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Anarchismo in movimento (#0)

Anarchismo in movimento
Di A. Soto

Se il potere è una relazione di forze, dove c’è potere c’è anche resistenza

Non si può non riconoscere, a diverse latitudini, l’impetuosa rinascita dell’anarchismo. È questa la constatazione da cui muove Tomás Ibañez nel suo ultimo lavoro edito in Italia, Anarchismo in movimento (Milano, elèuthera, 2014). Il libro, uscito dapprima in spagnolo per le edizioni Virus, è l’ultimo prodotto dell’impegno profuso dall’autore, già professore di psicologia sociale all’Università Autonoma di Barcellona, proprio in direzione di una rinascita e, insieme, di un rinnovamento dell’anarchismo. Degli scritti di Ibañez abbiamo imparato da tempo ad apprezzare il carattere intelligentemente eretico, sin dagli articoli apparsi su «Volontà» negli anni Ottanta e riprodotti anche in francese (ad esempio sull’ottima rivista «Réfractions») e, in alcuni casi, in greco, fino ad arrivare ai contributi più recenti pubblicati dal periodico «Libertaria» e dalla stessa elèuthera (Il libero pensiero. Elogio del relativismo, 2007; con Manuel Castells, Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale, 2014).

Il rinnovamento dell’anarchismo implica il rifiuto categorico di qualsiasi determinismo, la consapevolezza che se la storia andasse inesorabilmente verso un orizzonte libertario, rimarrebbe in realtà ben poco spazio all’idea di libertà. Il campo socio storico, come già messo in evidenza da Castoriadis, non può che essere considerato come aperto e plasmabile da una creatività radicale che nella sua opera ha il merito di destrutturare i tentativi di imbalsamazione dell’anarchismo, operati da alcuni ambiti del movimento, oggi minoritari (i “guardiani del tempio”): la preminenza del culto della memoria porta alla conservazione, alla difesa gelosa del patrimonio, alla sterile ripetizione.

L’anarchia, scrive Ibañez, non è un’entità ontologica, non ha cioè un’esistenza in sé, ma è il prodotto di un insieme di relazioni all’interno di una cultura, di una società e di un’epoca determinate. In questo senso, a differenza di quanto sostiene Hakim Bay per il quale l’anarchismo sarebbe il lato oscuro dell’anarchia (la pervertirebbe negandola nella pratica), l’anarchia è intrinsecamente connessa all’anarchismo e non è quindi data per sempre, ma può variare in consonanza con le eventuali fluttuazioni del movimento anarchico. Così come l’anarchismo è nato entro un contesto di sviluppo capitalistico, l’anarchia vive in un contesto di dominio, come termine antinomico rispetto a esso. Perché essa possa manifestarsi devono esistere dispositivi del dominio e quindi forme di resistenza a esso. In altre parole: si danno le condizioni di possibilità dell’anarchia laddove c’è dominio ed è proprio nelle pratiche della lotta contro il dominio che si forgia continuamente l’anarchismo. Al di fuori di queste ristagna e marcisce. Così la rilevanza e l’attualità dell’anarchismo sono cresciute proporzionalmente alla crescita della pervasività e sofisticazione delle relazioni nella vita quotidiana. L’onnipresenza dell’esercizio del potere intuito da Foucault da una parte e dall’altra la messa a valore di tutte le attività anche fuori dal mondo del lavoro (risparmi, tempo libero, salute, alloggio, educazione, cura ecc.) hanno moltiplicato le occasioni di intervento concreto dell’anarchismo e di nuove soggettività antagoniste e radicali.

Dal maggio ’68 in avanti, e con un rapido impulso agli inizi degli anni Duemila, si è andato affermando un nuovo tipo di anarchismo, che ha debordato i confini del movimento anarchico stesso. Esso si manifesta sia nelle piazze e nelle lotte sia negli ambiti culturali e universitari, come dimostra la creazione di reti, accademiche e non, di riflessione teorica, tra cui l’Anarchist Studies Network (nata nel 2005) e i North American Anarchist Studies (2009), e il continuo susseguirsi di convegni storici, politici, filosofici dedicati al pensiero libertario in diverse parti del mondo.

Così l’anarchismo non è oggi più l’unico depositario dei principi anti-gerarchici, antiautoritari, orizzontali, di diffidenza verso qualunque dispositivo di potere. Questi elementi sono fatti propri da ambienti che non si dichiarano apertamente anarchici e a volte rifiutano di identificarsi con il movimento specifico: è l’anarchismo “diffuso”, non identitario.

L’anarchismo va inteso quindi come movimento verso una società giusta, libera e sostenibile e non come dottrina. Esso è intrinsecamente plurale perché distante dalla ricerca dell’egemonia sulla società nel suo complesso con le implicazioni totalitarie che ciò inevitabilmente comporta. Fermo su due principi base, che sono la giustizia sociale e la libertà tra eguali, non è (più) universalista, ma pluralista e relativista (consapevole e critico del suo eurocentrismo e delle sue radici cristiane); è attento a conservare la fluidità e la flessibilità delle reti evitando la cristallizzazione di forme troppo forti di coordinamento che sono efficaci solo in apparenza e rischiano invece di rendere sterili le lotte; mantiene il concetto di rivoluzione ridefinendolo in un’ottica di rottura radicale sì, ma priva di qualunque prospettiva escatologica.

Il suo obiettivo è la trasformazione del presente, una trasformazione per forza di cose locale e parziale, articolata attorno a obiettivi concreti e specifici. L’anarchismo contemporaneo è, sulla scia degli insegnamenti di Gustav Landauer e, in un’altra epoca, di Colin Ward, costruttivo, foriero cioè di costruzione di alternative ispirate a principi altri da quelli del dominio, che sanno intrecciare vita e politica, laddove modi di vita collettivi sono, anche, modi di lotta, destrutturando finalmente quella falsa dicotomia stabilita da Murray Bookchin a metà degli anni Novanta tra anarchismo sociale (o organizzato) e anarchismo come stile di vita. La capacità costruttiva permette di strappare spazi al sistema e di costruire modi di vita più soddisfacenti di quelli offerti dai miraggi del mercantilismo consumista.

Così gran parte del movimento anarchico attuale è nei fatti lontano dal concetto di struttura permanente, stabile, inclusiva e articolata attorno a basi programmatiche, caro a un certo anarchismo organizzato “classico”, che sembra poco adatto alle presenti condizioni sociali. Per Ibañez dare priorità alla costruzione di un’organizzazione anarchica non ha altri risultati se non distogliere da altre attività più direttamente incentrate sulle lotte e alimenta la falsa convinzione che una forte struttura libertaria risolverebbe molte difficoltà. L’anarchismo contemporaneo è sociale non in quanto fedele a un modello di organizzazione classico, ma perché è immerso nei movimenti sociali, che di esso sono, almeno in parte, impregnati. È questa contaminazione, la presenza cioè attiva nei vari momenti – alti e bassi – di mobilitazione, che ne ha permesso la rinascita e il rinnovamento.

Esso, infine, è necessariamente mutevole perché la sua immutabilità entrerebbe in contraddizione con il modo di essere che gli è proprio. La simbiosi tra pensiero e azione, sua caratteristica principe sin dalle teorizzazioni di Proudhon e Bakunin, fa sì che i principi si costituiscano attraverso l’azione, e a loro volta la orientino. Se ciò che muove l’anarchismo sono i concetti di immaginario e di utopia, intesa come incitamento alla lotta e non come progetto di futuro in cerca di realizzazione, esso è in grado di generare nuove idee solo quando mette in atto nuove pratiche.

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