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Sciare a tutti i costi. A due passi dal mare. Monte Catria: lo scempio dei nuovi impianti sull’Appennino marchigiano

In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.

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Che bello sciare sul Catria

di Luigi

Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.

Protesta dell’associazione Lupus in fabula, luglio 2018

Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa

Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.

Il fenomeno diventa di massa a partire dal boom economico degli anni Sessanta, fomentato dalle campagne pubblicitarie delle più o meno rinomate stazioni sciistiche. Per chi se lo può permettere, la settimana bianca invernale fa da contraltare alle ferie d’agosto. Da allora il turismo di massa ha ridefinito i più fortunati (o sfortunati, a seconda dei punti di vista) territori alpini e appenninici, con tutto il suo portato di effetti secondari. Soldi che girano, certamente, ma anche colate di asfalto e di cemento: seconde case vuote per gran parte dell’anno, strade, parcheggi e alberghi. I residui abitanti, ridotti a popolazione di servizio per le esigenze del turista, sotto l’imperativo dell’accoglienza gestiscono il suo relax, il suo divertimento diurno e serale e smaltiscono il suo carico di rifiuti, sopportando traffico, inquinamento e sovraffollamento.

A cavallo tra anni Ottanta e Novanta si comincia però a intravedere che il turismo intensivo dello sci, caratterizzato da forte stagionalità e concentrazione territoriale, non può durare in eterno, nonostante gli ultimi sussulti di gloria per le vittorie di Alberto Tomba (e poi di Deborah Compagnoni), icona nazional-popolare che rispolvera il mito della “valanga azzurra” degli anni Settanta, di Gustav Thöni e ancor prima di Zeno Colò. Le stazioni minori cominciano infatti a soffrire, la neve artificiale diventa indispensabile per sfruttare al massimo l’intera stagione e non restare strozzati dagli investimenti fatti, le sovvenzioni pubbliche permettono di sopravvivere alle annate con poca neve dichiarando lo stato di calamità naturale. Dopo aver illuso molte amministrazioni, e purtroppo anche molti montanari, che quella del turismo di massa sarebbe stata la panacea ai mali della marginalità, tanto da consentire rovina e saccheggio del proprio territorio pur di attrarre torme di villeggianti con le loro carte di credito, oggi il turismo in discesa libera lascia le sue cicatrici ambientali ed economiche: centinaia di impianti falliti, migliaia di tralicci e chilometri di funi di acciaio abbandonati, strutture ricettive da demolire.

Le analisi dicono chiaramente che se crescono i frequentatori e la passione per la montagna, il numero di sciatori è in progressiva diminuzione da almeno vent’anni, scesi del 24% tra 1997 e 2004 e ancora in calo[1]. E tra gli sciatori sono sempre meno quelli che vanno in montagna esclusivamente per sciare e trascorrere l’intera giornata sulle piste. I modelli di consumo turistico sono infatti drasticamente mutati a tutto svantaggio dello sci di pista e a favore di altre attività come ciaspolate, sci alpinismo, escursionismo etc. Senza contare chi in montagna proprio non ci va più, attirato dal mare invernale low cost di Sharm el-Sheikh o Tenerife.

In questo scenario gioca inoltre un ruolo fondamentale il cambiamento climatico. Si stima che con un aumento della temperatura di 2°C il numero di stazioni sciistiche al di sopra della “linea di affidabilità”, cioè l’altitudine in cui si registrano almeno trenta cm di neve per cento giorni all’anno, si ridurrà del 50%; ciò vuol dire che almeno una metà delle attuali località sciistiche sarà costretta a chiudere baracca. Per questo motivo la Conferenza sul clima di Roma, già nel 2007, sosteneva essere «sconsigliabile la costruzione di nuovi impianti a quote inferiori a 2.000 metri». E il Club alpino italiano (CAI) pur con una posizione istituzionale non proprio d’ambientalismo di battaglia, ha ribadito la propria contrarietà alla «realizzazione di nuove stazioni sciistiche sotto i 2.000 metri di quota e all’ampliamento dei comprensori sciistici esistenti», nonché alla messa in funzione di «nuove opere a fune per raggiungere vette, ghiacciai, valichi, o territori che comunque superino i 1.600 metri sulle Alpi e i 1.200 metri sull’Appennino»[2].

Lavori per le piste da sci sul Monte Acuto, luglio 2018

Sognando un inverno perenne

Per fronteggiare il collasso annunciato della “monocoltura dello sci”, i manager degli uffici turistici hanno escogitato diverse soluzioni palliative, come i sempre più invasivi collegamenti tra comprensori limitrofi per moltiplicare dal cilindro il numero delle piste, oppure lo spostamento dei tracciati in zone sempre più elevate, su, sempre più su, fino a raggiungere vette e ghiacciai, incuranti delle difficoltà logistiche di questa ennesima sfida alla montagna e dei gravi danni per ecosistemi fragili e vulnerabili. O, ancora, come prevede il nuovo progetto sul Monte Catria, continuano imperterriti a puntare la carta dell’innevamento artificiale, la cui scoperta non ha fatto che prolungare l’agonia dello sci di massa con il corollario di una lunga serie di conseguenze negative sull’ambiente.

L’innevamento artificiale, ovvero il disegnare strisce bianche in mezzo al verde dei boschi tutt’intorno, è passato da intervento straordinario a normale amministrazione, tanto che ormai nella maggior parte delle località sciistiche si può considerare la neve naturale come un’integrazione, utile ma non indispensabile, di quella prodotta artificialmente. Non più, dunque, soluzione di ripiego contro la forzata inattività di inverni dalle scarse precipitazioni, ma routine irrinunciabile per allungare la stagione, aggirare le brutte sorprese meteorologiche e sostenere la concorrenza tra i comprensori, sognando un inverno perenne, come pubblicizza uno dei tanti produttori di cannoni per neve: «piste belle, innevate che vi faranno venire voglia di mettere gli sci, questo è ciò che gli appassionati di sport invernali desiderano in qualsiasi periodo dell’anno. Per assicurarsi un “inverno perenne”, numerose stazioni sciistiche si basano sull’innevamento artificiale e KSB fornisce soluzioni economiche e sistemi affidabili…»[3].

I costi di investimento e manutenzione sono ingentissimi, stimati intorno ai 140.000 euro per ettaro a stagione, spesso e volentieri sostenuti da fondi pubblici, così come molto elevati sono i consumi di energia e di acqua (ogni stagione, almeno 4.000 metri cubi di acqua per ogni ettaro di pista). Ma, oltre al capitolo spese, è l’impatto ambientale a essere notevole e generalmente poco conosciuto. Gli innevatori che si vedono a bordo pista sono infatti solo una piccola parte dell’impianto di trasformazione dell’acqua in neve, fatto anche, e soprattutto, di punti di prelievo da fiumi, torrenti, laghi, vasche di raccolta o acquedotti, e poi serbatoi, apparecchiature di alimentazione elettrica, cavi e tubazioni interrate, pompe, centraline etc.

Quando si parla di neve prodotta artificialmente, al di là dell’apparente somiglianza con quella che cade dal cielo, vanno tenuti in considerazione una serie di elementi nascosti alla vista, che causano un complessivo danno a terreno, manto erboso e biodiversità: l’acqua trasferita dal fondovalle in quota, oltre a essere riempita di additivi, è più ricca di minerali e pertanto altera la naturale composizione del suolo; la neve così prodotta ha minore capacità di isolamento termico e pertanto provoca il congelamento del terreno e un ritardo nello sviluppo della vegetazione. Inoltre, formando una superficie molto compatta che tende a trasformarsi in ghiaccio, il manto nevoso artificiale dev’essere continuamente lavorato dai battipista, cosa che avviene in orario notturno, determinando un ulteriore elemento di disturbo luminoso e acustico per quegli animali selvatici che, nonostante tutto, si ostinano ancora a vivere là dove è arrivato il circo dello sci.

In definitiva, con la neve artificiale l’uomo vorrebbe svincolarsi dalla tirannia delle condizioni meteorologiche, combattendo a denti stretti contro un clima ostile all’economia. Cosa che va di pari passo con il frequentare una montagna sempre più addomesticata, in cui l’ebbrezza di scivolare lungo un pendio, con i suoi imprevisti da gestire, è solo un ricordo di tempi passati. Ormai non si trovano più piste con diversi tipi di neve, cunette, dossi, strettoie che seguono il naturale andamento della montagna, ma autostrade perfettamente spianate, facili da innevare con i cannoni, dure e veloci, su cui andare meccanicamente avanti e indietro, su e giù, preoccupandosi solo di schivare i propri simili, per tornare ai cancelli di partenza e rifare il tratto di risalita comodamente seduti: «le piste, che un tempo seguivano la conformazione del terreno e non costituivano altro che un itinerario di discesa naturale battuto, sono diventate dei tracciati artificiali in tutti i sensi, ben separati dalla natura (e dalla vera neve) che li circonda. Spianate e allargate, sono state modellate sul modello dell’alta velocità di sciata, con una diminuzione dei tempi di percorrenza e di conseguenza, per evitare le code, con la necessità di costruire impianti con capacità di trasporto orario molto superiori al passato»[4]. Questo modo di sciare, ripetitivo e alla fine noioso, nient’altro che prodotto di consumo, non ha niente a che vedere con la scoperta dell’ambiente naturale e il godimento della montagna, ma riproduce ad alta quota lo stesso insostenibile stile di vita metropolitano.

È evidente che l’assalto dei vacanzieri alle piste da sci come avveniva fino a qualche decennio fa non tornerà più e non saranno ulteriori investimenti a rilanciarlo, né l’uso massiccio della neve artificiale, né un’impennata tecnologica verso nuovi impianti di risalita sempre più veloci. Benché sia una convinzione difficile da estirpare che turismo invernale equivalga a piste da sci, probabilmente sarebbe molto più interessante e conveniente per tutti – anche per il Monte Catria – puntare su un altro tipo di turismo, leggero, diffuso, distribuito lungo tutto il corso dell’anno, un turismo che chiede di vivere paesaggi non deturpati e non necessita di centri commerciali, snow park, family hotel con improbabili mascotte, SPA e location termali artefatte. E poi, al di là del turismo, c’è sempre il ritorno della vita quotidiana in montagna, il recupero dei borghi antichi e il tentativo di ricostruire un’esistenza meno assediata dalla civiltà industriale e dai suoi bisogni indotti, sostenuta da attività tradizionali e rapporti sociali comunitari, che non aspira certo a mantenersi in vita come luna park della neve.

La vecchia cestovia, foto del 2009

Un buon modo per devastare l’Appennino

Per quanto riguarda, nello specifico, il territorio dell’Appennino è evidente come gli investimenti degli ultimi decenni abbiano tentato di replicare i modelli alpini di industria turistica, seppur da una posizione più periferica rispetto alla centralità europea delle Alpi e con un bacino di domanda decisamente più limitato, ma con danni addirittura amplificati: «di colpo ci si è accorti – scrive Stefano Ardito –, negli anni Settanta, che a furia di progettare degli impianti, mettendo insieme tutti i progetti di nuovi impianti di risalita che riguardavano l’Appennino centrale, semplicemente si sarebbe “cancellato” l’Appennino centrale come luogo di natura. […] L’Appennino dell’Italia centrale è fatto di poche grandi montagne, quindi molto più fragili, una volta che avete fatto una funivia sulle dieci vette più importanti lo avete fondamentalmente devastato tutto quanto»[5].

Contro questa strategia sciagurata si sono mossi comitati e associazioni ambientaliste, a partire dalla difesa dei Monti Marsicani, dei Sibillini, dei Monti della Laga, non sempre riuscendo a fermare la speculazione. È il caso della funivia del Monte Bove, una delle cime più alte dei Sibillini, una montagna talmente ripida da scendere con i ramponi o adatta in condizioni ottimali solo a pochi sciatori di grande esperienza, il cui impianto di risalita, costruito nel 1974 e oggi abbandonato alla ruggine, non è mai entrato a regime anche perché esposto a forti venti e alla massiccia formazione di ghiaccio, come aveva immediatamente preconizzato un esponente del CAI di Macerata: «sono certo che il suo funzionamento, per le citate condizioni ambientali, sarà limitato in inverno a pochissime giornate di bel tempo, da contarsi sulle dita di una sola mano»[6].

Nelle Marche non abbiamo solo, come potrebbe sembrare a prima vista, mare e colline, ma anche una decina di stazioni sciistiche per un totale oltre settanta km di piste da discesa, servite da almeno trenta impianti di risalita, oltre a diversi anelli per lo sci di fondo: Forca Canapine in provincia di Ascoli Piceno, Bolognola, Sarnano-Sassotetto, Frontignano di Ussita, Acquacanina-Piani di Ragnolo e Monte Prata nel maceratese (alcune ancora chiuse in seguito al recente terremoto), Monte Nerone, Monte Carpegna e Monte Catria in provincia di Pesaro e Urbino. Si tratta di piccole stazioni spuntate nel fervore degli anni Sessanta per accogliere qualche turista della domenica, con limitati dislivelli sciabili posti in cima ai rispettivi monti, ma pur sempre a quote relativamente basse. Tutte appese all’ossigeno delle sovvenzioni pubbliche da accaparrare e spendere in ogni caso, senz’altra valutazione che non sia quella di elargire qualche posto di lavoro e far girare un’economia in realtà avvitata su se stessa, priva di alcuna prospettiva a lungo termine a parte la certezza del danno ambientale.

Da qualche tempo, la pioggia di soldi pubblici è arrivata finalmente anche sul Catria, così che gestori e amministratori locali potranno smetterla di lamentarsi e rodere d’invidia per i contributi destinati in anni precedenti ad altre stazioni, basti pensare ai milioni spesi sul vicino Monte Carpegna per piste aperte poche settimane all’anno, quando va bene.

Pretelli Srl al lavoro sul Monte Catria, settembre 2018

L’inutile e nocivo progetto di nuova stazione sciistica sul Monte Catria.

Il massiccio del Monte Catria comprende l’omonima vetta, la più alta della provincia di Pesaro e Urbino (1.701 metri s.l.m.) e il Monte Acuto (1.668 metri s.l.m) sul cui versante nord-est si sviluppano le piste, a quote comprese tra i 1.300 e i 1.500 metri. Nel luglio 2014 è stato inaugurato a seguito di ristrutturazione il rifugio Cupa delle Cotaline, con ristorante self service, terrazza-solarium, camere da letto e adiacente kinderland (percorsi su alberi, discesa con gommoni) raggiungibile tramite impianto di risalita (bidonvia) dalla località Caprile oppure in auto, percorrendo diverse strade chiuse al transito dal 1 dicembre al 30 marzo, da Chiaserna di Cantiano, Buonconsiglio di Frontone o Acquaviva di Cagli.

Il nuovo progetto, quasi totalmente finanziato dalla Regione Marche, prevede una spesa di circa 3.500.000 di euro ed è finalizzato all’allargamento delle piste, alla costruzione di due seggiovie, di uno skilift, di un impianto di innevamento artificiale e uno di illuminazione delle piste. I lavori sono già partiti da circa un paio di anni e, nonostante i soliti lacci della burocrazia e le proteste di ambientalisti e amanti della montagna, stanno procedendo lentamente ma inesorabilmente, suddivisi in diversi stralci di progetto. Qualche magagna è già saltata fuori, come la scoperta a novembre 2018 di una vasta area disboscata, di nuove strade aperte tra la vegetazione e di sbancamenti di terreno e rocce, il tutto privo di qualunque autorizzazione, ma a parte un brivido di indignazione social, lo scandalo non ha partorito che una ridicola multa di poche migliaia di euro e una denuncia che finirà presto archiviata.

La Lupus in fabula, associazione ambientalista molto attiva su diversi fronti, che ha seguito da vicino anche questa vicenda, ha denunciato a gran voce, purtroppo inascoltata, l’assurdità di puntare al potenziamento di un polo sciistico sulle altissime montagne dell’Appennino pesarese: «ovviamente i gestori della società Monte Catria Impianti, che è un’azienda privata, sono ben felici di un investimento pubblico che renderà più redditizia la loro gestione, così com’è chiaro che quanto sta accadendo ha dei precisi responsabili. Il presidente della Giunta Regionale Ceriscioli, il vice presidente del Consiglio regionale Claudio Minardi, il presidente della Provincia Tagliolini e il sindaco di Frontone Passetti hanno assecondato e voluto questo progetto, sostenendo che i nuovi impianti di risalita saranno un volano per il turismo nel comprensorio del Catria, ma trascurando completamente la prospettiva a cui andremo incontro entro una ventina di anni a causa dei cambiamenti climatici. La Lupus sostiene, invece, che gli impianti da sci siano un paradosso per questi territori e che i finanziamenti impegnati siano soldi sprecati, che potrebbero essere più utilmente destinati a qualificare le strutture ricettive, a migliorare la sentieristica e la segnaletica o addirittura potrebbero essere trasferiti ad altri capitoli di spesa più necessari e sofferenti come la sanità o la ricostruzione post terremoto»[7].

Tra l’altro, la Monte Catria Impianti, quella che gestisce il rifugio e stacca i biglietti della risalita, ha sede a Urbino, guarda caso allo stesso indirizzo di Pretelli srl, ditta di movimento terra, edilizia stradale e “ingegneria naturalistica”, che evidentemente non saprebbe che farsene di un turismo montano dolce e non distruttivo, le cui escavatrici sono all’opera per la realizzazione dei nuovi impianti.

Fatto sta che il primo mezzo milione di euro (590.000 per l’esattezza) è già stato dilapidato per una rivoluzionaria seggiovia triposto, inaugurata il 4 gennaio 2018 in sostituzione di un precedente skilift, per superare un dislivello di neanche cento metri di quota, da 1.351 a 1.446. In pratica non si fa in tempo a mettersi seduti che è già ora di scendere. I gestori dell’impianto, per giustificare l’assalto delle ruspe alla montagna, fantasticano su una messa in funzione per 365 giorni all’anno, immaginando che una volta chiusa la stagione delle fantomatiche famigliole con gli sci ai piedi si apra quella dei fanatici del downhill, pazzi scatenati che salgono in quota per lanciarsi giù in sella a una mountain bike. Più realisticamente, gli ambientalisti prevedono poche settimane di effettivo trasporto degli sciatori: «scempio ambientale e sperpero di denaro pubblico»[8].

La seconda fase si è aperta la scorsa primavera, con la brutta sorpresa della strage di faggi sul Monte Acuto: prima le motoseghe e poi le ruspe stanno togliendo definitivamente dai piedi una vasta porzione di bosco, circa tre ettari di faggeta, per poi livellare il terreno e far spazio a piste da sci sempre più larghe, spianate e veloci. Non dubitiamo che il sindaco di Frontone, comune nel cui territorio ricade la stazione sciistica, si sia mosso come dichiara ai giornali «nel massimo rispetto delle regole e dei permessi necessari»; il problema è che regole e permessi non sono mai neutrali, ma vengono scritti in base a ben precisi rapporti di forza e in questo momento storico la bilancia del potere pende tutta dalla parte del denaro, mentre la salvaguardia di ambiente, bellezza e salute resta disattesa.

Contemporaneamente, a giugno 2018, ha preso il via l’ammodernamento della risalita da Caprile a Cupa delle Cotaline, ovvero dal fondovalle al ristorante-rifugio in quota: cabine chiuse al posto dei cestelli. La storia di questa bidonvia è stata un susseguirsi di insuccessi e fallimenti, ma visto che il denaro pubblico da far finire in tasche private non manca, perché non rilanciarla di nuovo, anche se contro ogni ragionevolezza? Il primo impianto di risalita da Caprile fu infatti costruito nel 1976 e chiuso dopo una manciata di anni di malandata gestione, soffocato dai debiti al termine della stagione invernale 1988-’89, nonostante le nevicate degli anni Ottanta. Intorno al 2004 si è incominciato a parlare di una possibile rimessa in funzione, avvenuta in pompa magna nel gennaio 2009, ma appena quattro anni dopo, nel 2013, ci si è accorti che i centosei cestelli, acquistati con ineguagliabile lungimiranza in ferro non zincato, erano ormai diventati ammassi di ruggine da buttare e sostituire: un altro milione di euro scucito dalla Regione per finanziare il business fallimentare di un’impresa privata[9]. Le associazioni ambientaliste, su tutte la già citata Lupus in fabula, hanno ribadito più e più volte che l’unico metodo per non far viaggiare vuota la bidonvia, se proprio non si voleva dar corso a un più saggio smantellamento, sarebbe stato quello di chiudere almeno al traffico automobilistico privato le tante strade che salgono fin quasi in cima al monte[10]. Ma sui tavoli comunali, provinciali e regionale, le ragioni a tutela della montagna non hanno mai modificato i piani degli amministratori, tanto meno ha fatto breccia la richiesta di associazioni, comitati e dei tanti soggetti che da anni chiedono a gran voce l’istituzione in questi territori di un Parco naturale (argomento di cui abbiamo parlato su Malamente #3).

Il resto dei lavori, se nessuno riuscirà a porre fine alla follia, prevedono la sostituzione di un breve tratto di manovia a fune bassa con uno skilift (spesa prevista 250.000 euro); un impianto di illuminazione delle piste, di cui evidentemente le grandi masse di sciatori notturni sentivano la mancanza, formato da settantadue pilastri in acciaio alti dieci metri (250.000 euro); la predisposizione per l’innevamento artificiale, con la costruzione di un bacino di raccolta acqua da almeno ventimila metri cubi (280.000 euro); interventi di adeguamento e messa in sicurezza delle piste, ovvero taglio degli alberi laterali, scavi e riporti, livellamento del terreno, posizionamento di reti di sicurezza etc., per ulteriori 671.000 euro; nonché la costruzione della seggiovia Travarco (1206 metri s.l.m.) – Monte Acuto (1490 metri s.l.m.), un chilometro di lunghezza per quasi due milioni di euro. Grazie a quest’ennesima ferita sul fianco della montagna sarà possibile collegare tutte le piste da discesa esistenti in zona, anche quelle già tracciate negli anni Settanta ma non utilizzate proprio per la mancanza dell’impianto di risalita. Saranno così raddoppiati i sette chilometri di piste attualmente fruibili, proprio mentre si dimezza il numero degli sciatori.

Di questi tempi, senza una comunità di vita montana che lo faccia proprio, difficile sperare che il buon senso avrà la meglio.

Lavori per le piste da sci sul Monte Acuto, luglio 2018

Note

[1] Cfr. Laurent Vanat, International report on snow & mountain tourism, aprile 2017.

[2] CAI, Nuovo Bidecalogo. Linee di indirizzo e di autoregolamentazione in materia di ambiente e tutela del paesaggio, 2013. Nella precedente versione di questo documento (1981) il CAI si impegnava a: “incoraggiare lo sci di fondo, lo sci-alpinismo, lo sci escursionismo. Scoraggiare la proliferazione degli impianti e delle piste esistenti, evitando, fin dove possibile, nuove iniziative. Accettare, in caso di provata utilità sociale ed economica locali, solo gli eventuali nuovi impianti inseriti in un’adeguata pianificazione globale, limitando all’indispensabile l’alterazione dell’ambiente preesistente”.

[3] https://www.ksb.com/ksb-it/Prodotti_e_Servizi/Industria/Innevamento

[4] Giorgio Daidola, Il cortocircuito dello sci di massa, in WWF Italia, Alpi e turismo: trovare il punto di equilibrio, dossier, febbraio 2006, p. 42.

[5] Stefano Ardito, La “monocultura dello sci” e il suo impatto sulla montagna italiana, in Montagna, neve e sviluppo sostenibile: quali prospettive. Atti. Aggiornamento nazionale CAI-TAM, 2010, p. 27-28.

[6] Intervento di Giuliano Mainini, in Atti del Convegno di studi “Per il Parco dei Monti Sibillini”, Montefortino, 8-9 ottobre 1977, Camerino, Università degli studi, 1984, p. 68.

[7] La Lupus manifesta sul Catria, 23 maggio 2018, http://www.lalupusinfabula.it/?p=6166. Si veda anche il comunicato stampa sulle sciovie del Catria del 21 ottobre 2017, in risposta alle dichiarazioni del sindaco di Frontone, http://www.lalupusinfabula.it/?p=5755 e il comunicato congiunto di diverse associazioni ambientaliste marchigiane (Forum Paesaggio Marche, Italia Nostra Marche, Legambiente Marche, Lupus in Fabula, Pro Natura Marche, Terra Mater, WWF Marche) del 18 febbraio 2017, http://www.lalupusinfabula.it/?p=5386.

[8] La Seggiovia c’è ma la neve?, http://www.lalupusinfabula.it/?p=5928

[9] Roberto Damiani, La bidonvia deve cambiare navette. Un altro milione per l’impianto del Catria, https://www.ilrestodelcarlino.it/pesaro/cronaca/2013/02/11/843865-bidonvia-catria-cambio-navette.shtml

[10] Cfr. Bidonvia del Catria: perchè soldi pubblici per ammodernarla?, http://www.lalupusinfabula.it/?p=2816 e comunicati precedenti http://www.lalupusinfabula.it/Attivita.asp?Cate=3

Bibliografia e sitografia

Gian Piero Motti, Guido Oddo, La montagna: storia dell’alpinismo e dello sci, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1977, 2 v.

Felix Hahn, Innevamento artificiale nelle Alpi. Una relazione specifica, CIPRA, 2004.

Il turismo della neve, a cura di Andrea Macchiavelli, Milano, Angeli, 2004.

Il turismo montano tra continuità e cambiamento, a cura di Andrea Macchiavelli, Milano, Angeli, 2006.

WWF Italia, Alpi e turismo: trovare il punto di equilibrio, dossier, febbraio 2006.

Simone Guidetti, L’impatto ambientale dello sci di pista: una sintesi, 2010, http://gognablog.com/limpatto-dello-sci/

Montagna, neve e sviluppo sostenibile: quali prospettive. Atti. Aggiornamento nazionale CAI-TAM, 2010.

Andrea Pellegrini, Il monte Catria, Fano, Grapho 5, 2012.

Alessandro Moretti, Il turismo montano in Italia: dimensione strutturale ed evoluzione territoriale, Bologna, Pàtron, 2015.

Documentazione tecnica sul progetto di potenziamento del comprensorio sciistico Monte Catria: http://doc.provincia.pu.it/urbanistica/VIA/2016-05-27_Comprensorio_sciistico-Monte_Catria

www.asmontecatria.com

www.catria.net

www.lalupusinfabula.it

www.montecatria.com

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