Intervista a Matthieu Amiech, d Rivista Malamente n. 18, giu. 2020 (QUI IL PDF)
Matthieu Amiech, editore e saggista francese del gruppo Marcuse (Movimento autonomo di riflessione critica a uso dei sopravvissuti dell’economia), ha di recente pubblicato una nuova edizione di La Liberté dans le coma (La Lenteur, 2019), un libro che affronta di petto l’informatizzazione di ogni ambito della società in quanto problema non solo individuale ma collettivo e politico. Una questione che, se era attuale già qualche anno o mese fa, oggi troviamo assolutamente amplificata dall’epidemia di coronavirus, che sembra aver fatto della comunicazione digitale l’ancora di salvezza della nostra vita sociale. Il libro descrive come ha preso forma un mondo in cui la maggior parte delle nostre azioni quotidiane passano, sempre più “necessariamente”, attraverso le tecnologie informatiche e digitali e sono dunque automaticamente registrate. Una schedatura continuativa e di massa, nuova forma di “servitù volontaria”, possibile grazie a un consumo sfrenato di energia e risorse. Vengono inoltre approfondite le conseguenze disastrose che il modo di vita perennemente connesso ha sulla nostra autonomia, sulle nostre libertà, sulle nostre capacità di opporci alle grandi organizzazioni dalle quali dipende ormai la nostra vita materiale. Abbiamo tradotto e fuso insieme due recenti interviste ad Amiech: “Il nostro libero arbitrio è risucchiato da internet”, intervista raccolta da Kévin Boucaud-Victoire, in “Marianne”, 19 agosto 2019 e “Il digitale è al centro della catastrofe ecologica”, intervista raccolta da Gaspard d’Allens e Hervé Kempf, in “Reporterre”, 26 novembre 2019. La terza intervista, “L’isolamento in casa amplifica la digitalizzazione del mondo”, sempre raccolta da Gaspard d’Allens per “Reporterre”, è uscita il 30 marzo 2020 e affronta il rapporto tra digitale e isolamento sociale per come si è venuto a configurare nella presente fase di emergenza sanitaria.
“Reporterre”. A che punto siamo arrivati, oggi, sul fronte della digitalizzazione della vita?
Siamo andati lontano, ancora più lontano di quando abbiamo iniziato a scrivere la prima edizione del nostro manifesto contro l’informatizzazione del mondo, La Liberté dans le coma (La Lenteur, 2013). La società è oggi informatizzata da cima a fondo. Quello che è stato sottratto, non sono più solamente i mezzi di sussistenza, ma il mondo stesso, l’accesso al mondo. Nelle grandi città c’è come un fenomeno esistenziale: una cosa non esiste se non la fotografo nel momento in cui la vedo. Non ha importanza se non la registro, la catturo e la condivido sulle reti sociali. Si consulta il proprio smartphone in maniera compulsiva, da appena svegli, qualunque momento di pausa si riempie guardando il flusso delle notizie, dei messaggi o dei giochi…
R. Quali sono le conseguenze ambientali dell’attuale sviluppo digitale?
Si dice che i giovani si impegnano, che sono preoccupati per l’evoluzione del clima e l’estinzione delle specie. Questo va molto bene. Ma siamo pronti a guardare in faccia il fatto che il cuore della catastrofe ecologica sta per diventare il digitale? Questo sviluppo esorbitante delle interfacce, degli schermi, dei dispositivi e delle reti? Dietro il digitale c’è l’estrattivismo e il rinnovamento dell’industria mineraria mondiale. Oltre ai metalli tradizionali, il cui sfruttamento è raddoppiato, bisogna estrarre in maniera massiccia ed esponenziale materiali nuovi e terre rare, il litio, il tungsteno, il germanio… Questa febbre estrattiva provoca catastrofi ecologiche a catena, che si verificano soprattutto lontano da noi. Fino ad ora.
R. Qual è il consumo energetico del digitale?
Oggi è tra il 10 e il 15% dell’elettricità consumata nel mondo. Se la sua espansione continuerà a proseguire al ritmo di un raddoppio ogni quattro anni, il digitale sarà nel 2030 il settore con il più alto consumo di elettricità: solo per lui, ci vorrà l’equivalente di tutta l’elettricità che è stata consumata nel 2008. È straordinario che lo Stato parli di “transizione energetica” promuovendo questa crescita suicida!
R. Le energie rinnovabili potranno rispondere a questo problema?
No! Per costruire pannelli solari e pale eoliche ci vogliono terre rare. Si entra in un circolo vizioso. Non possiamo continuare a impiegare così tanta energia. Bisogna impiegarne decisamente meno. E questo vale tanto per il traffico aereo che per l’automobile, per l’uso del computer e di internet. Una mail con un allegato rappresenta un’ora di consumo di una lampadina elettrica[1]. Si fa attenzione alle luci inutilmente accese e ci si batte per limitare l’illuminazione pubblica che in realtà non rappresenta che lo 0,8% del consumo globale di elettricità: bisogna essere logici, e anche rigorosi verso il consumo del digitale.
R. Il concetto di decrescita rispecchia quello che descrivi?
Questo termine ha una pertinenza che si andrà imponendo nei mesi e negli anni a venire. Il digitale, l’automobile e il traffico aereo sono i primi settori in cui si deve applicare la decrescita, ovvero in cui dobbiamo collettivamente accettare che il raggio d’azione delle nostre vita si riduca. Bisogna tenere in mente che le persone non hanno necessariamente scelto queste evoluzioni: lavorare sempre più lontano, utilizzare l’automobile, comunicare unicamente via rete. Non bisogna colpevolizzare, né regolare individualmente queste questioni, ma trattarle da un punto di vista collettivo, globale.
“Marianne”. Negli scritti del gruppo Marcuse si parla di una “civiltà di internet”, puoi spiegare il concetto?
Con una strizzata d’occhio alla celebre formula di Freud noi parliamo di un “disagio nella civiltà di internet”, in particolare dopo il 2013 e l’affare Snowden[2], e deploriamo che questo disagio non sbocchi in una messa in discussione di questa “civiltà”. Detto ciò, l’uso di questo termine è per noi un po’ paradossale nella misura in cui “civiltà” evoca la solidità, la perennità. Mentre niente indica che questa società, ogni giorno più dipendente dai computer e dalle reti, possa durare a lungo.
L’essenziale, per noi, è di sottolineare questa straordinaria dipendenza raramente percepita come tale: il funzionamento dell’organizzazione sociale poggia ormai (quasi?) interamente su quello di internet e dei microprocessori. La vita quotidiana (fino ai suoi aspetti più prosaici), l’economia, le amministrazioni, tutto deve passare per delle interfacce digitali, dei siti internet, delle onde elettromagnetiche o delle reti di fibre ottiche. Ricordiamo semplicemente, senza entrare nel dettaglio delle nuove app che fioriscono ogni settimana, alcuni importanti annunci della scorsa primavera: il biglietto della metro parigina sarà sostituito da una carta con chip, è stato annunciato il passaggio della tessera sanitaria su smartphone, la SNCF programma la chiusura di tutti gli sportelli delle stazioni, facendo in modo che non si possa più acquistare un biglietto del treno senza internet. E non dimentichiamo che il governo sta predisponendo la messa in opera della rete cosiddetta 5G, che permetterà la moltiplicazione di oggetti connessi capaci di “comunicare” tra loro e ci consentirà di scaricare dei video ancora più velocemente e più spesso.
Qual è la portata politica, ecologia e antropologica del trasferimento della vita sulla rete? Da una parte pensiamo che la questione sociale oggi si giochi lì, perché è da questo “trasferimento” che il capitalismo e l’oligarchia traggono una parte del loro potere, della loro capacità di ridurre i popoli all’impotenza, quale che sia la collera che cova o esplode. Ma pensiamo anche che queste evoluzioni non abbiano niente di naturale o di ineluttabile: sono il frutto di decisioni tecnocratiche alle quali è possibile opporsi.
Dobbiamo però ancora identificare collettivamente la loro importanza. Fino a oggi si è troppo poco insistito sul legame tra asservimento economico e utilizzo intensivo di internet, tra regressione democratica e informatizzazione galoppante. Queste questioni sono rimaste ai margini della discussione politica. Qui sta lo scopo del nostro libro: portare la tecnologia nel campo della discussione politica, mostrare che il suo sviluppo permanente e programmato è uno strumento di potere nell’arsenale delle classi dirigenti, che azzera le forme di solidarietà e di giustizia sociale esistenti, i legami diretti tra le persone, le capacità popolari di resistenza; è dunque possibile e necessario opporsi a questo sviluppo, senza per questo essere reazionari, anzi.
M. La questione dei dati personali, di cui si parla spesso, è il solo problema posto dal digitale?
Assolutamente no. Per noi, il problema principale è che nella misura in cui passiamo sempre più tempo incollati agli schermi, la nostra vita personale, la nostra soggettività e il nostro libero arbitrio sono assorbiti da internet e dalle grandi organizzazioni che lo dominano. L’utilizzo dei nostri “dati personali” (metto le virgolette perché questo termine non mi convince molto) a fini di profitto discende dalla nostra dipendenza concreta e affettiva verso gli schermi e i servizi resi dalla rete.
Se troviamo normale che la nostra esistenza sia presa in carico da aziende e amministrazioni che ci nutrono, ci distraggono, ci curano etc., come protestare contro il fatto che queste organizzazioni vogliano più informazioni su di noi? “È per servirti meglio, bambino mio!”, ghignano i lupi dell’industria. Internet radicalizza la nostra dipendenza da questi giganti industriali, allo stesso tempo generalizza e automatizza quello che prima, tramite sondaggi su piccoli campioni, si faceva in maniera artigianale sotto forma di studi di mercato. È un rafforzamento della società dei consumi, in cui il profitto si produce dispensando le persone dal fare le cose da sole o con i loro vicini, in rapporti non burocratici e non mercantili.
Noi non critichiamo solamente l’accresciuta influenza sulle nostre vite, grazie al digitale, del marketing e della pubblicità. Siamo allo stesso modo contrari alla prospettiva di un “socialismo digitale”; non pensiamo che i dati raccolti da internet possano permettere una migliore organizzazione dei servizi pubblici. Non crediamo che la solidarietà, la redistribuzione delle ricchezze, i servizi di base possano essere migliorati dalla potenza di calcolo degli algoritmi e dalla pseudo-razionalità degli strumenti informatici. Al contrario, bisogna uscire dalle logiche digitali di massificazione, di centralizzazione, di dipendenza da criteri estranei alla nostra volontà; e, piuttosto, ritornare a una dimensione locale, in cui le persone comunicano direttamente e possono esercitare una responsabilità personale su quello che fanno.
M. La soluzione è in una forma di digiuno digitale o di “cyberminimalismo”, cioè nel limitare individualmente al massimo la nostra dipendenza dal digitale?
Chi ci legge o ci ascolta ha spesso l’impressione che noi promuoviamo una sorta di ascesi digitale. Ma non è così. È vero che siamo personalmente animati da una repulsione verso tutta questa chincaglieria elettronica, ma visto il profondo cambiamento della società siamo costretti a usarla, anche noi siamo di fronte alle stesse costrizioni dei nostri contemporanei.
Quello che bisogna soprattutto capire dal nostro discorso, è che noi non ne facciamo una questione di etica personale, ma un problema politico. Certo che comprare libri su Amazon quando si pretende di avere delle convinzioni sociali, per non dire socialiste, ci sembra problematico. Ma ciò che ci interessa è far emergere un’opposizione alle politiche pubbliche e ai progetti aziendali che promuovono la vita connessa e la dipendenza dal digitale. Vorremmo che dipendenti e utenti della SNCF lottino insieme contro la soppressione programmata degli sportelli.
Ancora più importante, facciamo appello agli insegnanti e genitori affinché impediscano la digitalizzazione della scuola, che si annuncia come una catastrofe pedagogica, sociale e sanitaria. Sosteniamo gli allevatori che rifiutano di mettere dei microchip elettronici alle orecchie dei loro animali e siamo dentro ai comitati che si battono contro l’installazione dei contatori elettronici Linky [nuovo contatore elettrico “intelligente”, al centro di molte polemiche] e degli hub che mettono in relazione le informazioni raccolte da questi contatori con migliaia di antenne che saranno posate nello spazio urbano e rurale per la diffusione delle onde 5G.
Ecco cosa ci interessa, ben più di sapere se questa domenica Paolo o Brigitta hanno passato due o sei ore su Facebook. Solo lo sviluppo di queste lotte potrà condurre al necessario abbandono del digitale che auspichiamo. Il termine “sbarazzarci” ci sembra più consistente e più politico del “cyberminimalismo” di Karine Mauvilly[3]. Conosciamo Karine perché siamo nello stesso collettivo Écran total, che federa le resistenze al digitale nel mondo del lavoro e tenta di suscitarne di nuove. Lei in effetti parla di questo tipo di lotte, ma il suo libro è a mio parere troppo rivolto a una prospettiva di sviluppo personale, che ha qualcosa di de-politicizzante. Comprendo che per qualcuno la dipendenza è tale che bisogna innanzitutto passare per una prima tappa personale. Ma credo che abbiamo soprattutto un’urgenza politica.
R. Nella vostra vita quotidiana, come fate ad essere coerenti con la vostra critica della tecnologia?
Nel 1995, quando sono arrivati i primi telefoni portatili, la cosa non m’interessava, come a nessun altro. Chi li aveva erano gli uomini d’affari. Poi, tutt’a un tratto il telefono è diventato qualcosa d’indispensabile, di fashion. È stato un ribaltamento repentino. Io ho conservato il mio primo giudizio sul digitale, sulla perdita di contatto che implica. Ho anche la fortuna che il mio lavoro non esige di avere uno smartphone. Ma ho finito con il rimettere internet in casa, dopo averne fatto a meno per quindici anni: stava diventando complicato andare sempre dai vicini! Troppe pratiche della vita quotidiana si fanno ormai sul web.
Molti pensano che i discorsi del gruppo Marcuse o di Écran Total[4] consistano nel raccomandare il digiuno digitale, ma l’essenziale non è quello. Effettivamente, pensiamo sia possibile e desiderabile servirsi molto meno degli smartphone e di internet. Ma viviamo in questo mondo e dobbiamo constatare che è difficile uscirne individualmente. Piuttosto, è importante farne una sfida politica, lottare contro l’azione delle aziende e dello Stato che rendono questa dipendenza dal digitale generalizzata.
M. Nel digitale girano interessi economici colossali. Il GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e il suo equivalente cinese, il BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi) dominano il mondo economico. In questa situazione, possiamo sperare qualcosa dagli Stati?
Sembra difficile, dal momento che gli stessi Stati sono attori essenziali della digitalizzazione. Si potrebbe anche dire che oggi il progetto di digitalizzazione del mondo è consustanziale agli Stati, è uno degli ultimi terreni di ampio respiro che resta loro! Digitalizzare ogni attività, creare tutte le infrastrutture perché le aziende possano andare ancora più avanti in questa digitalizzazione, sembra essere diventato il cimento dell’oligarchia, dei funzionari pubblici, del governo.
No, non crediamo a una regolamentazione tramite gli Stati. Le connessioni tra il vertice dei poteri pubblici e le grandi aziende è troppo forte; sono assolutamente nella stessa prospettiva. Come sulla questione ecologica in generale siamo di fronte alla grande esigenza di cambiare collettivamente – e non solo a titolo individuale – i nostri comportamenti, i nostri consumi, il nostro modo di comunicare, e allo stesso tempop di fondare un nuovo tipo di potere politico, che provenga dai popoli e li difenda contro gli interessi industriali. Questo potere si chiamerà ancora “Stato”? Decidere starà alle persone che lo creeranno…
M. Come organizzarci collettivamente contro il digitale?
La pista politica che proponiamo in La liberté dans le coma è la disobbedienza civile contro l’imposizione digitale, sia nel lavoro che nei rapporti con le amministrazioni. Ma per organizzarsi collettivamente bisogna innanzitutto che ci sia un desiderio largamente condiviso di opporsi e questo, al momento, purtroppo non c’è! Bisognerebbe che emerga un nuovo senso comune verso i problemi politici e sociali posti dalla digitalizzazione delle nostre vite. Ci vuole inoltre una rapida presa di coscienza dei colossali danni ecologici causati dal nostro modo di vivere connessi e dall’industria che lo permette. L’informatizzazione e l’incessante espansione di internet stanno diventano il cuore pulsante della catastrofe ecologica: accumulazione di rifiuti ingestibili, aumento sfrenato dell’estrazione mineraria sempre più inquinante e distruttrice, crescita esponenziale dell’energia consumata.
E poi, oltre a mettere il pianeta “a nostra disposizione”, il digitale mette il lavoro altrui a nostra disposizione in una maniera che ricorda forme di servitù domestica che si credevano scomparse. Clicco e – voilà – una macchina appare all’angolo della strada per me; accarezzo il mio schermo e – ding dong – il fattorino mi porta il pasto pronto, è vero che non è in livrea, ma meglio non preoccuparsi troppo delle sue condizioni di lavoro. Non è che una radicalizzazione delle tendenze inscritte nella società consumistica, dove si dipende interamente dal lavoro altrui organizzato su scala industriale, ma la soglia che il digitale fa attraversare in materia di sfruttamento e di reificazione degli altri è solo raramente percepita.
Un libro importante come En attendant les robots (di Antonio Casilli, Seuil, 2019) documenta in maniera approfondita l’intenso lavoro che si nasconde dietro alle piattaforme internet, ma l’autore non è sorpreso che questo lavoro esista e che tante persone lo mobilitino con i loro comportamenti di consumo; reclama solo che sia meglio retribuito e tutelato da un diritto del lavoro degno di questo nome. Che ci sia qualcosa di indegno nelle relazioni di lavoro e di scambio che i nostri clic digitali banalizzano, questo non lo sfiora affatto.
R. Ma cosa frena una più larga presa di coscienza?
Il peso delle abitudini, il fatto compiuto, la complessità dell’immaginare dell’altro… Il digitale s’è imposto molto velocemente, nel giro di qualche anno. È paradossale che la maggior parte delle persone abbiano passato la maggior parte della propria vita senza questi apparecchi e che, adesso, credono impossibile farne a meno. Sono dipendenti e restano increduli quando gliene parli. Va da sé che la loro esistenza, prima, non era certo un inferno… e in ogni caso non sarebbe dipeso dalla mancanza di internet sul telefono portatile!
R. Cosa potrebbe creare una reazione tra la gente?
C’è stata una strategia particolare per suscitare opposizione al contatore Linky? No. L’informazione è semplicemente circolata, s’è sviluppata una coscienza ed è emersa una lotta. Perché questa volta sì e altre no? Non saprei dirlo. D’altra parte è certo che la lotta contro Linky ha aperto uno spazio in cui un certo numero di persone ha potuto interrogarsi e cambiare modo di fare. È attraverso la contestazione che diventa possibile un abbandono collettivo del digitale.
M. Pasolini vedeva nella società dei consumi il più grande cambio antropologico della storia. Il digitale è un mutamento ancora più importante? Lo smartphone non è forse divenuto per molti un prolungamento di sé? Stiamo vedendo l’avvento di un “homo digitalis”?
La maniera in cui il digitale ha penetrato la sfera intima e attraversato tutta la vita sociale illustra precisamente a che punto Pasolini avesse ragione. È un aggravio di alienazione (e di sfruttamento) che mostra come non esagerasse quando denunciava con forza la “prima” società dei consumi. Come altri pensatori degli anni ’60-’70 (Marcuse, Charbonneau) vedeva perfettamente ciò che stava succedendo: la perdita di autonomia materiale e morale delle persone, la profonda ambiguità del progresso tecnico e del comfort moderno, la necessità di un inventario degli strumenti che gli esseri umani utilizzano e che formano la materia del loro mondo. Quando si rileggono certe analisi di questi autori a proposito degli effetti della tecnologia sulla coscienza e sui rapporti umani, ci si chiede come abbiano potuto cogliere tutto questo così chiaramente, in un’epoca in cui gli oggetti disponibili ci sembrano così rudimentali e inoffensivi se paragonati all’equipaggiamento “aumentato” di oggi.
L’isolamento in casa amplifica la digitalizzazione del mondo
Intervista di Reporterre, 30 marzo 2020
Come stai passando questo periodo?
Al di là delle molteplici difficoltà personali che la situazione comporta, sentiamo di vivere un momento cruciale. Questa crisi sanitaria ed economica potrebbe favorire esplosioni di collera popolare, ma anche determinare un duraturo spostamento verso un ordine sociale più autoritario. Un’epidemia è un momento propizio per accrescere la centralizzazione del potere politico e amministrativo, un momento in cui la paura può essere fonte di solidarietà ma anche di conformismo e di appelli alla repressione. È difficile criticare le misure eccezionali che sono state prese, cioè continuare a riflettere in maniera critica, indipendentemente dal vortice di informazioni e commenti.
Ai primi di marzo il dibattito pubblico era dominato dalle critiche alla globalizzazione, al neoliberismo, al trasporto aereo, alla crescita. Con il diffondersi dell’epidemia, dopo che la vita sociale è stata ingabbiata, sono diventate eclatanti e anche inquietanti le discussioni sui mezzi digitali di controllo del contagio. Quasi ovunque si fa l’elogio del tracciamento elettronico dei positivi al Covid-19, così come viene praticato in Corea o a Taiwan. Intanto i governanti, tramite i media, sondano gli umori per capire “se le nostre società sono pronte ad accettare questo attacco alle libertà”, già si moltiplicano le applicazioni degli smartphones e alcuni Stati, come l’Italia, s’appoggiano agli operatori telefonici per verificare che i cittadini rispettino l’isolamento. In breve, non sappiamo se l’attuale situazione porterà a una qualche decrescita, ma vediamo bene che non è prevista una decrescita del digitale!
In che modo l’isolamento può accelerare la digitalizzazione della società?
L’isolamento spinge molte più persone a passare più tempo dietro allo schermo, per lavorare, per fare acquisti, seguire l’attualità, le reti sociali o semplicemente per divertirsi. Vediamo che anche nei circuiti alternativi e militanti si adoperano strumenti digitali per mantenere i contatti e organizzare il mutuo aiuto. È diventato un riflesso automatico, l’unica maniera in cui si pensa di poter conservare dei legami, parlarsi, prendere iniziative collettive. In un contesto in cui i rapporti diretti e fisici al di fuori dell’ambito casalingo sono impediti, ci sono tutte le condizioni perché si rafforzi la presa del digitale sulle nostre vite.
La rete internet così com’è adesso, può supportare una tale crescita di utilizzo? Questo non andrà forse a favorire i progetti di allargamento della banda e di rapida messa in funzione del 5G? In Italia, prima dell’epidemia, era iniziato un movimento di opposizione al 5G che oggi, con Huawei che si propone di aiutare il paese a risollevarsi, è più difficile da portare avanti.
Che conseguenze hanno l’isolamento e la digitalizzazione?
L’isolamento tende a privarci del mondo, nel senso che Hannah Arendt dà a questa nozione nel suo Vita activa. La condizione umana. Un senso culturale e politico. Arendt pensava che la società moderna, dedita alla produzione e al consumo di massa, facesse complessivamente restringere il nostro “mondo comune”, che esiste attraverso l’azione e le scelte politiche.
Con l’epidemia e l’isolamento siamo non solo privati del mondo nel senso culturale e politico, ma anche del mondo sensibile: gli assembramenti sono vietati – perfino le cerimonie funebri – numerosi mercati sono chiusi, i raduni nei boschi o sulle montagne possono essere sanzionati. La sola cosa che ci viene lasciata, il nostro solo accesso al mondo, è lo schermo di un computer. E lo si accetta in quanto gli strumenti digitali danno l’illusione di mantenere o ricreare il mondo attorno a noi, l’illusione di essere insieme, quando invece siamo isolati.
Verso cosa stiamo andando?
Il rischio è che l’episodio in corso ci faccia precipitare nella “civiltà senza contatto”. Non è una tendenza nuova: già nel 2000 l’antropologo Philippe Breton sottolineava che lo sviluppo (e il culto) di internet era sotteso da una fuga dai corpi, un incubo del contatto fisico e della violenza che i corpi possono produrre. Con il coronavirus questo incubo è validato e decuplicato, visto che gli incontri possono condurre al contagio e, potenzialmente, alla morte. Come pensare che ciò non lasci tracce e non acceleri certi processi, soprattutto se l’isolamento dura a lungo, su diversi miliardi di persone?
Un po’ ovunque sono stati vietati i mercati all’aria aperta, luoghi di contatto umano e di socialità. Ma perché chiudere questi mercati se si lasciano aperti i supermercati? Perché, piuttosto, non aiutare a organizzarli con le giuste condizioni sanitarie? Questo indica una mancanza di fiducia nella popolazione, e probabilmente una volontà politica di favorire la grande distribuzione.
C’ anche un’altra evoluzione, complementare: nei supermercati gli altoparlanti chiedono ai clienti di privilegiare il pagamento tramite carte e bancomat, se possibile “senza contatto”. Sappiamo che settori delle élite economiche lavorano già da diversi anni alla soppressione del denaro contante, alla digitalizzazione totale del denaro. Anche questo progetto con il coronavirus trova una sponda importante, visto che monete e banconote che passano di tasca in tasca possono essere vettori di contagio. La pressione sociale verso il “senza contatto” è quindi al massimo.
Questa digitalizzazione sembra ineluttabile…
Sì, perché è un progetto politico, portato avanti dagli attori più potenti. Già in tempi normali molte energie dei governanti sono dispiegate nel fare avanzare il digitale. La crisi sanitaria amplifica il fenomeno. Quale sarà il cruccio degli amministratori per mantenere la barca capitalista a galla e assicurare l’approvvigionamento della popolazione nei mesi a venire? Bisogna far girare la macchina produttiva, ma con meno contatti umani possibile. Oggi è una necessità sanitaria per non propagare il virus. Ma lo si può vedere come una semplice accelerazione di mutazioni già in atto: aziende della Silicon Valley, gruppi di studio padronali, tecnocrati di Bruxelles o Pechino lavorano già da tempo a questo tipo di organizzazione economica.
La situazione va a vantaggio dei giganti del digitale come Amazon, Google, Netflix, etc…
Bisogna avere il coraggio di dire, senza complottismi, che per l’industria del digitale la crisi sanitaria è una “divina sorpresa”. Nel senso in cui gli storici hanno parlato di “divina sorpresa” per descrivere quello che aveva provato parte della borghesia francese quando i nazisti hanno sbaragliato l’esercito tricolore in qualche settimana. Per le élite che volevano sbarazzarsi dello spettro del socialismo e del Fronte popolare, e modernizzare il paese, la vittoria della Germania aveva rappresentato un’opportunità.
Oggi il coronavirus crea un’occasione per tutti quelli che vogliono digitalizzare il mondo. Le misure di isolamento rendono la popolazione ostaggio delle aziende digitali, che provano a sviluppare il loro businness, mentre fanno la parte dei salvatori. Google s’è precipitato a proporre i suoi servizi di comunicazione a insegnanti e genitori appena qualche ora dopo la chiusura delle scuole. È scioccante.
Molti attivisti si organizzano via internet per sviluppare forme di mutuo aiuto, come vedi queste iniziative?
Noi tutti siamo immersi in questo mondo digitalizzato e iperconnesso. I Gilet gialli e Extincion Rebellion hanno enormemente utilizzato questi canali di comunicazione. Molte persone hanno qui le loro abitudini ed è inevitabile che le conservino in questo contesto di atomizzazione. Visto ciò che si conosce del colossale impatto ecologico del digitale, sarebbe sensato non spingersi oltre in questa direzione. Ma su questo la presa di coscienza è ancora molto limitata e dolorosa.
Resistere alla strategia dello choc dovrebbe anche consistere nell’allentare la morsa digitale sulle nostre vite e i nostri scambi d’idee. Come minimo, quando si lancia una parola d’ordine, una iniziativa politica o una campagna mediatica, si deve pensare a non far dipendere tutto dal digitale, ma mantenere o ricreare altri modi d’agire, per non ritrovarsi sempre più accerchiati dal web.
Vediamo della solidarietà nel mondo reale: alcuni fanno delle commissioni per persone anziane, si applaudono gli operatori sanitari, c’è chi organizza delle manifestazioni dalle finestre. Ci si può organizzare al di fuori del digitale?
Certamente, delle cose interessanti stanno emergendo. Il problema è come fare in modo che lo slancio di solidarietà non sia interamente canalizzato dal digitale. Dobbiamo realizzare che un’autentica riappropriazione della nostra vita materiale non può basarsi sulle tecnologie informatiche. Il vero problema e le vere soluzioni sono altrove, nel mondo concreto.
Vicino a me, degli infermieri hanno chiesto a un sarto del posto di produrre loro dei camici bianchi, perché non riescono più a procurarsene. Con la chiusura di molti mercati, alcune persone si organizzano direttamente con i produttori per stabilire dei punti di distribuzione più o meno clandestini. E con la crisi economica che si profila, ci vorranno molto lavoro e inventiva per tessere reti di approvvigionamento alla base della società.
Un’altra posta in gioco fondamentale è il rifiuto della sorveglianza con droni, smartphones, riconoscimento facciale, che stanno organizzando in questo periodo. Una sufficiente parte dell’opinione pubblica si dimostra contraria al tracciamento informatico? L’imposizione di questo genere di misure condurrà qualcuno ad abbandonare il suo smartphone? Io oso ancora sperarlo.
[1] Si veda lo studio condotto nel 2011 dall’ Agence de l’environnement et la maîtrise de l’énergie; http://www.leparisien.fr/societe/un-mail-ca-pollue-11-07-2011-1528228.php [NdT]
[2] Edward Joseph Snowden, ex tecnico della CIA, è noto per aver rivelato pubblicamente dettagli di diversi programmi top-secret di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico.
[3] Cfr. Karine Mauvilly, Cyberminimalisme. Face au tout-numérique, reconquérir du temps, de la liberté et du bien-être, Parigi, Seuil, 2019.
[4] La rete Écran Total è nata nel 2013 per mettere in comune, sotto diversi punti di vista, la riflessione su quanto la gestione informatizzata di ogni campo della vita e del lavoro stia svilendo le competenze umane.