Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]
Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.
Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.
Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).
Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.
A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.
Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.
Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale
Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.
L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.
Per spiegare la genesi di un terremoto si fa riferimento alla teoria del rimbalzo elastico. Le faglie sono bloccate dall’attrito e dalla pressione litostatica, cioè dal peso di tutta la terra sopra, ma sono allo stesso tempo continuamente sollecitate dalle forze tettoniche che tendono o a separarle o a farle scorrere una sull’altra o una accanto all’altra; questo sforzo si accumula sempre più e quando viene superata la resistenza dell’attrito si ha uno scatto, per questo si chiama “rimbalzo elastico” e lì si genera il terremoto, la cui energia sarà in funzione della rigidezza delle rocce, dell’area di porzione di faglia che si viene a muovere e della lunghezza dello scorrimento. Prendendo in esame l’elenco dei terremoti in Italia, che si trova sul sito dell’INGV (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) si vede come nell’ultimo secolo ogni dieci anni si siano verificati almeno tre terremoti importanti, con magnitudo superiore a 5.8, ma purtroppo sembra che molti continuino a non tenere nella giusta considerazione la sismicità.
Limiti della normativa sismica italiana
Dal punto di vista normativo, quando dobbiamo definire la pericolosità di una zona utilizziamo il concetto di “rischio sismico”, che si compone di tre grandezze. La prima è la “pericolosità sismica”, un dato oggettivo che dipende dal tasso di sismicità della zona, dalla probabilità che un terremoto di un certa intensità si verifichi durante un periodo di riferimento temporale predeterminato. Le altre due sono gli “elementi esposti”, cioè le persone e i beni che potrebbero subire un danno dall’evento sismico, e la “vulnerabilità”, ovvero l’attitudine delle strutture a resistere a quel determinato terremoto. La “pericolosità sismica” ha da un lato un obiettivo territoriale, di ausilio alla gestione dei territori, dall’altro un obiettivo strutturale, di ausilio alle verifiche sismiche delle strutture. Prenderla in esame più in dettaglio ci consente di vedere i grossi limiti della normativa.
In pratica, tralasciando il fatto che cerca di irreggimentare in un sistema probabilistico un fenomeno che è prevalentemente di natura caotica, nella normativa per un determinato territorio vengono presi in considerazione i terremoti periodici, ad esempio sappiamo che un terremoto di una certa grandezza avviene ogni trecento anni, di una grandezza più grande ogni seicento e così via. In Italia abbiamo i migliori annali del mondo perché già nell’anno 1000 i monaci hanno incominciato a descrivere gli effetti dei terremoti e i sismologi, in base agli effetti descritti, hanno ricostruito quale poteva essere l’energia delle scosse. Ma mille anni è un periodo di campionatura troppo piccolo per terremoti che avvengono ogni centinaia di anni: potremmo non avere segnati terremoti ancora più forti che magari hanno un periodo di ritorno di duemila anni. Non lo possiamo sapere purtroppo. Inoltre abbiamo una classificazione sismica dei comuni italiani, predisposta dalle Regioni, che individua quattro zone, dalla 1 alla 4 con pericolosità sismica decrescente (i comuni dell’Italia centrale dove dovrà passare il gasdotto sono tutti in zona sismica 1 o 2). Se confrontiamo le mappe di classificazione su scala storica vediamo come negli anni siano molto cambiate, non certo perché è cambiata la natura ma perché la nostra interpretazione basata su un campione troppo breve non riusciva a capire che avevamo una pericolosità maggiore. Anche in questo caso, quindi, sono evidenti i limiti dell’approccio storico-probabilistico.
Quanto detto si ripercuote anche quando dobbiamo considerare la “pericolosità sismica” in relazione al suo obiettivo strutturale, cioè per un singolo edificio, per un ponte, una casa, un ospedale, una scuola o, come nel nostro caso, una condotta energetica. In questo caso dobbiamo definire l’“azione sismica”, cioè sapere quale terremoto può arrivare in modo che tramite appositi programmi lo si possa confrontare con la struttura per verificare se questa resiste o meno. La normativa prevede due metodologie: un metodo semplificato e uno chiamato “risposta sismica locale”, più scientifico e sicuramente più preciso. Il primo si può utilizzare per le costruzioni di “classe d’uso” 1 (costruzioni con presenza occasionale di persone, come locali agricoli) e 2 (civili abitazioni), l’altro per quelle in classe 3 (suscettibili di grande affollamento, come ospedali, scuole etc.) e 4 (opere strategiche: un’infrastruttura energetica come un gasdotto è evidentemente strategica).
Il metodo semplificato ricava l’“azione sismica” sulla base di formule contenute nelle normative vigenti oppure utilizzando un foglio di calcolo elettronico fornito dal Ministero dei lavori pubblici nel quale vanno inseriti una serie di dati. Invece per la “risposta sismica locale” va ricostruito tutto il modello sismostratigrafico del posto. Entrambi i metodi sono però inquinati, ancora una volta, dall’approccio probabilistico. Vi faccio l’esempio di Amatrice. Sono andato a prendere sul sito dell’INGV i dati tecnici delle scosse di terremoto di agosto e ottobre, ricavando lo “spettro di risposta elastico” reale, che è lo strumento principe per vedere come resistono gli edifici. Ho quindi confrontato il diagramma di questo “spettro di risposta elastico” per una casa, classe d’uso 2, delle scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, con quello che avrei calcolato se mi avessero chiamato a ricavarlo secondo la normativa NCT08. Come vedete quello calcolato da normativa è notevolmente più basso di quello che si è verificato realmente. Questi limiti della normativa sono risaputi, quindi credo che per un’opera così pericolosa come un gasdotto si debba porre un’attenzione ancora maggiore.
Criticità sismiche nel progetto del gasdotto (tratto Foligno-Sestino)
Ora vediamo le criticità sismiche relative al tracciato del gasdotto da Foligno a Sestino, lungo circa 114 km, prendendo in considerazione lo studio di Valutazione d’impatto ambientale fatto dalla Snam Progetti nel 2004. Tra i terreni attraversati dal gasdotto ci sono i depositi plio-quaternari, cioè terreno prevalentemente soffice, della piana di Colfiorito, c’è lo scavalcamento dei rilievi che collegano con la conca di Gualdo Tadino, poi l’ulteriore scavalcamento dei rilievi che collegano con Gubbio, l’attraverso della piana di Gubbio, composta di depositi alluvionali in grado di amplificare le onde sismiche, e infine l’attraversamento degli ultimi tratti fino ad arrivare a Sestino. I comuni attraversati sono Foligno, Nocera Umbra, Gualdo Tadino, Gubbio, Pietralunga, Apecchio, Città di Castello, Mercatello sul Metauro, Borgo Pace, Sestino, Badia Tebalda.
Nello studio presentato dalla Snam si legge: “in regioni ad elevata sismicità il ground motion investe ampie aree geografiche e difficilmente può essere eluso [cioè: il terremoto non può essere evitato]. Tale fenomeno non costituisce un problema apprezzabile per le condotte interrate in acciaio poiché l’azione vincolante e smorzante del terreno circostante il tubo impedisce il realizzarsi di elevate forze d’inerzia come accade per le strutture superficiali e il modulo elastico è di gran lunga in grado di sopportare la massima ampiezza di vibrazioni prevedibile”. Questo è per lo meno parziale, perché è vero che una struttura interrata non subisce l’amplificazione strutturale, che è invece tipica in cima a un alto edificio, però un’opera del genere, rigidamente legata al terreno, è altamente sensibile alla fagliazione. Seguirà infatti, necessariamente, le deformazioni del terreno a cui è ancorata e non c’è nessuna struttura umana che abbia la capacità di sopportare lo sforzo tettonico di miliardi di tonnellate che si muovono. Una condotta non avrebbe sicuramente capacità di resistere.
Leggiamo ancora dal progetto Snam: “l’intero territorio nazionale è coperto da una fitta rete di condotte interrate progettate secondo norme internazionali riconosciute, la cui realizzazione risale ormai ad alcuni decenni fa. Durante i sismi più devastanti verificatisi negli ultimi decenni (Friuli 1976 e Irpinia 1980) non risulta si siano verificate rotture di condotte di tale rete, presenti nelle zone interessate dal sisma”. In particolare, per la casistica italiana, i progettisti Snam prendono come esempio il terremoto del Friuli e ci raccontano del gasdotto Sergnano-Tarvisio che passava proprio nelle zone epicentrali e non ha subito danneggiamenti. Questa osservazione è per lo meno antiscientifica, perché generalizza quanto accaduto in un singolo caso, ma i terremoti non sono tutti uguali, non ci si può basare su un singolo terremoto che è avvenuto e dire che siccome quel gasdotto non l’ha deformato allora siamo a posto così. Ogni terremoto ha una sua energia e un suo contenuto in frequenza e colpisce selettivamente di più certe strutture rispetto ad altre. Ad Amatrice, ad esempio, la torre civica alta 25 metri è rimasta in piedi, le case a due piani sono quelle che hanno subito i maggiori danni. Un altro terremoto, con dentro altre frequenze, avrebbe potuto produrre conseguenze diverse.
Per quanto riguarda la definizione dell’“azione sismica”, Snam ha utilizzato il metodo semplificato, ma un metanodotto è un’opera strategica che va in classe d’uso 4 e, come dicevo prima, necessita di uno studio di risposta sismica locale, che probabilmente avrebbe consigliato la costruzione di un’opera molto più resistente, con aumento dei costi di produzione. È vero che il progetto Snam è del 2004, mentre le norme a cui faccio riferimento sono del 2008, ma a parte il fatto che siccome il gasdotto è ancora da costruire come minimo andrebbe riconsiderato lo studio alla luce delle norme vigenti, c’è da dire che all’epoca esisteva l’Eurocodice 8, che loro stessi prendono a riferimento e che dice: “per particolari tipologie di strutture può essere richiesto di considerare modelli spaziali del moto sismico”, cioè andava fatta la risposta sismica locale. Cosa che non hanno fatto.
Ma andiamo a vedere quali sono gli altri aspetti critici della valutazione sismica della Snam. In particolare, si riscontra una totale insufficienza delle indagini geomeccaniche e geofisiche, ci sono forti dubbi nella definizione delle categorie sismiche dei terreni attraversati, una completa superficialità nel considerare la liquefazione dei terreni, una carenza assoluta nel considerare il problema della fagliazione e una sottostima dell’accelerazione sismica e della verifica della vulnerabilità. Andiamo a considerare queste criticità un po’ più in dettaglio.
Per tutto il percorso che il gasdotto fa in Umbria hanno fatto appena dieci sondaggi, profondi dai 6 ai 15 metri, quando 30 metri è il minimo per definire la categoria sismica del suolo e non è stata fatta alcuna indagine di tipo geofisico. Tralasciando le carenze che la normativa possiede anche riguardo l’aspetto dell’amplificazione sismica, sappiamo che i suoli hanno la capacità di amplificare le onde simiche, a seconda di quanto l’amplificano vengono classificati in categorie A, B, C, D, E, dove A è la roccia dura, che non amplifica, più si scende e più c’è amplificazione. Nel progetto Snam è indicata la presenza delle sole categorie di suolo A e B. A parte che la categoria A è difficilissima da trovare in Appennino, anche sulle rocce, perché si tratta di montagna spesso enormemente fratturata, ma in generale questa sequenza di suoli A e B mi pare del tutto improbabile, soprattutto in tratti dove vengono attraversati diversi chilometri di terreni alluvionali. Sul problema della liquefazione dei suoli loro scrivono: “sulla base delle caratteristiche litostratigrafiche del territorio attraversato, dei dati geognostici acquisiti e della bibliografia tecnica esistente, non risulta che vengono attraversate aree in cui si possano verificare fenomeni di liquefazione”. Fenomeni che invece ci sono stati. La liquefazione si verifica in determinate situazioni, in presenza di terreni di sabbia o fini, con una falda piuttosto superficiale, quando in seguito a uno scuotimento ripetuto il terreno si comporta come un liquido, quindi se sto sopra sprofondo.
Passiamo al discorso della fagliazione, che è la parte più importante. Se è vero che la struttura interrata è priva di amplificazione sismica strutturale, è però particolarmente vulnerabile alla fagliazione. Nel progetto Snam non c’è alcuna indagine a proposito, ma solo cenni bibliografici. L’Appennino è attraversato da numerose faglie attive di cui molte in grado di generare deformazioni permanenti in superficie, dette faglie “capaci”. Quelle conosciute sono contenute nella banca dati Ithaca, ma il catalogo è in continuo aggiornamento e, a detta degli stessi autori, “non può mai considerarsi completo e definitivo; non rappresenta la totalità delle faglie capaci potenzialmente presenti sul territorio nazionale, ma solo quelle per le quali esiste uno studio, anche di livello minimo e quindi un riferimento bibliografico”. Ci sono quindi tantissime altre faglie “capaci” che non conosciamo, che potenzialmente possono intercettare il metanodotto, ma la Snam per la sua Valutazione di impatto ambientale non ha condotto nessuna indagine in sito, basandosi esclusivamente su fonti bibliografiche.
Chiaramente, avendo commesso tutte queste sottovalutazioni, in sede di verifica della vulnerabilità sismica dell’opera i progettisti Snam hanno considerato un’azione sismica bassissima, stimando la massima accelerazione attesa in 0,35g (“g” è l’accelerazione di gravità). Negli ultimi terremoti che hanno colpito l’Appennino si sono registrate, in alcune aree epicentrali, accelerazioni al suolo anche superiori al doppio di questo valore! In definitiva, come ho cercato di farvi vedere, le problematiche sono molteplici e quindi dal punto di vista della sismicità di questi territori, il gasdotto è un’opera ad alto rischio.