’opinione pubblica è altamente diffusa una cultura securitaria. Cosa ti senti di dire in proposito? Che messaggio vuoi mandare?

Questa domanda meriterebbe davvero una intervista specifica. Si spendesse la metà dei soldi che attualmente si utilizzano per la sicurezza in favore di progetti sociali reali, sicuramente le nostre carceri sarebbero più vuote. In Italia abbiamo una giustizia, mi fa ridere chiamarla così, lenta e troppo arbitraria. Concludo salutando la terza sezione del carcere di Montacuto invitando tutti i ragazzi a continuare in quello che abbiamo iniziato perché siamo noi detenuti per primi che possiamo cambiare qualcosa. Infine un invito alle istituzioni: meno passerelle e più contatti con la popolazione carceraria.

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