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Sempre karo mi fu quest’ermo kolle! Dialogo aperto con alcuni/e artisti/e che vivono e lavorano nelle Marche (#2)

Sempre karo mi fu quest’ermo kolle!
Dialogo aperto con alcuni/e artisti/e che vivono e lavorano nelle Marche
Intervista di Vittorio con Alessio Ballerini, Giacomo Giovannetti, Fabrizio Carotti, Silvia Barchiesi, Federico Bomba

Giacomo Giovannetti - Senza titolo, novembre 2015
Giacomo Giovannetti – Senza titolo, novembre 2015

 

A partire dalla finestra aperta nello scorso numero con le immagini prodotte da Giacomo Giovannetti di Senigallia torniamo a parlare di arte contemporanea nelle Marche. A novembre 2015 abbiamo realizzato un’intervista collettiva ad un gruppo di artisti che hanno avviato delle collaborazioni grazie a Sineglossa Creative Ground, responsabile dell’agenzia Jes! di Jesi. Emergono le potenzialità ed i limiti della creazione artistica in un contesto provinciale come quello marchigiano, il rapporto con le istituzioni e con il mercato, la difficoltà ma anche il desiderio di connettersi con la società. E di cambiarla. Gli artisti intervistati sono fortemente orientati a innovare il lavoro creativo inteso come forma di professionalità e si trovano a dover fare i conti con le forze del mercato, il mondo imprenditoriale e la dipendenza dai fondi pubblici che impongono spesso i canoni estetici dominanti. Il rapporto con le lotte sociali e con gli spazi autogestiti è purtroppo debole ed episodico. Sicuramente la contaminazione culturale e la capacità di decostruire gli immaginari commerciali e mercificati che dominano il linguaggio anche nella comunicazione elettronica possono dare maggiore forza alle lotte sociali e ambientali. Serve infatti uno sforzo maggiore da parte di tutti e tutte, per rompere le vetrine della società dello spettacolo che ci impediscono di godere a pieno della bellezza anche in mezzo alla catastrofe del presente.

 

Raccontatemi il vostro lavoro a partire dal progetto “Bioculture” del 2014 che vi ha fatto conoscere.

 Alessio: Per Bioculture ho sviluppato un progetto che rispecchia il lavoro che faccio attualmente e che ho fatto anche in passato. Il mio lavoro si basa sul suono, tra sound art e sound design. Nel progetto Bioculture ho camminato insieme ad altri cinque artisti per 250 km ed ho registrato i suoni che ho incontrato lungo il percorso. Ho presentato un progetto la cui idea era quella di registrare i suoni della produzione del vino perché la promozione del prodotto biologico locale faceva parte degli obiettivi di chi ci ha finanziato. Ho pensato di registrare i suoni dei viticoltori e della produzione del vino, delle macchine ed anche della natura circostante ma non solo. Non ho registrato solo i suoni delle meccaniche e della natura ma anche quello che avevano da dire le persone che ho incontrato come i viticoltori ma non solo.

Foto di Fabrizio Carotti
Foto di Fabrizio Carotti

 

A questo tipo di progetto come ci sei arrivato?

Ho fondato una associazione che si chiama Archivio Italiano Paesaggi Sonori nata per valorizzare il paesaggio sonoro e per sostenere l’arte contemporanea e mix-media connessi al suono. L’associazione è nata a Roma insieme a Francesco Giannico, musicista che lavora con il paesaggio sonoro. Questa pratica nasce in Canada. Il progetto si chiama World Soundscape Project ed è stato avviato negli anni ’70. L’ecologia acustica è una parte importante del nostro lavoro, noi ci occupiamo del lato artistico piuttosto che scientifico. Creiamo musica non solo con strumenti tradizionali ma anche con le registrazioni che derivano dal paesaggio sonoro. E qui mi ricollego a Bioculture per cui l’obiettivo era creare delle soundscape composition, delle composizioni musicali dove oltre alle note ci sono anche registrazioni del paesaggio sonoro. Ho creato un album musicale con le registrazioni che ho fatto durante questa insolita residenza artistica.

Foto di Fabrizio Carotti
Foto di Fabrizio Carotti

 

Quando parli di paesaggio sonoro mi viene da fare un paragone con il paesaggio fisico: un paesaggio rovinato dallo sviluppo urbano che spesso deturpa il paesaggio delle campagne come dei luoghi già urbanizzati. Questo si nota a livello sonoro? Si può fare un parallelo tra la trasformazione del paesaggio visivo e la trasformazione del paesaggio sonoro?

Questa cosa non l’ho riscontrata nella camminata che si è svolta in un’area quasi incontaminata dove non c’era inquinamento acustico. Però questa relazione con il visivo esiste. Se vai a Roma o a Firenze, a Piazzale Michelangelo o al Pincio dove a livello visivo riesci a percepire tutti gli strati da decine di metri fino a due chilometri di distanza, a livello sonoro questa cosa non succede più perché hai il bordone del traffico che occlude tutto. Pensa cosa succedeva due secoli fa quando non c’era il traffico: riuscivi a sentire i rumori a chilometri di distanza. Perciò è vero che oggi è cambiato moltissimo l’aspetto uditivo rispetto a quello visivo. Ho realizzato progetti in tutta Italia e non solo, in città ed in ambiti anche rurali e quello che posso dire è che gli ambienti cittadini si assomigliano perché ci sono il traffico e tutto l’inquinamento sonoro urbano. Le città si assomigliano da questo punto di vista. Diventano interessanti quando cominci a riconoscere degli elementi che sono peculiari di un paesaggio. Ancona è una città abbastanza particolare perché c’è il porto, c’è il mare, i treni e le navi sono vicini e questo arricchisce il soundscape. Senti le sirene delle navi, il passaggio del treno e li senti vicini, in altre città non li senti, insomma non c’è solo il traffico che appiattisce tutto.

 

Adesso che paesaggi stai ascoltando?

Attualmente la mia ricerca è fortemente connessa al visivo. Mi occupo anche di video arte, e quindi tendo a voler sviluppare dei prodotti audiovisivi dove il suono è una componente molto forte. Il suono da solo è una cosa, il video da solo è una cosa, insieme creano l’audiovisivo che è un altro prodotto.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Come ti mantieni nella tua attività? Perché vivi e lavori basato nelle Marche?

Lavoro sia da solo come freelance che con l’associazione. Non faccio solo il sound designer e film-maker, scrivo progetti culturali e cerco di svilupparli. Il mio lavoro è a 360 gradi, suono dal vivo, compongo musiche per spot promozionali, sound-design per video e installazioni. Ho vissuto a Roma e Firenze. Sono tornato perché la realtà lavorativa era disastrosa mentre nelle Marche è migliore. C’è rispetto del lavoro che altrove non ho trovato. Non sto dicendo che qui sia facile sto dicendo che mi trovo meglio. Promesse non mantenute, pagamenti non evasi. Nelle Marche ho trovato più rispetto e contatto umano. Qua almeno il rispetto, il contatto umano li trovi. Pure qua c’è un alone nero però lo vedo molto meno.

Giacomo: Il lavoro che faccio io è un lavoro sull’immaginario. Sono interessato a velocizzare i processi che naturalmente avverrebbero in un’epoca di forte contaminazione. Quindi da un punto di vista poetico artistico quello che cerco di fare ormai da anni è ricucire la frammentazione visiva che sta attorno a noi. Creare una connessione forte tra i vari frammenti di società, tra i vari livelli di cultura e allo stesso tempo creare anche una connessione forte tra le dinamiche globali e la vita affettiva ed emotiva delle singole persone.

 

In questo senso il set di foto che hai pubblicato con l’artigiano del Niger che si chiama Boubacar ha colpito dritto nel segno.

Si perché è un gioco, per me è uno strumento per conoscere la realtà che ci mette di fronte a dei limiti sia emotivi sia di vergogna sociale che di abitudini. L’essenza creativa è quella dello sperimentare che passa anche attraverso il concetto di errore, di passi falsi dove le cose progettate non sono quelle che vengono fuori e con Boubacar avevo provato a vivere nel quotidiano questa sperimentazione del cambio di abito, il tentativo di mutare l’ordine del reale e trovare delle connessioni con lui che con il suo abbigliamento era così lontano da me. Nel lavoro che faccio cerco di sgretolare visivamente la società ed arrivare poco a poco a delle parti più essenziali quindi quello che ci viene detto dei migranti, degli sbarchi, mi fa piacere riportarlo ad un contesto emotivo personale, a un contesto sensoriale. Quello che ho fatto cambiandomi di abiti con Boubacar è stato di mettermi letteralmente nei suoi panni e far mettere lui nei miei. Senza scadere nella retorica politica, farlo veramente poi implica un gioco, comporta una esperienza. Quello che cerco di fare io con le mie immagini è destrutturare la società e allo stesso tempo rimetterla in mano alle persone con i suoi simboli con le sue forme creando nuovi equilibri estetici sicuramente ludici.

 

Il ruolo del creativo e dell’artista in provincia quale è?

 Sicuramente dobbiamo iniziare personalmente su di noi a fare questo lavoro e poi a livello sociale distruggere per ricostruire una nuova immagine di artista. Quello che sta chiuso a casa sua immaginando il mondo, producendo con un mecenate che arriva ogni tanto e tra una boccetta di oppio e un po’ di assenzio trova il tuo quadro e te lo rende importante e te lo mitizza è un qualcosa di superato e sbagliato, di svilente rispetto alla ricchezza e complessità di un essere umano. Quindi la prima cosa è superare il modello novecentesco e poi l’artista adesso deve essere una persona capace di rapportarsi con i diversi aspetti della contemporaneità. Non è qualcosa di facile comprensione per l’artista né per la società che lo circonda.

 

Tu hai scelto di produrre delle magliette e dei capi di abbigliamento che vendi in una bancarella, quindi hai spesso la strada come ambito di azione. Hai scelto questa come forma espressiva e di relazione o ci sei finito per necessità?

Chi mi vuole incontrare mi trova in strada con le magliette serigrafate, con i miei disegni e con la comunicazione che faccio in giro. Senza girarci intorno questa è una modalità per essere retribuito e per arrivare alla fine del mese lavorando in qualcosa che mi piace e mi appartiene ed è anche un modo di staccarsi da un modello di artista visivo che sta solo nella galleria e comunica solo con alcune persone. Lo sforzo che faccio io è quello di portare la mia estetica a volte anche fastidiosa e provocatoria a contatto con tutti. Lavorare per me significa scoprire. Più posso lavorare e più posso creare e più è possibile per me avere intuizioni, comprensioni e analisi della realtà. Quindi in questa traversata terrena della mia vita è possibile scoprire sempre di più facendo. Non è una idea che ho avuto dieci anni fa ed ora lavoro per portarla ad un livello altissimo lucidandola ma sono tante le idee, tanti insight che cerco di tenere tutti insieme. Chiedendomi spesso se la mia creatività può portarmi a incontrare nuova creatività.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Conoscete le esperienze di spazi collettivi per la creazione e per l’uso di attrezzature tecniche molto diversi tra loro come i co-working, i centri giovani o i centri sociali autogestiti? Pensate che possano essere uno strumento utile per chi si avvicina alla creazione artistica ma non ha strumenti?

 Alessio: Per quanto mi riguarda se hai i soldi la tecnologia te la compri se non li hai non te la compri. Se sei bravo e la tecnologia non ce l’hai non fai niente. Fatto sta che se faccio qualcosa oggi è perché ho avuto accesso alla tecnologia quando si sono abbassati i costi. Sono emerse altre realtà grazie alla diffusione della tecnologia, il video si è affermato e si sente sempre più parlare di storytelling.

Giacomo: Quando tu parli di spazi sociali e di possibilità bisogna vedere anche il ruolo dell’artista in un contesto alle volte ideologico o idealistico. Secondo me l’artista deve rimanere una figura che espande immaginario, allarga la percezione della realtà e cambia gli equilibri che ci sono, questo l’artista purtroppo o per fortuna lo deve fare in ogni contesto. Se c’è un artista che non ho mai apprezzato fino in fondo è Guttuso, quel tipo di arte appoggiata da un’idea con un collettivo di persone che ti rinforzano il tuo processo, a me non appartiene. Il ruolo dell’artista in questo momento visto che non si può ancora costruire un’estetica veramente interculturale è almeno quello di relativizzare tutto ciò che c’è che non sempre è comodo ad un processo politico o a un processo costruttivo. Negli spazi sociali l’artista è visto come anti-identitario, provocatorio, sovversivo e lo spazio sociale può offrire gli strumenti e condividere le esperienze fatte, creare dei link, degli spunti che rinforzano delle percezioni che vadano verso il fuori, eccentriche più che a rinforzare l’identità. Questa è la mia posizione.

Federico: Ieri mi è arrivata una mail dal Container Castelvecchio. A me una mail del genere arriva una volta al mese. Ogni mese uno spazio nuovo apre nelle Marche. Noi siamo una antenna rispetto a queste cose. Il problema è la qualità dei contenuti che si riescono a produrre in questi spazi. Infatti è molto difficile proporre interventi di qualità, perché c’è una grande attività di volontariato che dura sei mesi, un anno e poi finisce. Sicuramente non ci sono strumenti di alto livello tecnologico, non c’è una organizzazione strutturata che consenta di usufruire di alcuni servizi al meglio e quindi questi spazi nati dall’ottima volontà di persone si trovano privi di una prospettiva professionale di lungo termine. Rispetto ai percorsi artistici non basta l’aggregazione, ma servono un lavoro, una cultura del fare, serve qualcuno che ti indirizzi. L’autodidatta totale non esiste, manca un apparato che possa fare sì che l’arte possa svilupparsi, che nuovi processi artistici possano svilupparsi. Nel mondo anglosassone, agiscono come una squadra di calcio, hanno un vivaio che coltivano con una metodologia che gli consente nel lungo termine di superarci a livello artistico, sebbene i contenuti siano spesso meno convincenti. L’arte italiana risente di quello che gli europei non capiscono proprio o definiscono come provincialismo. Dipende dal fatto che noi viviamo quotidianamente dei conflitti che nel nord-europa non vivono. Non hanno i problemi che abbiamo noi e quindi non è facile per noi esportare prodotti artistici frutto del nostro genius loci, perché certe tematiche politiche non vengono comprese. Per questo molti artisti italiani si riducono, per avere una circuitazione internazionale, a proporre una versione slavata degli stilemi nordeuropei svuotati di carica conflittuale.

Alessio: A Roma senti il peso dell’Ara Pacis, del Colosseo, non riesci a fare contemporaneo. C’è un passato troppo pesante, è difficile fare contemporaneo. Il 90% di finanziamenti per la cultura sono per la conservazione dei beni, ci sono tre musei di arte contemporanea bellissimi a Roma ma fanno quello che fa la cultura italiana, portano dentro e non valorizzano quello che c’è qua, sono esterofili. Quindi c’è questo problema della esterofilia che è pesantissimo.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Giacomo: L’esterofilia è un modo di staccarsi da delle dinamiche fastidiose di cui l’arte potrebbe parlare se utilizzata come uno strumento di conoscenza. È più facile valorizzare performances un po’ asettiche, rispetto a un’opera che mette in crisi o cerca di modificare un assetto già esistente.

Federico: Se vai in Svizzera dove gli artisti sono mantenuti dal loro sussidio, non succede nulla a livello artistico. A Bruxelles non succede nulla se non è per gli stranieri che arrivano e hanno ancora quella carica, quella spinta forte di contrasto, prima di ricevere il sussidio di disoccupazione! Riescono a produrre delle cose che dal mio punto di vista sono molto più interessanti del piattume che vedi; che poi è quello che forma il gusto dominante e che ci viene rimandato indietro sotto forma di prodotti culturali. Per cui, se devi partecipare a dei progetti come Creative Europe, il programma europeo di finanziamento alla cultura, devi avere dei partner europei e ti devi rifare a dei paradigmi uniformanti, a dei format che hanno delle caratteristiche che sono prettamente nordeuropee. È la modalità di pensiero che sta dietro alla formulazione di un progetto che ti impone di rinunciare alle tue peculiarità, come se la mozzarella campana fosse uguale alla mozzarella prodotta in Germania, e io trovo che questo sia un problema molto serio. Il progetto Bioculture è partito dal vino, perché i viticoltori resistenti raccontati da Bioculture non accettano di piegarsi alle logiche imposte dagli importatori esteri che vogliono il vino dolce per andare incontro alle richieste del mercato USA. Questi stanno cercando di creare una dinamica di resistenza perché, coltivando pochi ettari, riescono a vendere a chi capisce questa qualità. Vendere il vino è più facile che vendere l’arte perché il vino crea una convivialità più immediata rispetto all’arte contemporanea. La filosofia di resistenza degli artisti è la stessa dei viticoltori che raccontavamo, c’era un dialogo naturale con gli artisti selezionati. Cerchiamo di fare in modo che l’arte possa continuare ad essere quello che è, che gli artisti non debbano fare marketing e comunicazione, mantenere una propria linea poetica che possa valorizzare un sistema produttivo economico come quello del turismo senza essere costretti a fare marchette. Dunque il ragionamento dietro il progetto Bioculture non nasce primariamente del desiderio di promuovere le Marche, ma dalla domanda su come si fa a far sopravvivere gli artisti attraverso la loro produzione.

Fabrizio: Mi occupo di fotografia e video e mi interessa tutto quello che concerne una riflessione sull’immagine. Per Bioculture ho realizzato una serie di video, anche se l’approccio è stato molto fotografico. In passato costruivo set fotografici di persone, lavorando sulla trasfigurazione del corpo; in questi anni mi sto concentrando su un approccio più simbolico alla realtà, cerco di non toccare niente fino all’editing. Il progetto di Bioculture mi ha visto coinvolto in una collaborazione per me nuovissima, con un’attrice di teatro fisico, Simona Sala. Mentre io filmavo paesaggi ed eseguivo video-ritratti alle persone che incontravo, Simona si inseriva nell’inquadratura improvvisando delle performance. Non sapevamo mai cosa sarebbe venuto fuori; a volte si sono create situazioni comiche, a volte poetiche; è stato il nostro modo di lasciare una traccia sul territorio. Stilisticamente questo lavoro si allontana moltissimo dal reportage classico, dalla concezione dell’istantanea che congela il momento decisivo; una fonte d’ispirazione è stato il reportage di ultima generazione, mi riferisco ai lavori di Alech Soth per esempio, che inserisce ritratti di posa ambientati all’interno della narrazione. Questo discorso della dilatazione del ritratto nel video, mi ha affascinato sin da subito, infatti il prolungamento del tempo di posa, che è tempo di ripresa, induce la persona a una serie di movimenti o micromovimenti molto interessanti. In queste riprese fatte di imprevedibilità è come se si aprissero nuove strade di contatto tra la fotografia come rappresentazione e la realtà nuda. L’intervento di Simona inoltre moltiplica i mondi possibili e a volte sembra di stare in territori immaginifici, mentre tutto è veramente spontaneo e reale. Durante la camminata ho riflettuto a lungo sull’estetica del paesaggio, su come è cambiato il linguaggio attraverso fotografi come Luigi Ghirri o Guido Guidi; di quanto ci stiamo avvicinando a modelli estetici europei e internazionali. Da tre anni insieme a Milo Montelli e Chiara Cecchetti, ho fondato Wishot, una scuola di fotografia che si occupa di formazione e diffusione della fotografia contemporanea e insieme a Milo, che ha una sua casa editrice che si chiama Skinnerboox. Collaboriamo nella realizzazione di libri fotografici d’autore che poi girano e incontrano i gusti di tutto il mondo. Ho avuto modo di constatare che in Italia, la maggior parte dei fotografi sono ancora legati a un certo pittorialismo, cioè concepiscono la fotografia come un quadro e cercano di avvicinarsi a quell’estetica classica che vede la composizione ben formata al centro di ogni riflessione. Una nicchia che si sta allargando, invece, è molto più in contatto con le estetiche europee e mette in primo piano la progettualità e la riflessione concettuale. Noi come associazione siamo più vicini a questo secondo approccio, anche se risulta molto difficile portarlo nel territorio. Anno dopo anno ci stiamo impegnando per portare i fotografi che seguono i nostri corsi a seguire un percorso più autoriale e che non si fermi, a livello estetico, alla pura ricerca del bello formale. Questo atteggiamento comprende una messa in discussione dei propri canoni e questo è molto difficile da accettare. Nonostante tutto rimaniamo coerenti a questa scelta, anche se poi, a livello professionale, bisogna scendere a compromessi. Se si vuole lavorare con il video e la fotografia nella provincia di Ancona, devi per forza mediare i linguaggi, per venire incontro ai gusti del cliente. Poi per progetti dove sei più libero, come per Bioculture, puoi portare avanti un discorso di ricerca, contribuendo in questo modo ad apportare modifiche al gusto. Un altro aspetto molto importante che noto in provincia, è che la gente non ha la coscienza di quello che sia il lavoro artistico, si tende infatti a pensare all’artista in modo romantico, come colui che crea dal nulla per talento visionario. Invece non si sa che ogni artista che lavora seriamente deve sviluppare progetti molto razionali alla base della sua espressione e questo comporta molto studio, capacità di programmazione, coerenza e progettualità.

 

Non pensi che si possa rompere la distanza tra il locale e il globale?

I mezzi che abbiamo a disposizione tutti come internet stanno velocizzando il processo, ma è molto importante che anche le istituzioni si diano da fare e comprendano il problema e aiutino chi cerca di portare i linguaggi contemporanei a livello locale. Spesso capita che alcuni progetti vengano approvati, ma poi difficilmente si riesce a dare continuità e rimangono episodi fine a se stessi. Invece è molto importante pianificare progetti a lunga scadenza, perché per mettere in discussione la propria estetica e le proprie concezioni non basta un anno di lavoro.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

In questa formazione dell’estetica quale ruolo hanno le università come Urbino, Ancona e Macerata? Riescono a produrre trasformazioni sul territorio?

 Secondo me il centro più importante a livello di formazione è l’ISIA ad Urbino, non vedo Macerata o altre università in grado di stare al passo con quello che fa l’ISIA a Urbino con professori come Guidi o Sonnoli. È normale poi che molti alunni di questa scuola si ritrovino a lavorare anche nel territorio, portando il loro contributo e influenzando il linguaggio.

Silvia: La mia esperienza nel campo dell’arte è più breve. Ho partecipato a Bioculture come interprete di Rachel Ross Reid. Io traducevo per lei i racconti che incontravamo nel territorio, dai contadini, dalla gente, e poi ho scritto i testi per Bioculture. Con Giorgia Gagliardini faccio lavori di istallazioni di light art e partecipiamo a dei festival, non abbiamo ancora fatto lavori indipendenti da situazioni di questo tipo, organizziamo per i festival delle installazioni site specific. Io lavoro con il teatro ed ho fondato il Gruppo Boote. Credo che ci sia una percezione della cultura nella nostra zona molto provinciale molto diversa dalla realtà. Si ha la percezione che non accada nulla invece penso che ci sia un grandissimo fermento. L’arte è come la filosofia e ci saranno sempre artisti in ogni posto ed in ogni tempo e quello che le Marche hanno di molto bello e che può favorire una produzione artistica interessante è il fatto che gli artisti si possono incontrare facilmente e questo permette la creazione di rapporti di collaborazione molto autentici. Ho la sensazione che qui le persone riescano ad entrare in connessione da una zona all’altra con facilità non è come in una metropoli. Qui i contatti funzionano e se una persona vuole creare qualcosa e circondarsi di persone che hanno interessi comuni può farlo. La provincialità delle Marche è un punto di forza per questi aspetti ma ci sono sicuramente molte difficoltà economiche. Sta aumentando anche la coscienza riguardo al fatto che la luce può essere anche un’arte. Le opere più interessanti di light art si fondano su concetti molto scarni ma questo è il loro forte perché sono idee semplici realizzate con materiali e tecniche innovative.

 

L’estetica è un effetto del mercato e dell’egemonia economica. Quando parlo di autonomia è per capire se nonostante la situazione di subalternità culturale ed economica esistono iniziative che la contrastano. C’è la possibilità da parte degli artisti di spostare degli equilibri estetici e sociali in modo autonomo?

Alessio: Quando le istituzioni hanno visto che una cosa funzionava l’hanno fatta propria, il mainstream si nutre dell’underground. È anche un bene alla fine perché le cose un po’ cambiano, per esempio io credo che Bioculture sia stato fatto anche perché va di moda negli ultimi anni questa cosa del bio, prima non gliene fregava a nessuno del bio, però adesso è un mezzo per fare delle cose positive.

Federico: Io faccio parte di una associazione che si chiama Sineglossa Creative Ground e tutto quello che stiamo tentando di fare è di rendere gli artisti autonomi, consapevoli della loro professionalità e delle loro competenze per non dover dipendere, per quanto possibile, da dinamiche esterne. Il processo di autodeterminazione dell’artista è inevitabile se non si vuole stare dietro a tutta una serie di istituzioni che ti impongono il loro gusto, che ti dicono se sei bravo e non sei bravo etc. Bioculture è uno spinoff di Sineglossa Creative ground, che ha messo in rete 450 creativi della Regione.

Giacomo: Secondo me il processo creativo ha sempre una componente individuale ed autonoma. Poi sta alla volontà delle singole persone di riportarlo nelle esperienze concrete della quotidianità e capire fino a che punto quello che è stato creato invade la quotidianità, fino a che punto siamo pronti a portare l’estetica creativa nel quotidiano. Quello che ho apprezzato del progetto Nottenera è di aver creato un Nottenera junior valorizzando gli artisti negli ambiti scolastici. Una estetica lontana a volte da quella delle insegnanti influenza la scuola e l’arricchisce con i linguaggi dell’arte contemporanea.

Silvia: Chi lavora per l’arte ci lavora tanto, ma non è semplice. Ci sono interessi che si intrecciano e in un evento molto bello non so neanche quanto si riesca a prescindere dalla domanda del pubblico, da quello che vuole vedere. Anche questa è una scelta: in quanta percentuale vuoi stravolgere la visione di chi arriva? In teoria l’artista dovrebbe fare questo ma è complesso.

Fabrizio: Alla base di Bioculture c’è stata una filosofia d’aggregazione e di influenza reciproca tra gli artisti. La collaborazione tra saperi diversi, non solo aiuta il singolo a sostenere economicamente i suoi progetti, tramite l’aiuto dei collaboratori, ma crea un interscambio assolutamente necessario allo sviluppo di un progetto artistico. Io mi sento cambiato dopo Bioculture, capisco di aver assorbito i saperi degli altri, mi rendo conto che il mio lavoro è cambiato e con esso quello che adesso posso mostrare e condividere con il territorio.

Federico: Ho deciso di lavorare a livello politico per l’autodeterminazione degli artisti. Qualche anno fa sono tornato ad Ancona e con Alessia Tripaldi e Sabrina Maggiori, che è la direttrice di Nottenera, abbiamo iniziato a lavorare alla Scuola del Contemporaneo, un progetto di formazione per diffondere la cultura del contemporaneo destinato a chi non è artista. Avere qualcosa da dire e trovare una forma per poterlo dire è una cosa complessa. Ci interessava che gli allievi potessero rendersi conto di quanto è difficile la creazione. In questo modo quando torneranno a vedere un’opera d’arte contemporanea potranno mettersi all’interno del processo senza esprimere immediatamente un giudizio, ma dialogando con l’opera. Dalla Scuola del Contemporaneo è nato Jes! come un contenitore che ha l’obiettivo di rafforzare la presenza degli artisti nella nostra zona, perché se ne stanno andando tutti. All’inizio doveva essere un modo per animare la città di Jesi. Avevamo intuito che c’erano dei problemi nella creazione artistica ma non avevamo idee di come risolverli. Adesso realizziamo soluzioni creative per organizzazioni pubbliche e private. Se devi rifare la segnaletica del centro storico, invece di fare i cartelli marroni con il geometra, chiama un artista che ti fa i cartelli. Stiamo facendo indagini di mercato, interviste agli imprenditori per capire se il privato è interessato e a cosa e come lo possiamo convincere… È una strada lunga però ci stiamo investendo perché crediamo sia un’ottima opportunità sia per gli artisti che per le imprese.

 

Francesco Paci - Light art
Francesco Paci – Light art

 

E se invece degli imprenditori vi chiamasse un movimento come quello contro le trivelle?

Giacomo: Io volevo fare il progetto Si-Biglia invece di Sibilla [progetto di stoccaggio di CO2 sottomarino davanti alle coste di Senigallia N.d.R.] una pista di biglie che collega tutto il litorale marchigiano. Una cosa da guinness dei primati, bella gioiosa che facesse fermare le persone attraverso un’esperienza sensoriale. La sola trivellazione che desidera un bambino è quella di una pista da biglie. Ma sinceramente i compagni mi hanno mandato a cagare! (ride) Non credo che mi abbiano preso sul serio! Se davvero ti sta a cuore un tema devi imparare a comunicarlo bene. Se davvero voglio ottenere ciò che desidero devo ottenerlo con cura e rispetto, chiedendomi cosa arriva all’altra persona a prescindere dalla convinzione di essere dalla parte giusta.

Federico: Per il momento non ci è mai successo ma comunque noi percepiamo il nostro lavoro come lavoro politico: nelle scorse settimane Sabrina ad esempio si è molto appassionata alla lotta contro il TTIP [Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, in corso di discussione tra UE e USA, N.d.R.]. Non c’è mai stata una proposta seria da parte di un movimento fino ad ora e comunque dipende dall’entità dell’impegno. Io e Sabrina siamo molto attenti ai movimenti di pensiero, io provengo da realtà bolognesi impegnate politicamente, la mia tesi l’ho fatta sulla democrazia partecipativa che poi ho riversato nell’arte. Anche se quasi mai ho parlato direttamente di questioni politiche nei miei lavori, politico è stato sempre il modo di stare dentro le cose.

 

Links citati nell’articolo

 Beautiful Ground
http://www.alessioballerini.com/beautifulground/

Bioculture
www.bioculture.it

Container Castelvecchio
https://www.facebook.com/ContainerCastelvecchio

Jes!
http://www.jesplease.it/

Nottenera
http://www.nottenera.it/2015/

Skinnerboox editore indipendente di fotografia contemporanea
http://www.skinnerboox.com/it/

Upupa e Colibrì
http://www.upupaecolibri.com/

Weshot
http://www.wishotlab.it/

Da leggere
Valerio Cuccaroni, L’Arcatana: viaggio nelle Marche creative under 35, Camerano, Gwynplaine, 2013

 

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