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Ho aperto gli occhi e ho visto Kobane nel sole (#0)

Ho aperto gli occhi e ho visto Kobane nel sole
Di Anonimo compagno catapultato in Kurdistan

 Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca

Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

Da settembre 2014, quando le immagini delle guerrigliere con il kalashnikov hanno bucato gli schermi tutto il mondo ha scoperto che esisteva Kobane, che i Curdi continuavano ad essere un popolo oppresso e che le loro organizzazioni politiche e militari erano una anomalia non cancellabile dalla storia del Medio Oriente. Dopo tre anni dall’inizio della guerra civile in Siria, la maggior parte dei cittadini occidentali hanno scoperto che in quella tragedia esisteva anche un progetto politico capace di resistere al fondamentalismo e di costruire percorsi politici per superare il capitalismo e l’autoritarismo patriarcale. Molti percorsi di solidarietà con le lotte delle organizzazioni indipendentiste curde presenti in Italia sono di lunga durata, risalgono almeno agli anni ’90, alla stagione di Dino Frisullo e di Ocalan in Italia mentre alcune si radicano in una persistente solidarietà tra organizzazioni marxiste ed internazionaliste ed altre a sentimenti umanitari e universalistici o a progetti di cooperazione. In quest’ultimo anno è nato anche qualcosa di nuovo, sulla spinta della novità della proposta politica e sociale che viene raccontata dal Rojava (Kurdistan siriano) e dal Kurdistan del Nord in territorio turco. Autogestione, partecipazione orizzontale, parità e liberazione per il genere femminile, socialismo ed ecologia: sono concetti e pratiche che hanno conquistato l’attenzione ed il cuore di una larga parte di compagni e compagne di centri sociali autogestiti, collettivi universitari ma anche di associazioni e persone della strada. Nelle Marche negli ultimi due anni l’attenzione per quello che succede in Turchia e Medio Oriente è cresciuta di pari passo con una partecipazione diffusa sui territori, con molte iniziative di informazione, raccolta di fondi ed anche di protesta. Prendere parola sui conflitti scoppiati dopo la stagione delle cosiddette “primavere arabe” non è stato facile, rompere la tenaglia che immobilizza la gente comune tra il fascismo islamista ed il militarismo occidentale richiede di mettersi in viaggio, di usare l’intelligenza ed anche il cuore. Dall’occupazione del Consolato turco di Ancona in occasione della rivolta di Gezi Park nel 2013 fino alla Carovana per il Newroz 2015, sono state decine le iniziative pubbliche che hanno visto una partecipazione crescente ed un rinnovato interesse per le diverse campagne di solidarietà internazionale. La grande visibilità offerta alla storia di Karim, militante del centro sociale Arvultura di Senigallia che ha combattuto con lo YPG in Rojava ha contribuito a rendere visibile un tessuto di relazioni concrete impegnate a sostegno di una lotta di liberazione sociale. Fare una lista di tutte le iniziative sarebbe impossibile, ma vorremmo tornare anche in altre occasioni ad approfondire il tema delle ragioni e delle forme dell’internazionalismo di oggi raccontando altre storie dalle nostre città e paesi. Questa volta pubblichiamo una testimonianza dalla carovana per il Newroz 2015 organizzata da Uiki Onlus Italia a cui hanno partecipato ben cinque persone da diverse esperienze sociali ed associative delle Marche.

 Kobane, aprile 2015, combattente YPJ - Foto di Maria Novella De Luca

Kobane, aprile 2015, combattente YPJ – Foto di Maria Novella De Luca

Non sono un esperto della storia e delle lotte del popolo kurdo, lo dichiaro come premessa, perché una delle ragioni fondamentali del viaggio che ho intrapreso è stata la conoscenza ed il desiderio di condivisione politica e perciò umana.

Certamente sono molti anni che seguo in maniera sporadica le vicende della lotta per l’indipendenza dal popolo kurdo. Nel mio studio pieno di libri e carte ammucchiate a strati tempo fa ho riesumato un volantino della associazione Ya Basta del 1999 “Il cuore d’Europa”. Si racconta dell’assalto alla Turkish Airlines a Roma con l’ariete, dei treni collettivi contro le frontiere, delle manifestazioni per la libertà di Ocalan che sono state le mie prime esperienze politiche fuori dalla sede universitaria di Bologna. Poi tante cose sono cambiate e per anni ho seguito da vicino le lotte rivoluzionarie in Messico, gli Zapatisti, la Comune di Oaxaca, l’Altra Campagna. Le lotte in Medio Oriente erano state per me sempre difficili da decifrare, una esperienza in Tunisia nel 2011 mi aveva aperto gli occhi ma anche sbattuto contro una realtà difficile da attraversare per i tanti ostacoli linguistici e culturali.

Più recentemente attraverso gli articoli dell’ottima rivista Nunatak e grazie alla rete ho conosciuto la nascita dell’esperimento di autogestione ed autonomia locale in senso comunista dei Cantoni Curdi del Rojava, nel nord della Siria. Poi ci sono stati tre elementi che mi hanno convinto a non accontentarmi della simpatia passiva: l’articolo di David Greaber in sostegno alla rivoluzione in Rojava, alcuni articoli che la mettevano in relazione con il Chiapas zapatista e la notizia che il giovane Karim del centro sociale Arvultura di Senigallia, dopo un breve soggiorno nei campi profughi sulla frontiera di Suruc, aveva scelto a gennaio di arruolarsi nelle YPG, le forze armate del PKK in Siria. A novembre in collaborazione con dei compagni anarchici del Piemonte abbiamo contribuito ad organizzare un ciclo di incontri a Rimini, Urbino, Ancona e Chieti che hanno riscosso molto interesse.

Il 17 marzo sono partito senza molta preparazione e con un compagno dell’autonomia diffusa dalla costa Est. Abbiamo aderito alla iniziativa “Carovana per il Newroz 2015” della Rete Kurdistan, promossa da Uiki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. Il numero dei partecipanti è stato il primo dato notevole, 136 persone da tantissime province e città. Dalle Marche la gradevole sorpresa di altri quattro compagni, dai centri sociali e dal tessuto associativo e sociale che ancora esiste anche nei piccoli centri. Insieme al numero è stata presente una notevole varietà umana e di provenienze geografiche e politiche, che ha fatto sicuramente la ricchezza della delegazione ma ha portato anche a qualche limite organizzativo e di coesione del gruppo come spesso accade in questo tipo di iniziative.

Poiché volevamo raggiungere almeno Kobane per avere un contatto diretto con i compagni e le compagne del Rojava, il compagno ed io ci siamo iscritti nel gruppo di osservatori che è stato basato a Sanliurfa nel sud-est della Turchia a poche decine di km dal confine. Abbiamo scoperto una città molto grande con più di un milione e mezzo di abitanti, ricca di storia stratificata nel suo centro e densamente costruita nei sobborghi pieni di palazzoni, negozi e viali frutto del boom immobiliare. Nel corso delle giornate l’itinerario organizzato ci ha portato a compiere una serie di viste suddivisi in gruppi di 20 persone che si alternavano nei vari giorni a visitare nell’ordine: i campi profughi Ezidi e la municipalità dell’HDP (Partito democratico del popolo) di Viransehir, 60 km ad Est sulla strada per Diyarbakir, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani IHD di Urfa, i rappresentanti e militanti di base del partito HDP di Urfa, la municipalità della città di Suruc sulla frontiera con la Siria dove sono situati la maggior parte dei campi rimasti sul lato Turco. In questa città abbiamo visitato il centro culturale Amara, alcuni campi profughi autogestiti dal municipio dell’HDP ed il villaggio di Mesher che è stato per mesi in prima linea nella lotta per la liberazione di Kobane e per l’accoglienza dei profughi.

Posto di blocco turco sul confine di Kobane - Foto di Maria Novella De Luca
Posto di blocco turco sul confine di Kobane – Foto di Maria Novella De Luca

 

Ad Urfa e Viransheir abbiamo partecipato alle festività del Newroz. Questo tipo di celebrazione ha l’aspetto di un grande festival di musica, balli, comizi. Si svolge in grandi spazi pubblici e vede la partecipazione di tutte le classi sociali e le età. Intorno un dispiegamento di polizia in numero moderato vigilava, ha perquisito la gente agli ingressi, qualche compagno italiano sporadicamente è stato fermato senza troppa convinzione, è bastato che ci facessimo sotto in gruppo per dissuadere la polizia da ulteriori azioni. Entrambe le feste, come la maggior parte di quelle che si sono svolte in Kurdistan, sono finite senza scontri, per la prima volta in trent’anni. Nell’aria c’è un tentativo di dialogo politico tra il PKK ed il governo, promosso dalla proposta di Ocalan che dal carcere ha invitato a lasciare la lotta armata in Turchia in cambio di una reale riforma costituzionale democratica. Tanto è bastato per calmare gli animi nelle strade, ma solo per qualche giorno. Alla fine di marzo sono ricominciate le operazioni militari contro il PKK in territorio turco e la repressione contro i movimenti ad Istanbul ed Ankara a suon di arresti e feriti.

L’accoglienza a Suruc non è stata delle migliori. Per giorni i nostri accompagnatori curdi avevano provato a dissuaderci dal raggiungere l’obiettivo di entrare a Kobane per non precisati problemi di sicurezza ed organizzativi. In realtà nel corso delle assemblee che siamo riusciti ad organizzare con la delegazione, non erano emerse motivazioni esplicite per rinunciare se non il rischio di essere bloccati dal potere discrezionale delle autorità militari. Così abbiamo spinto, anche contro il parere delle parti più moderate della delegazione, per inoltrare comunque la richiesta alle autorità di frontiera per l’ingresso di tutti e 60 i membri della delegazione. Era infatti importante secondo noi rendere esplicito il sostegno politico all’esperienza del Rojava, il nostro tributo di rispetto e pietà per i morti nella difesa di Kobane, la nostra solidarietà militante. Purtroppo il 21 marzo è iniziato sotto i peggiori auspici. La sera prima è arrivata la notizia della doppia autobomba contro il Newroz curdo di Hasake, nel cantone di Cizire, Rojava orientale. Mentre il conto dei morti continuava a salire la pioggia cadeva fitta. Siamo arrivati comunque con due furgoni con 40 persone sul confine senza nessun accompagnatore locale. La città appariva tristissima sotto il cielo grigio, grigie le tende dei campi profughi, grigi i palazzi sbrecciati e la strada infangata. I militari di guardia al confine hanno dissuaso l’autista anche solo a sostare, fuori la pioggia cadeva battente. Ha rigirato il furgone e siamo stati costretti a tornare indietro, senza troppo rammarico dei più.

Il giorno dopo siamo tornati a Suruc, abbiamo incontrato il sindaco curdo del municipio che scusandosi per il disagio del blocco del giorno prima ci ha spiegato come anche per i curdi e per altre delegazioni il blocco della frontiera sia un problema grave. Per non parlare dei tanti combattenti e profughi morti bloccati sulla frontiera nei mesi precedenti. Mentre l’esercito turco infatti dava riparo e cure negli ospedali delle città di frontiera ai combattenti di Isis, ha lasciato morire decine di combattenti kurdi dissanguati nelle auto e nelle ambulanze. Quella fase oggi sembra finita, ma non è certo arrivata la pace, anzi lo schieramento militare sul confine è imponente ed il nemico sono come sempre i curdi.

Sotto il sole finalmente caldo, siamo tornati sul confine. A poche centinaia di metri dai reticolati, sotto una capanna di terra cruda ci hanno mostrato un piccolo santuario nascosto con decine di foto di caduti del PKK, del YPG e YPJ, tra cui ho riconosciuto anche la foto di Ashley Johnston, australiano, caduto in combattimento nelle scorse settimane.

Ci fermiamo sulla linea di frontiera, senza un motivo apparente.

Una buca mi sveglia dal torpore del viaggio, apro gli occhi e vedo a poche centinaia di metri Kobane, uno scheletro grigio da cui si alzano sul fare della sera dei fuochi di bivacchi. I militari ci spiano dalle torrette con i binocoli. Sui tetti sventrati e le macerie sventolano le bandiere triangolari delle YPG, la stella rossa per ora ha vinto.

Intorno a noi gli animali pascolano sul prato attorno ai reticolati che dividono l’inferno dal resto del mondo, i bambini giocano e si fanno fotografare, ascoltiamo la testimonianza di un uomo visibilmente emozionato. Dietro le finestre delle giovani ragazze ci guardano nascoste.

Kobane vista dal confine turco - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca

 

Dopo la liberazione di Kobane, molti profughi hanno iniziato a fare ritorno anche se ci hanno raccontato come dall’altra parte della frontiera la situazione sia tutt’ora precaria e rischiosa. Tra le delegazioni presenti nella carovana, sicuramente la più rilevante è quella della Mezzaluna Rossa Kurdistan, basata a Livorno. I compagni che ne fanno parte sono curdi legati alle organizzazioni comuniste indipendentiste e compagni autonomi e comunisti della Toscana. Il loro obiettivo immediato è assistere il ritorno dei profughi, la ricostruzione del cantone di Kobane ed il sostegno alle altre necessità urgenti nel Rojava. Mi è sembrato che il loro approccio alla cooperazione “dal basso” dei responsabili sia di buona qualità, cosciente dei limiti ma anche delle potenzialità di una iniziativa indipendente dalle grandi ONG.

L’ultima sera, prima di salutarci hanno lanciato alla delegazione la proposta di promuovere per il 25 aprile delle iniziative in sostegno alla lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione in Kurdistan.

Il bilancio dell’iniziativa è stato comunque positivo, con qualche criticità sulle modalità dell’organizzazione, viziata da una mancanza di organizzazione e di coordinamento politico che avrebbe potuto essere più inclusivo verso chi non aveva nessuna preparazione né conoscenza specifica del contesto e più decisa nel manifestare un sostegno politico da parte di compagni di base al progetto di autonomia democratica del Rojava. Infatti la mancanza di coordinamento e di coesione tra i vari compagni/e autonomi ed anarchici nella carovana ha lasciato tutto il risalto alle poche figure dai tratti istituzionali e sindacali con cui le autorità curde cercano comunque una interlocuzione privilegiata. Se questo è comprensibile per motivi tattici ed anche di affinità politica da parte dei compagni curdi, non giustifica la mancanza di iniziativa e di proposta politica organizzata di quelle componenti che da anni fanno dell’autonomia politica e dell’autogestione una parte fondante della propria identità e pratica. Infine un ultimo appunto: la nostra delegazione sulla frontiera non è stata in grado di comunicare un messaggio significativo. Troppi compagni/e della delegazione si sono comportati come turisti, fotografando tutto prima ancora di presentarsi e di conoscere dove erano arrivati. Poca o nessuna riflessione è stata fatta sulla nostra presenza. Purtroppo la qualità umana del nostro comportamento, il superamento dei pregiudizi eurocentrici e maschilisti è il primo passo da compiere quando ci si relaziona con dei contesti simili, ma pochi lo fanno. Tuttavia come compagni che vogliono essere anche dei rivoluzionari, siamo consapevoli di avere aperto soltanto una piccola porta, su una realtà molto grande e complessa. Spazio e tempo a chi potrà approfondire nell’immediato futuro un terreno di lotta molto importante.

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