L’Adriatico delle frontiere
A cura della Redazione [QUI IL PDF]
La frontiera dell’Adriatico, dal golfo di Kvarner fino al Salento, passando per le cartoline di Rimini e il porto di Ancona, è una linea che va e viene come le sue onde: è un confine che la storia e le lotte trasformano, abbattono e innalzano di continuo. Negli ultimi mesi è stata soprattutto la migrazione di massa dalla Siria in guerra a far tremare le frontiere dell’Europa. E improvvisamente anche le Marche hanno riscoperto di essere “ad est”. Riemerge in chi c’era in quei giorni la memoria dei conflitti degli anni ’90, gli sbarchi delle fughe di massa dall’Albania, la guerra in Croazia, in Bosnia, in Kosovo e le lunghe carovane dei rifugiati.
Nella seconda metà degli anni ’90 tante cittadine balneari della riviera hanno aperto le porte, spesso discretamente, con meno retorica di oggi, a chi fuggiva dalla pulizia etnica e dal servizio militare obbligatorio. Alberghi, pensioni, case private, si erano popolati di voci e sguardi nuovi. Oggi i profughi arrivano da un po’ più lontano, spinti da un vento di guerra che ogni tanto fa bruciare anche l’Europa. Le autorità prima chiudono dietro il filo spinato migliaia di persone in un nuovo agghiacciante sistema di campi di raccolta, poi diffondono la paura di nuove invasioni e rinforzano le frontiere interne: Brennero, Ventimiglia, Tarvisio, e così impariamo da capo la geografia dei passeurs e dei doganieri.
Il razzismo ha scavato in profondità anche nella provincia marchigiana, la popolazione invecchia, il senso del futuro è scomparso. E accade che ospitare venti ragazzi neri diventi un dramma per delle cittadine ancora piene di soldi e paure. Tuttavia anche in questi ultimi mesi c’è stato chi non ha accettato di restare davanti alla televisione a rosicare, chi si è organizzato da solo, chi lo ha fatto in collettivo, chi lo ha fatto senza i buoni consigli degli italiani. Dall’altra parte anche questa volta c’è chi costruisce muri, chi semina odio e si approfitta delle miserie e dei bisogni degli emigranti. Oggi l’Adriatico è ancora una frontiera mentre noi vorremmo che tornasse ad essere soltanto un mare. Abbiamo raccolto, come è nostro metodo, delle storie per raccontare quello che sta succedendo. Nelle Marche sono ospitati circa 1.700 rifugiati e richiedenti asilo, pochi nel sistema nazionale SPRAR e molti di più da una rete di cooperative e associazioni che dipendono direttamente dall’autorità e dai fondi statali erogati dalla Prefettura di Ancona. Questo sistema è fatto anche di sfruttamento del lavoro degli operatori sociali precari, improvvisazione, razzismo, noia, lavoro nero.
Ma è anche una porta aperta improvvisamente sul mondo, una storia diversa che racconta come…
Siamo tutti sulla stessa barca
Amadou, un nome di fantasia perché ci ha chiesto di rimanere anonimo, è appena tornato ad Ancona dopo un viaggio in Africa. Dopo tanti anni di precarietà estrema, sballottato tra campi di raccolta, centri di accoglienza e alberghi fatiscenti, dopo aver girato mille progetti fallimentari e tante associazioni, ha trovato finalmente un lavoro come mediatore culturale ed è riuscito a fare quello che tanti e tante devono rimandare per lunghi anni: tornare nella sua terra da persona che è riuscita a compiere almeno il primo passaggio cruciale dell’emigrazione, quello di ottenere un permesso per vivere in Europa.
Lui però non può tornare nel suo paese perché è perseguitato per motivi politici. Ha attraversato diverse frontiere per incontrare comunque la sua famiglia in un luogo segreto e in questo viaggio ha incontrato tanti gruppi di giovani che continuano a partire come aveva fatto lui anni prima, attraverso la pericolosa rotta del deserto fino alle coste libiche, per poi arrivare nei piccoli centri delle Marche dove vengono ospitati nel limbo della cosiddetta accoglienza.
Tu conosci bene la vita dei richiedenti asilo e dei rifugiati qui nelle Marche, perché è anche parte della tua storia. Che effetto ti ha fatto tornare indietro anche se per poco?
Amadou: È stato un viaggio lunghissimo, stancante. Ho attraversato tante frontiere, perché non posso tornare al mio paese con un aereo, sono dovuto andare a piedi, in autobus, su delle moto scassate, sopra un asino. E una cosa che fa impressione è che in Africa c’è sempre gente che si sposta, anche se le strade sono rotte e i mezzi vanno lenti. Lungo la strada, tu vedi sugli autobus, sui camion, dei gruppi di giovani, spesso quasi senza bagagli, che viaggiano verso Nord. Ho incontrato tanti giovani che vanno ad Agadez che è la parte nord del Niger, da lì si va in Libia. Qui si parla spesso del traffico degli esseri umani ma è lì che inizia questa storia, perché un africano per attraversare un’altra frontiera africana deve pagare dei soldi in nero alla polizia. E non sono pochi soldi. Deve dare una cifra che qua non è niente ma lì è qualcosa e se non li hai non passi. Io ho dovuto pagare sempre, non ti puoi rifiutare, la polizia ti picchia, ti sequestra anche per giorni. Dei ragazzi senegalesi che ho fotografato e con cui ho parlato erano fermi da giorni fuori da un posto di polizia. Non li lasciavano andare perché non avevano più soldi, già glieli avevano rubati tutti lungo la strada. Finché uno non ha chiamato a casa e con il money transfer si sono fatti mandare dei soldi.
Ci sono quelli che vendono tutti i vestiti per poter mangiare e continuare la strada. L’ultimo ragazzo che ho incontrato in Burkina Faso tornava dalla Libia, aveva perso tutto sulla strada e portava solo una t-shirt e un pantalone addosso. Mi ha detto: “fratello vedi quello che ho addosso? È tutto quello che mi resta. Io sto tornando a casa per fare una riunione nel mio quartiere. Perché quello che ho visto io non voglio che lo veda un altro mio fratello. Tutta la fatica del mondo e non sono neanche arrivato a destinazione, alla fine ho rinunciato”.
E la polizia ad ogni posto prende dei soldi, quando si ferma la macchina basta che non sei del paese, se ad esempio sei in Burkina e non sei del Burkina devi pagare… il traffico di esseri umani, questo è il traffico, il fatto che non puoi girare da una nazione all’altra senza pagare dei soldi. Pensa, è come se un italiano per passare dalla Francia dovesse pagare in questo modo, ma te lo immagini?!
Questo mi ha fatto arrabbiare.
Adesso si parla di chiudere le frontiere o altro. Ma per noi, per tanti la frontiera è già chiusa, anche se hai i documenti non puoi passare se non hai i soldi. In tanti fanno lo stesso tragitto, ivoriani, ghanesi, l’ultimo punto è Agadez in Niger dopo prendono i camion che vanno verso la frontiera libica ed entrano in Libia e anche lì non è finita. E anche se riesci ad arrivare in Italia non è ancora finita…
Il 7 aprile ad Ancona si è svolta una manifestazione di rifugiati provenienti da molti paesi dell’Africa e dal Pakistan che vivono in diverse strutture di accoglienza nelle Marche. Nel 2015 la nostra regione, secondo dati ufficiali, ha ospitato 1.732 persone, il 3,2% del totale in Italia, in strutture con una media di venti posti, mentre circa cento persone sono alloggiate nel Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Arcevia. La protesta è nata da un’iniziativa autonoma per denunciare l’altissima percentuale di permessi di soggiorno negati dalla Commissione Territoriale di Ancona. Secondo i dati dello stesso Ministero degli Interni, nel capoluogo dorico il 73% delle richieste viene rifiutato. È un dato fra i più alti d’Italia insieme a quelli di Cagliari, Firenze e Caserta. Gli esiti positivi confermano che pochissimi, il 4,6%, si vedono riconosciuto lo status di rifugiato, il 4,9 % la protezione sussidiaria e il 17,4 % la protezione umanitaria.
Un mese dopo, il 21 maggio, i rifugiati sono tornati di nuovo in strada questa volta accompagnati da molti italiani solidali per continuare a fare pressione sulle istituzioni. Sullo sfondo rimangono però come un non detto tutte le contraddizioni del “sistema dell’accoglienza”, nel quale spesso cooperative e associazioni svolgono un ruolo di mediazione e controllo dei rifugiati che non rispetta la loro autonomia e i loro diritti. Iniziano a emergere anche storie di sfruttamento selvaggio del lavoro nero di troppi giovani che non trovano un’occupazione utile e dignitosa. La cronaca ci racconta anche di altri sciacalli, leghisti e fascisti miserabili in certi casi padroni e padroncini a loro volta, che provano a costruire carriere politiche con le campagne contro l’apertura di nuove strutture di accoglienza o contro quelle già esistenti.
La manifestazione dei rifugiati del 7 aprile ha sorpreso tutti: Questura, Prefettura, Comune, associazioni… come spesso accade nessuno si immagina che i neri, i rifugiati, persone etichettate e messe da una parte siano capaci di organizzarsi e rivendicare dei diritti. Come è andata?
Amadou: La Prefettura decide con le sue regole, c’è una convenzione che è stata firmata [tra le organizzazioni che ricevono i fondi per l’accoglienza e la Prefettura] ma dopo la convenzione ci sono delle nuove regole che escono di giorno in giorno e noi dobbiamo seguire queste regole se no per loro, per la Prefettura, non va bene. Noi cerchiamo di fare in modo che non ci siano problemi né per gli uni né per gli altri: noi siamo in mezzo, tra i rifugiati e la Prefettura, è così che funziona. Come associazione siamo in mezzo perché dobbiamo intervenire con la Prefettura per parlare e per discutere delle cose e dobbiamo anche parlare con i ragazzi cercando di farli stare calmi. Ma se il problema è più grande di noi lo portiamo a loro [alla Prefettura]. Ad esempio se una persona ha un problema che noi non possiamo risolvere, come un problema con la giustizia, noi siamo obbligati a fare riferimento a loro.
La protesta del 7 aprile come è nata?
Amadou: Questa protesta nasce dal fatto che i ragazzi non hanno accesso ai documenti. I cinque principi su cui si basa la richiesta per avere l’asilo non sono quasi per niente considerati dalla Prefettura e dalla Commissione di Ancona. Quei ragazzi hanno voluto manifestare per chiedere spiegazioni su quello che sta succedendo, perché la cosa strana è che a Napoli o a Bologna i permessi li stanno dando. A seconda della situazione ogni persona può avere un tipo di protezione diversa ma qua ad Ancona non è così: o si riceve il permesso per l’asilo politico o niente. Le altre quattro motivazioni non sono considerate. Ci sono dei ragazzi che stanno nelle Marche da due anni e non hanno nessuna risposta. Presentare ricorso poi non è più una strategia sicura come prima. Infatti quando una persona faceva ricorso alla fine riusciva a ricevere qualche tipo di documento, adesso il ricorso viene rifiutato ugualmente.
Quali sono le nazionalità che hanno i maggiori problemi?
Amadou: Tutti hanno dei problemi oggi. Solamente i siriani in questo momento ricevono i documenti, se riescono ad arrivare.
Secondo te perché ad Ancona e nelle Marche c’è questa situazione?
Amadou: Non te lo so dire, ma noi sappiamo che non dipende dalle associazioni che lavorano con i profughi ma dipende dalla Commissione. Se c’è qualcosa che non va nella Commissione lo dobbiamo sapere. Abbiamo capito che la Commissione di Ancona punta a considerare lo Stato da dove proviene la persona, ma se il mio Paese non è in guerra, comunque posso essere stato sottoposto a una persecuzione. I ragazzi con questa logica non trovano un accesso ai documenti neanche attraverso la protezione umanitaria. Per fare domanda di protezione umanitaria ci sono cinque motivi ma di cinque motivi ne viene considerato solo uno. [Secondo la legge italiana la persecuzione, per essere rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, deve essere riconducibile ai seguenti motivi, come definiti dall’art. 8, D.Lgs. 251/2007: razza, religione, nazionalità, particolare gruppo sociale, opinione politica]. Ad esempio un siriano che sbarca oggi ha subito accesso, invece un nigeriano, un gambiano, un maliano che sbarca oggi anche se non ha una storia di guerra può avere una storia legata agli altri quattro motivi ma per lui è difficile avere il permesso e questa cosa è più dura ad Ancona perché i ragazzi che si rivolgono alle altre Prefetture lo riescono a trovare, magari un permesso di protezione umanitaria. Qui al 95% vengono rifiutati. Il problema adesso è che c’è una scadenza per l’accoglienza e quando questa finirà cosa faranno i ragazzi? Non hanno un documento, non hanno niente.
Quante persone sono in questa situazione ad Ancona?
Amadou: Il 95% dei rifugiati nelle Marche è in queste condizioni. Nei nostri servizi in città noi ospitiamo più di cento persone, ma tra queste ce ne saranno venti che hanno avuto accesso ai documenti. Poi sono stati presentati tanti ricorsi ma i ricorsi non sono una sicurezza perché il giudice può rifiutarli. Il problema di Ancona è che non si sa esattamente chi decide.
Abbiamo saputo che dopo la manifestazione del 7 aprile un gruppo è stato ricevuto dalla Prefettura, c’è un dialogo in corso?
Amadou: Ai cinque ragazzi che sono entrati dentro hanno detto: “cercate di calmare i ragazzi là fuori, ma noi non abbiamo un’alternativa sicura”. Allora sono usciti e hanno detto che tutto era stato risolto. Quando però la folla è andata via alcuni hanno ricevuto la vera informazione, perché la delegata della Prefettura che li ha ricevuti ha detto che non può fare niente perché non dipende da lei e che non sa come fare. Ha promesso che qualcosa verrà fatto. Insomma sono stati convinti a mandare via la folla senza avere ricevuto niente in cambio. Tutto questo però è stato organizzato dai ragazzi, in maniera autonoma, in questo caso le associazioni non hanno avuto niente da dire. I ragazzi si sono cercati, hanno fatto un passaparola e non dimenticare che molti sono amici tra loro. Funziona così, qualcuno fa una proposta e si va a manifestare insieme. Lo hanno fatto così davvero, l’aiuto che hanno avuto dalle associazioni è stato per chiedere il permesso per la manifestazione e basta. Non credo che qualcuno abbia messo bocca sui contenuti.
Perché qual è la posizione delle associazioni che lavorano con i profughi? Hanno una visione diversa dei loro problemi?
Amadou: Beh, questa è una cosa un po’ delicata, non ti posso rispondere.
Sappiamo di ragazzi, ospitati da cooperative nella provincia di Ancona, che hanno lavorato e non sono stati pagati.
Amadou: Secondo me c’è molto lavoro in nero però, nel caso nostro, con l’obiettivo dell’integrazione cerchiamo almeno di attivare un tirocinio per la persona, per fargli prendere qualche soldo, per fargli fare esperienza di lavoro, tutto qua. Questo da parte nostra. Invece in giro ci sono quelli che fanno dei lavori in nero, a volte non sono pagati e lo fanno ugualmente. Questo esiste, non so come la prendete voi ma è così.
Visto che le persone stanno qui a lungo senza documenti, in attesa, è normale che provino a fare qualcosa…
Amadou: L’idea è questa. Infatti se io non trovo i documenti per procurarmi un vero lavoro come devo fare? Voglio vivere, forse ho lasciato qualcuno dietro di me al mio paese che ha bisogno dei soldi, devo fare qualsiasi cosa per avere anche soltanto un poco, è così che funziona.
Tu cosa pensi del lavoro gratis in cambio dell’accoglienza?
Amadou: Io rifiuto questa cosa, non la vedo una bella cosa. L’accoglienza è basata sul fatto che se tu associazione hai ottenuto la convenzione per svolgere questo lavoro la persona deve essere accolta, sia che lavori o che non lavori. La seconda cosa è che se una persona può dare una mano a fare qualcosa va bene, ma non sempre tutto gratis. Io ad esempio se lavoro con dei ragazzi che devono pulire la strada non lo facciamo gratis, cerchiamo sempre di ottenere qualcosa in cambio. Altre associazioni invece lo fanno, ma c’è una parte dei soldi che prendono dalla Prefettura che è destinata all’integrazione lavorativa e dove li spendono questi soldi? Cercano un Comune che abbia bisogno di un lavoro e lo fanno fare ai ragazzi gratis con la scusa di essere integrati, accolti o qualcosa del genere, ma poi chi si mangia questi soldi? Ho sentito delle storie dalle parti di Senigallia dove i ragazzi vanno a pulire le strade come volontari. Io penso che anche se si tratta di poche ore qualcosa si debba dare a chi lavora. Anche se non ti pago il giusto ti ho dato comunque qualcosa, questo è meglio di niente.
Si parla di sfruttamento sul lavoro e che cosa è questo? Questo sistema viene chiamato volontariato, io posso fare il volontario perché non ho niente da fare, ma non per sempre. Lo posso fare per aprirmi una strada che mi dia lavoro un domani. Un conto è se tu mi dici “vieni a pulire una biblioteca una volta alla settimana”; nella biblioteca io vengo a pulire e magari incontro anche altra gente, è un modo di integrarmi. Ma se vado in campagna a tagliare gli alberi [ride] chi devo conoscere, come dovrei integrarmi?
Come richiedente asilo, con i documenti in regola, la persona ha la possibilità di fare un tirocinio, non volontariato. Un tirocinante può essere preso ad esempio da un bar e può fare venti ore. Se il proprietario non paga, l’associazione versa una cifra al tirocinante per tirare avanti e poi magari alla fine il proprietario gli fa un contratto, ma è difficile che succeda. Per la maggior parte, il tirocinio serve solo per tenere occupata la persona, spesso ti dicono che alla fine ti assumeranno ma alla fine questo non succede e devi andartene.
Il problema principale sono i documenti perché se uno ha i documenti, l’Europa è grande, se non mi funziona qua vado a provare da un’altra parte. Non sono costretto ad andare in giro clandestinamente se ho un documento che mi permette di muovermi almeno per cercare qualcosa da un’altra parte. Poi come devo lavorare, se in nero o in regola è qualcosa che a quel punto riguarda me.
Rifiutare i confini, aprire le frontiere
Idomeni, tra la Macedonia e la Grecia era un nome indecifrabile, come i tanti di un altrove che non trova posto nelle vetrine della società ricca. Poi grazie alla resistenza caparbia di migliaia di donne, uomini e bambini è diventato il simbolo di un movimento umano che combatte per la libertà. Idomeni è un piccolo centro al nord della Grecia, a pochi chilometri dal confine macedone, che è stato per un anno, fino al suo sgombero nel maggio 2016, il simbolo nell’immaginario collettivo di ciò che l’Europa riserva a chi scappa da guerra e miseria. Il campo, formatosi tra una stazione merci e un macello, ha ospitato fino a 10.000 persone in gran parte siriane ma provenienti anche da Pakistan, Afghanistan, Kurdistan. Per i viaggiatori la cittadina dovrebbe essere un luogo di passaggio di un lungo itinerario fino al Nord Europa, dove si sosta poche ore prima di attraversare il confine verso la cosiddetta rotta balcanica. Eppure per mesi quel campo è diventato un luogo sospeso nel tempo e nello spazio a causa della chiusura dei confini verso la Macedonia. La militarizzazione del campo era intensa e frustrante, le pressioni sui volontari provenienti da tutta Europa sempre più frequenti e sistemiche, l’angoscia e la frustrazione palpabili. La paura di tornare indietro e la disperazione per i famigliari che muoiono in Siria sotto i bombardamenti ha prodotto serie conseguenze psicologiche che si sono aggiunte alle già difficili condizioni igienico-sanitarie. Probabilmente, ciò che possiamo fare da qui è restituire una dimensione umana a tutto ciò: oltre le frontiere e il filo spinato, gli eserciti e gli accordi tra governi ci sono storie e persone, una marea umana ammassata ai confini di un’Europa che è direttamente responsabile di quanto sta accadendo. Accade a Ventimiglia, accade a Calais, accade al confine serbo-ungherese, accade a Idomeni. Attorno alle iniziative di solidarietà con gli abitanti del campo di Idomeni si è sviluppato a partire dai primi mesi del 2016 un nuovo impulso di solidarietà e complicità che ha mosso in varie forme molte persone a prendere l’iniziativa per costruire azioni concrete. Ilaria dello Spazio autogestito Grizzly di Fano ha partecipato alla campagna Over the fortress organizzata dai Centri sociali delle Marche per portare aiuti e solidarietà a Idomeni. Ci racconta come si è svolto il viaggio, che situazione ha trovato nel campo profughi e cosa le ha lasciato questa esperienza.
Ci racconti come si è svolto il tuo e vostro viaggio a Idomeni?
Ilaria: Il viaggio rientra in un percorso che si è sviluppato attraverso la collaborazione dei vari centri sociali italiani e poi si è ampliato, aprendosi a tante realtà dell’associazionismo. La prima esperienza a cui abbiamo partecipato anche noi del Grizzly di Fano è stata la Staffetta Over the fortress sull’isola greca di Samos, vicino alle coste turche, per aiutare i tanti migranti che vi approdavano. Poi l’attenzione si è spostata su Idomeni, che è un campo profughi al confine tra Grecia e Macedonia. L’organizzazione è stata lunga e complicata perché in pochi giorni sono arrivate tantissime adesioni, quasi trecento, parecchie delle quali esterne ai centri sociali, e quindi bisognava prepararsi a risolvere diversi problemi pratici, anche semplicemente il dove dormire e come spostarsi.
Siamo partiti quasi tutti insieme con un traghetto dal porto di Ancona. La nostra permanenza al campo è stata di tre giorni (altri due sono stati di viaggio) e in questo tempo siamo riusciti a distribuire tutto il materiale che avevamo raccolto nei mesi precedenti e caricato su ben cinque pullman. La distribuzione non è avvenuta solo nel campo principale di Idomeni, ma anche in altri campi relativamente più piccoli che si trovano lungo il confine e che non essendo sotto i riflettori mediatici non hanno neanche quella base di aiuti dell’associazionismo trovandosi quindi, se possibile, in condizioni ancora peggiori. Il secondo giorno quando ci stavamo di nuovo dirigendo verso il campo, la polizia si è schierata con le camionette a pochi metri dall’ingresso bloccandoci la strada e impedendoci di entrare. Abbiamo passato tutta la mattina lì, scaricando i pullman per costruire una sorta di “barricata” di aiuti umanitari, in faccia alla polizia del tanto democratico Tsipras che non ci permetteva di consegnarli all’interno del campo. La scusa usata dalle forze dell’ordine per il loro comportamento totalmente arbitrario è stata che i migranti stavano portando avanti una manifestazione per far pressione sul confine chiedendone l’apertura – cosa che in realtà avviene ogni giorno – e la presenza di noi occidentali avrebbe potuto creare tensioni. Solo dopo diverse ora siamo riusciti a passare. Abbiamo quindi distribuito aiuti, concentrandoci su scarpe e vestiario, mentre il giorno precedente avevamo portato prevalentemente generi di prima necessità per i bambini più piccoli.
La distribuzione non è stata facile perché a Idomeni si vive in una situazione di nulla più totale e in questi casi, come si può immaginare, si creano anche situazioni difficili da gestire, con qualcuno che si vuole accaparrare vestiti per rivenderli o altri che vogliono prenderli per usarli come combustibile. Proprio così: nel campo non c’è più niente da bruciare e quindi queste persone anche solo per cucinare bruciano le scarpe, la plastica, producendo un odore terribile che si spande per tutto il campo. Il primo giorno, per evitare problemi nella distribuzione dei materiali per bambini, siamo andati noi stessi in giro con delle buste preparate, chiedendo cosa servisse e consegnandolo direttamente a chi ne aveva necessità. D’altra parte è anche vero che si è creata una certa autorganizzazione, cioè persone sconosciute fino al giorno prima, di culture e abitudini diverse, sono riuscite a mettersi insieme per migliorare le condizioni di vita nel campo, penso ad esempio ai Centri donna realizzati anche grazie all’aiuto di Over the fortress e gestiti da donne siriane.
Il terzo giorno, terminata la distribuzione dei beni, siamo andati a Salonicco per dar vita a una manifestazione di denuncia del vergognoso accordo tra Unione Europea e Turchia e per reclamare l’apertura dei confini. Il corteo è stato molto partecipato e visibile, è passato anche abbastanza vicino all’ambasciata turca e si è simbolicamente concluso al porto. Si sono unite a noi varie associazioni greche, anche una che il giorno precedente, mentre eravamo stati bloccati dalla polizia, era venuta a sostenerci e con la quale abbiamo stretto dei buoni rapporti. Va detto che a Idomeni le associazioni presenti stabilmente sono Medici senza frontiere e le cucine No border che riuscivano a garantire uno o due pasti durante la giornata. Abbiamo invece notato la totale assenza dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Assente sia in quel campo che negli altri in cui ci siamo recati, che sono campi militari dove stanno deportando queste persone (alcuni ci vanno volontariamente perché lo vedono quasi come una via d’uscita da quel limbo in cui si trovano ogni giorno senza sapere cosa li aspetterà). In questi campi gestiti dai militari è vietato l’accesso ai volontari di qualsiasi genere. Noi siamo riusciti a confrontarci con quei pochi migranti che uscivano all’esterno e volevano parlare con noi e ci hanno detto che la condizione è quasi peggiore di quella del campo profughi creato a Idomeni; l’unica cosa fatta è stata la raccolta dei dati personali, condotta tra l’altro in maniera molto approssimativa. Nei fogli che le autorità hanno rilasciato c’era scritto, per tutti, “final destination Germany”, cosa che ha creato molta inquietudine perché in realtà a nessuno era stato chiesto dove volesse andare.
Personalmente cosa ti è rimasto di questa esperienza?
Ilaria: A volte quando si ascoltano i racconti di persone che tornano da esperienze di volontariato si sente mettere in luce l’utilità di queste pratiche. Io penso invece che da questo viaggio siamo tornati non proprio con un senso di inutilità, ma di sicuro con la chiara percezione di quanto sia difficile trovare un’efficace via d’uscita da quella situazione. Certamente a livello umano è stata un’esperienza che mi ha lasciato un segno e che senza dubbio rifarei, però la frustrazione ti sale quando vedi il poco che sei riuscito a fare, perché dare qualche paia di scarpe non è niente in confronto a quello che succede lì, ma soprattutto perché queste persone non hanno bisogno di un paio di scarpe in più e il nostro ruolo non deve ridursi a quello di abbellire il campo o renderne migliori le condizioni di sopravvivenza. Questo te lo facevano capire proprio le persone che erano nel campo, che ti ringraziavano per gli aiuti e allo stesso tempo ti dicevano che il loro vero bisogno è l’apertura di quel maledetto confine. Quando siamo partiti la nostra idea era di fare ciò che realmente fosse utile per loro e, soprattutto, ogni iniziativa sarebbe dovuta partire da loro stessi, ma il vero problema non è solo l’atto dell’apertura del confine, perché il punto è che una volta che il confine è aperto e loro sono passati li prende la polizia macedone e quindi è tutto inutile se non peggio di prima.
Penso comunque che dobbiamo continuare a combattere le politiche di chiusura dei confini, perché oltre ad essere libere di fuggire dalle guerre e dalla fame, le persone devono poter decidere dove portare avanti in maniera dignitosa la propria vita, ovunque vogliano. I confini vanno rifiutati e le frontiere vanno aperte, in un modo o nell’altro.
Ho deciso di sabotare un ingranaggio
Valeria è una giovane psicologa che lavora in provincia di Ancona. Anche lei ha partecipato alla carovana di volontari promossa dai Centri sociali delle Marche durante le vacanze di Pasqua nel campo di Idomeni, al confine con la Macedonia. Ci tiene a precisare che non è una militante dei centri sociali e non ha esperienze precedenti di solidarietà internazionale, ma non poteva sopportare di restare comodamente a casa a guardare dallo schermo una ingiustizia in atto. Alcune delle foto che pubblichiamo in questo numero sono le sue.
Ci racconti perché sei andata a Idomeni con la carovana Over the fortress? In che modo hai saputo dell’iniziativa e perché hai deciso di partire?
Valeria: Sono venuta a conoscenza dell’iniziativa per caso, leggendo un post condiviso da un’amica su Facebook. Arrivata alla fine dell’articolo avevo già deciso di partire, il mio ragazzo è stato d’accordo e così abbiamo chiamato il numero indicato per formalizzare la nostra adesione. Sentivo che era la cosa giusta da fare al momento giusto. Negli ultimi anni ho sempre più l’impressione che la mia vita si stia scollando da tutto ciò che mi accade intorno. Credo che oggi non sia più possibile concepire il proprio “intorno” come limitato alla realtà più vicina, escludendo il resto del mondo, perché ciò equivarrebbe a ignorare che siamo parte di un unico sistema complesso, dove tutto ci condiziona e tutto condizioniamo. Ho l’impressione, dicevo, che sempre più la mia vita proceda su un binario parallelo rispetto al resto del mondo: ogni mattina mi alzo, faccio colazione, vado al lavoro e la giornata si risolve in sequenze di comportamenti più o meno automatizzati, seguendo il tempo circolare della routine quotidiana. Ogni tanto guardo un telegiornale e allora mi scorrono davanti le immagini di queste tragedie: interi popoli in fuga dalla fame e dalle guerre. Osservo le immagini, capisco il loro significato, ma non riesco a sentire quasi niente oppure l’emozione dura pochissimo, i pensieri mi sfuggono e non si trasformano in nessuna azione. Andare di persona a Idomeni ha voluto dire, come già intuivo nel momento in cui ho deciso, sabotare un ingranaggio. Ho visto coi miei occhi e soprattutto sono stata sopraffatta da emozioni che mi hanno impedito di rifiutare ciò che avevo davanti, quella realtà inaccettabile, relegandola nell’ambito dell’assurdo. Questo genere di consapevolezza, che ha anche una valenza affettiva e va al di là del semplice essere a conoscenza di qualcosa, è l’unica che a mio parere può spingere una persona a gridare a gran voce il proprio dissenso, perché non si possa dire, questa volta, che tutto è successo sotto occhi indifferenti.
Così, uno dei moventi principali della carovana solidale a cui ho partecipato era la volontà di riportare una testimonianza affettivizzata di quanto hanno passato e stanno passando le persone che sopravvivono tra il fango e la diossina nei campi autogestiti di Idomeni e delle zone limitrofe e in condizioni perfino peggiori nei campi gestiti dal governo greco. E ciò è stato possibile grazie agli eventi di sensibilizzazione che dopo il nostro ritorno sono stati organizzati nei centri sociali, nei circoli, nelle scuole, nelle università e in chissà quanti altri luoghi e grazie alle decine di racconti che ognuno di noi, ed eravamo tanti, ha condiviso con gli amici e con chiunque gli abbia domandato “che cos’hai fatto a Pasqua?”. Una risonanza importante insomma, che si deve al gran numero di persone che ha deciso di partecipare a questa azione collettiva, persone di ogni età, non necessariamente legate a centri sociali o associazioni, che hanno scelto di calarsi fino in fondo nella storia che si sta scrivendo e di affidarsi al proprio vissuto diretto, come baluardo estremo contro il processo di disumanizzazione in atto, a protezione di un progetto di vita in comune, dove l’incontro con l’altro è la linfa stessa e non l’elemento tossico.
Quali sono i tuoi contatti con i rifugiati e le rifugiate nella tua vita quotidiana?
Valeria: Personalmente non incontro spesso persone migranti nella mia vita privata e, a differenza di molti miei colleghi, neppure nel lavoro. Tuttavia credo che le questioni in ballo ci riguardino intimamente anche se all’apparenza non ci toccano sul piano concreto, perché mettono in discussione la nostra stessa idea di esistenza e di relazione con l’altro, con il diverso da sé.
Cosa pensi dell’Europa e dell’attuale sistema di controllo e repressione delle migrazioni?
Valeria: Penso che l’Europa si stia muovendo in modo da cavalcare un meccanismo di scissione schizofrenica a cui ricorriamo per difenderci dal male e che ci porta a dividere l’umanità fra “noi” e “loro” e a sentirci perseguitati da qualcosa di esterno e di estraneo. I perché possono essere tanti e credo che abbiano comunque a che fare con logiche di potere e di profitto.
In futuro pensi di partecipare ad altre iniziative simili? Conosci persone che si stanno organizzando per fare qualcosa in concreto?
Valeria: Dopo il viaggio a Idomeni, ci sono state diverse persone che dalle Marche sono andate a una manifestazione al confine italo-austriaco e io sono andata a quella presso l’ambasciata turca a Roma il Primo maggio. So che stanno proseguendo diverse iniziative di raccolta fondi e una staffetta di volontari e volontarie al campo di Idomeni.
Quella rabbia è anche la nostra
Abbiamo conosciuto M., ragazzo macedone che vive a Pesaro, partito ad aprile per Idomeni. La sua storia ci ha insegnato molto e vogliamo raccontarla, perché mostra come la solidarietà e la complicità tra simili possano arrivare ovunque. Ogni muro può essere buttato giù, ogni frontiera può essere attraversata, le politiche razziste possono essere boicottate, l’infamia che si sta consumando a pochi chilometri dalle nostre coste può essere mostrata al mondo intero nella sua cruda realtà. Siamo convinti che certe esperienze cessino di essere una scelta individuale laddove se ne vuole fare bagaglio per aspirazioni collettive. Il confine oggi è la linea del privilegio, ciò che determina chi ha diritti e chi non ne ha. E i confini si moltiplicano e si estendono secondo geografie in evoluzione. Schedature, centri di accoglienza, controlli della polizia, rimpatri forzati, politiche migratorie, retorica populista e razzista. Tutto questo va superato, confini e barriere vanno spazzati via.
La tua storia è stata raccontata sui giornali e persino dalle Tv locali, ma prima ancora è girata sulle reti sociali, catalizzando la voglia di tanti e tante di rompere la passività. Perché hai deciso di partire?
M.: Sono partito mercoledì 21 aprile, insieme ad un amico, Andrea, che si è offerto di aiutarmi in questa impresa. Organizzare il viaggio e assicurarsi di arrivare a destinazione è stata un’impresa, ed è forse questo uno dei paradossi di questa situazione: voler semplicemente aiutare gli altri sembra essere incomprensibile per l’enorme macchina burocratica dell’accoglienza. Tutto è iniziato molto tempo fa, quando mi è stato chiesto da amici e conoscenti come fare per portare il proprio contributo lì sul posto. Non avevo risposte, nonostante quel luogo fosse a pochi chilometri dal paese in cui sono nato, sembrava complicatissimo portare aiuti e beni di prima necessità. Ed ecco che, tra contatti sul posto, compagni/e, amici e associazioni che lavorano sul campo da tempo, quel senso di impotenza è scomparso lasciando il posto alla voglia di mettersi in gioco in prima persona. Questo dipende probabilmente dalla mia storia personale. Io, figlio di rifugiati slavi divenuti poi clandestini, non potevo più restare a guardare. Soprattutto non potevo non capire, avendo passato io stesso parte della mia infanzia in una tenda. Quindi abbiamo raccolto soldi, medicine, vestiti, coperte, impermeabili e siamo partiti.
Giunti sul posto abbiamo scaricato tutto tenda per tenda, di notte, con l’aiuto dei volontari presenti sul posto. Appena due giorni prima un anziano curdo era stato ucciso dalla polizia greca, falciato da una camionetta mentre fissava un paletto alla propria tenda. Ne sono seguiti violenti scontri e molti feriti. Frustrazione, rabbia e tensione erano palpabili. A Idomeni l’odore di plastica e vestiti bruciati lo senti appena arrivi, ti entra nelle narici e non ti lascia più. Te lo porti dietro per giorni l’odore di quei fuochi. Fuochi accesi ovunque, con qualsiasi cosa possa bruciare, per riscaldarsi e cucinare, o semplicemente sterilizzare l’acqua putrida. C’erano bambini, tanti bambini, bambini ovunque. Corrono per il campo, giocano, piangono, si ammalano. Dentro le tende restano i vecchi, stanchi, rassegnati, sofferenti. Mi è rimasta impressa la rabbia dei tanti ragazzi, giovanissimi, che girano spesso fuori dal campo. Tanta rabbia per aver perso la casa, la terra, il lavoro, per la guerra da cui sono scappati e per l’accoglienza che hanno ricevuto: un immenso campo agricolo pieno di buchi e fumo, con quell’odore acre tanto forte da darti la nausea, file interminabili per un piatto di lenticchie, la polizia che controlla e reprime ogni tentativo di spostarsi e organizzarsi. Reti, barriere e filo spinato. Chi non sarebbe arrabbiato al posto loro? Quella rabbia è anche la mia.
Quale era il senso di fermarsi in quel luogo? Perché si è formato il campo?
M.: Idomeni mi è sembrato un grande esperimento, una massa di persone imbottigliate in mezzo al nulla che servano da esempio e scoraggino altre partenze. Da Idomeni non si passa, Idomeni rimane un lager del nostro tempo. È allucinante in questo senso il contrasto tra l’isolamento concreto in cui si trovano queste persone e il fatto che siano continuamente connessi tramite wi-fi e telefoni al resto del mondo. Devono saperlo tutti, non c’è alcuna vergogna, il messaggio è chiaro: non partite, non vi vogliamo, a costo di murare l’Europa intera. Scordatevi pure la favola di Schengen e del continente libero e democratico, qui liberamente circolano solo le merci. Vorrei andare avanti con questo impegno e cercare di coinvolgere ulteriormente la città di Pesaro. Vorrei tornare a Idomeni con gli amici e i compagni che mi hanno sostenuto. Sarebbe importante migliorare le condizioni di vita nel campo, non dimenticando mai che l’obiettivo è quello di garantire la libertà di movimento, affinché posti come questo non esistano mai più. Vi lascio con un’ultima immagine, forse la cartolina più emblematica di Idomeni. A circa 3 km dal campo c’è un enorme casinò di lusso. Da una parte i bambini giocano nel fango, dall’altra uomini e donne si godono il lusso più sfrenato. Da un lato la polizia in antisommossa reprime circa 10.000 persone tenendole sotto scacco, tra fango e malattie. Medici senza frontiere lo dice chiaramente in uno dei suoi ultimi report: chi non si ammala di epatite si fa del male pur di farsi ascoltare. Dall’altra parte l’opulenza e il menefreghismo della nostra bella civiltà occidentale fanno bella mostra di sé, del proprio benessere, della propria tranquillità.