Elementi fondamentali di critica anti-industriale
Di Miguel Amorós [QUI IL PDF]
Come abbiamo fatto nello scorso numero (Malamente #4), anche questa volta diamo spazio alla critica anti-industriale pubblicando la prima traduzione italiana di un contributo di Miguel Amorós, scritto in occasione del campeggio anti-industrialista dell’8 luglio 2010 a Fellines (Girona) e per le “Jornadas en defensa de la Tierra” del 20-22 agosto 2010 allo spazio sociale La Barajunda di Hervás (Cáceres). Quella portata da Amorós è una critica non solo e non tanto del settore industriale, ma della “società industriale” in cui ci troviamo a vivere, dove ogni aspetto dell’esistenza individuale e sociale (il lavoro, il tempo libero, l’alimentazione, la salute etc.) è colonizzato dalla logica totalizzante dell’industria, che marginalizza sempre più ogni possibilità di intervento diretto e autonomo sulle condizioni della propria vita, lasciate in mano a tecnici e specialisti dei vari settori. Tutto questo mentre il progresso, come ideologia sociale, maschera l’assalto che le ragioni dell’industria e dell’economia conducono sulla vita umana e sui territori, considerati un loro terreno di conquista. Nonostante la redazione non sia unanimemente concorde con questo tipo di lettura della società contemporanea (e delle possibilità del suo superamento), ritiene che siano temi importanti da conoscere e discutere per un agire consapevole.
Il proposito di questo contributo è di segnalare le linee maestre seguite dalla critica reale del capitalismo nella sua fase ultima, che abbiamo chiamato anti-industriale. La questione sociale è stata inizialmente sollevata a partire dallo sfruttamento dei lavoratori nelle officine, nelle fabbriche e nelle miniere. La critica sociale è stata prima di tutto una critica della società classista e dello Stato ma, in una fase successiva del capitalismo, la questione sociale è emersa dalla colonizzazione della vita e dallo sfruttamento del territorio. Intendendo per territorio non il paesaggio né l’“ambiente”, ma l’unità dello spazio e della storia, del luogo e di chi lo abita, della geografia e della cultura. La critica sociale passò ad essere critica della società di massa e dell’idea di progresso. Lungi dal respingere la precedente critica sociale, corrispondente a un tipo di capitalismo crollato, la ampliava e prolungava, inglobando aspetti nuovi come il consumismo, l’inquinamento, l’autonomia della tecnoscienza e l’apparenza democratica del totalitarismo. La critica anti-industriale non nega affatto la lotta di classe, ma la conserva e la supera; per di più, la lotta di classe non può esistere nei tempi che corrono se non come lotta anti-industriale. D’ora in poi, chi parla di lotta di classe senza riferirsi espressamente alla vita quotidiana e al territorio ha in bocca un cadavere.
Possiamo seguire il corso storico, tra gli anni Trenta e Novanta del secolo scorso, della comparsa dei primi elementi di critica anti-industriale, a cominciare dalla critica della burocrazia. La burocrazia è il risultato della complessità del processo produttivo, della necessità di controllo della popolazione e dell’ipertrofia dello Stato, del quale le organizzazioni “operaie” sono un’appendice. A un determinato livello di sviluppo, quello nel quale proprietà e gestione si separano e dove coloro che eseguono gli ordini restano totalmente subordinati a coloro che coordinano e decidono, gli strati superiori della burocrazia che operano nelle diverse sfere della vita sociale – la cultura, la politica, l’amministrazione, l’economia – sono realmente la classe dominante. La società capitalistica burocratizzata si trova divisa tra gestori ed esecutori, o meglio, tra dirigenti e diretti. Tale divisione ci riconduce a un’altra precedente, quella esistente tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che è la base dello sviluppo burocratico. Il lavoro manuale perde la sua creatività e la sua autonomia a causa del sistema industriale che, favorendo la standardizzazione, la parcellizzazione e la specializzazione, lo riduce a una pura attività meccanica controllata da una gerarchia burocratica. Il beneficiario della meccanizzazione non è solamente il capitalista, è la macchina stessa. Per l’organizzazione del lavoro e della vita sociale che implica, chi ci rimette in primo luogo è il lavoratore, ma è tutta la popolazione che sarà sottomessa alle esigenze della macchina. La fabbrica, la macchina e la burocrazia sono i veri pilastri dell’oppressione capitalista. La critica della burocrazia e della macchina completa la critica dello Stato e del lavoro salariato e introduce la critica della tecnologia.
Lo sviluppo unilaterale della tecnologia, orientato verso il rendimento e il controllo, serve alla sottomissione, non alla libertà. Un’esistenza modellata da tecnocratici secondo standard di produzione è una forma di vita schiava. La scienza e la tecnica evolvono sotto il segno del dominio, che è dominio della natura e dell’essere umano. Ma una critica della scienza e della tecnologia non significa un rifiuto della conoscenza razionale e del metabolismo con la natura. Si tratta del rifiuto di un tipo di scienza e di un tipo di tecnologia che generano potere e oppressione. E accettazione di quelli che non alterano le condizioni di riproduzione di una società egualitaria e libera. Quelli che rispettano le necessità di una vita rurale e urbana equilibrata, a misura dei bisogni e dei desideri umani. In nome della Ragione. Ma se avanza sotto la tutela della conoscenza tecnificata, questa stessa ragione, sottomessa agli imperativi del potere, si autodistrugge. La fede nel miglioramento della condizione umana attraverso la conoscenza scientifica, l’innovazione tecnica e l’espansione economica, in altre parole, la fede nel progresso, resta messa in discussione. La critica della scienza, della tecnologia e del sistema industriale è una critica del progresso. Allo stesso modo è una critica delle ideologie scientiste e progressiste; in primo luogo dell’ideologia operaista, tanto nella sua versione riformista che in quella rivoluzionaria, basata sull’appropriazione, in nome del proletariato, del sistema industriale borghese e della sua tecnologia.
Il capitale non consiste solamente di denaro, mezzi di produzione o sapere accumulato; è il polo attivo di un rapporto sociale mediante il quale genera profitti a scapito del lavoro salariato. Quando questo rapporto cessa di limitarsi alla produzione e riguarda tutti gli aspetti della vita degli individui, lo sfruttamento capitalista cambia qualitativamente e il conflitto sociale si estende alla vita quotidiana, ora dominata dal veicolo privato e dalla frenesia del consumo, inquadrata in un’architettura miserabile. Alla critica del lavoro si aggiungono quella della società dei consumi e quella dell’urbanesimo e, soprattutto, quella della vita quotidiana che ne consegue, prima delineata come critica alla morale sessuale borghese e rivendicazione dei diritti delle donne. La costruzione di uno stile di vita libero deve sradicare dalla vita la logica alienante della merce. Il metodo per fare questo, l’autogestione, dev’essere messo in opera contro la logica capitalista, altrimenti non sarebbe altro che autogestione dell’alienazione. Il compito dei futuri organismi comunitari, che negli anni Sessanta alcuni identificarono con i Consigli operai e altri con le comuni o i municipi liberi, non può dunque consistere nella gestione dell’esistente, ma nella sua trasformazione rivoluzionaria. La sovranità reale degli individui emancipati non significa assolutamente la “umanizzazione” del lavoro o la “democratizzazione” del consumo, ma la soppressione di entrambi e la loro sostituzione con una nuovo tipo di attività unitaria liberata dai condizionamenti.
La crisi ecologica espulse dalla critica della vita quotidiana l’ottimismo tecnologico, la fiducia in un possibile uso liberatore della tecnologia, e condannò l’operaismo, la fede in un ruolo emancipatore del proletariato industriale e nel carattere potenzialmente rivoluzionario dei conflitti del lavoro. Fenomeni come l’inquinamento, le piogge acide, il consumo di combustibili fossili, l’utilizzo di additivi chimici e pesticidi, l’enorme accumulo di rifiuti, etc., dimostrarono che il regno della merce non solamente condannava la maggioranza della popolazione alla schiavitù salariata e all’alienazione consumista, ma in più minacciava la salute e metteva in pericolo la vita sulla Terra. La lotta contro il capitale non è dunque semplicemente una lotta per una vita libera, ma è una lotta per la sopravvivenza. L’abolizione del lavoro e del consumo non si possono effettuare dall’interno, attraverso una pretesa radicalizzazione dei conflitti per il salario e l’occupazione, visto che cioè che urge è lo smantellamento completo della produzione, diventata qualcosa d’avvelenato e inutilizzabile. La sua “autogestione” è più che alienante, tossica. La crisi ecologica rivela dunque i limiti della crescita produttiva e urbana, condizione sine qua non dell’accumulazione capitalista attuale, quando lo sviluppo economico si è trasformato nell’obiettivo unico della politica.
L’industrialismo incontrò il suo primo ostacolo nella cosiddetta “crisi del petrolio”, di fronte alla quale “il mercato” e lo Stato reagirono con la costruzione di centrali nucleari. I pericoli che la produzione di energia nucleare comportava per ampi settori della popolazione e soprattutto la militarizzazione sociale nascosta che portava con sé suscitarono una forte opposizione. Dall’unione tra la critica della vita quotidiana e la critica ambientalista, specialmente nel suo versante antinucleare, nacque durante gli anni Ottanta la critica anti-industriale. L’anti-industrialismo tenta di fondere gli elementi di critica sociale nuovi e precedenti: la sua negazione del capitalismo è allo stesso tempo antistatale, antipolitica, antiscientista, antiprogressista e anti-industriale.
I nuovi fronti di lotta aperti, inglobati nel concetto di “nocività”, erano difficilmente difendibili, poiché la fine del ciclo fordista del capitale, caratterizzato dalla sconfitta del movimento operaio tradizionale, l’industrializzazione della cultura e l’inizio della globalizzazione, comportavano un crollo della coscienza e un aumento dell’ecologismo neutro. Riducendo i problemi a delle questioni ambientali ed economiche e ignorando la critica sociale precedente, gli ambientalisti aspiravano a convertirsi in intermediari del mercato della degradazione, fissando con lo Stato i limiti di tolleranza delle nocività. In effetti, gli ambientalisti assunsero presto il ruolo di consulenti politici e imprenditoriali. D’altra parte, la distruzione del contesto operaio e la completa colonizzazione della vita quotidiana avevano aumentato notevolmente la capacità della popolazione di sopportare l’insopportabile. Le classi una volta pericolose si trasformavano in masse addomesticate. L’offuscamento della coscienza si tradusse rapidamente in declassamento, perdita d’esperienza, incapacità di vivere in società e ignoranza, ragione per la quale la conoscenza della verità non ha condotto alla rivolta. I legami sociali, dissolti dalla merce, facevano difetto. La critica anti-industrialista si ampliava fino a comprendere l’ambientalismo e la società massificata.
La mancanza di resistenza permise al capitalismo degli avanzamenti senza precedenti, esacerbando tutte le sue contraddizioni e peggiorando il livello di vivibilità del mondo. La convinzione industrialista della crescita come obiettivo primario della vita sul pianeta sfociava in una crisi biologica. Il riscaldamento globale, in un contesto di deterioramento generale, diede impulso al capitalismo “verde”, basato sullo “sviluppo sostenibile”, i cui frutti sono stati gli organismi transgenici, le automobili di lusso con motore a basso consumo, gli agro-combustibili e le energie rinnovabili industriali. Le aggressioni contro il territorio si sono moltiplicate: autostrade, treni ad alta velocità, linee ad altissima tensione, “parchi” eolici e “giardini” solari, urbanizzazione illimitata, inceneritori, discariche di sostanze tossiche e radioattive, regolazione dei bacini idrici, modifiche dei corsi d’acqua, antenne per la telefonia mobile, abbandono e trasformazione della campagna in banlieue… A tutto ciò bisogna aggiungere i progressi nell’artificializzazione dell’esistenza (di cui le nanotecnologie sono il punto culminante), il proliferare di comportamenti psicotici e il radicarsi di una società panottica e criptofascista come risposta istituzionale ai pericoli dell’anomia. Benché il principale nemico del capitalismo sia il capitalismo stesso e le maggiori minacce gli provengano dalla sua stessa natura, una resistenza minoritaria si è potuta sviluppare grazie a conflitti locali di diversa natura, principalmente contro le grandi infrastrutture, ed è così che la critica anti-industriale ha potuto avanzare in varie direzioni e sotto nomi diversi, incontrando, a seconda dei disastri, attivisti e propagandisti che denunciavano tanto i disastri riguardanti il territorio che l’addomesticamento e la rassegnazione dei suoi abitanti, persone che comprendevano che non si poteva porre rimedio ad alcun problema impantanandosi nella politica, persone che non separavano un’aggressione specifica dalla società che la causava.
La società industrialista è arrivata alla soglia al di là della quale la distruzione dell’habitat umano è irreversibile e, di conseguenza, il controllo assoluto della popolazione è obbligatorio. La difesa di una vita libera, a cominciare dalla libertà dalle protesi tecnologiche, ricca di relazioni, è come minimo una difesa del territorio e una lotta contro ogni condizionamento che provenga dal controllo sociale, dal lavoro, dalla motorizzazione o dal consumo. Ma questo non è che il suo momento difensivo. La fase offensiva è disurbanizzatrice, deindustrializzatrice, ruralizzatrice e decentralizzatrice. Deve riequilibrare il territorio e mettere il locale e il collettivo in testa alle sue preferenze. Si tratta inoltre di una lotta per la memoria e per la verità, per la coscienza libera e contro la manipolazione dei bisogni; è, quindi, una lotta contro le ideologie che tutto questo occultano e deformano come il cittadinismo, la decrescita o quelle che si trovano in dei manuali per adolescenti vergini del tipo “l’anarchia in dieci facili lezioni” (municipalismo, stirnerismo, bonannismo, etc.). Il capitalismo nella sua fase attuale è eminentemente distruttivo e, di conseguenza, è in guerra contro il territorio e le persone che lo abitano. L’autodifesa è legittima, ma costituisce solo un aspetto del conflitto territoriale. Questo è una battaglia per l’autonomia nell’alimentazione, nella mobilità, nell’educazione, nella salute, nell’abitare e nel modo di vestire; un darsi da fare per la solidarietà, per la comunità, per l’agorà e per l’assemblea; per il “comicio”, l’“ayuntamiento general” o il “concejo abierto”, che sono alcuni dei nomi usati nella Penisola iberica per designare la pratica della libertà politica durante le epoche precapitalistiche.
La critica anti-industrialista non arriva come una novità confezionata e a disposizione di chi voglia farne uso. Essa riassume e abbraccia tutti gli elementi della critica sociale precedente, ma non è un fenomeno intellettuale, una teoria speculativa frutto di menti privilegiate disposte a lunghe ore di studio e meditazione. È il riflesso di un’esperienza di lotta e di una pratica quotidiana. È presente un po’ ovunque, sotto una forma o l’altra, come intuizione o come abitudine, come mentalità o come convinzione. Nasce dalla pratica e torna costantemente ad essa. Non vive nei libri, negli articoli, nei circoli iniziatici o nelle torri d’avorio; è il frutto tanto del dibattito quanto dello scontro. In una parola: è figlia dell’azione, questo è il suo ambito e non può sopravvivere lontano da lui.