Intervista di Luigi al Collettivo Anna Campbell di Pesaro
Se volete trovate la nostra rivista a Pesaro potete andare allo Spazio popolare Anna Campbell, dove puntualmente, ogni tre mesi, portiamo le copie fresche di stampa. Con questo nome e nell’attuale sede, lo Spazio ha aperto da pochi anni – libero da bieche logiche di “area” politica – raccogliendo l’eredità di quasi quarant’anni di autogestione nella città di Pesaro. Quattro decenni di conflittualità sociale, di battaglie culturali e politiche, di solidarietà attiva, di musica senza prezzo e di antidoti alla rassegnazione. Con questa intervista ad alcuni membri del nuovo Collettivo di gestione (intervista che abbiamo raccolto a luglio, in occasione di un pranzo a sostegno della rivista) raccontiamo che cos’è oggi lo Spazio popolare, come si inserisce e confronta con la città e quali sono i suoi progetti, in corso e futuri.
Partiamo dalla storia di questo posto, che oggi è lo Spazio popolare Anna Campbell, ma che raccoglie l’eredità storica del centro sociale di Pesaro. Quale percorso vi ha portato fino a questa sede e alla formazione dell’attuale Collettivo?
Giuseppe: L’attuale esperienza nasce da quella che era la realtà del centro sociale Oltrefrontiera di Pesaro, portata avanti nella sua ultima fase dal Collettivo Malarlevèt (“male allevati”, in dialetto). Lo sgombero dalla sede storica, nel gennaio 2017, è stato uno spartiacque enorme. Noi veniamo da lì, anche se per età, interessi, trasferimenti ecc., diversi compagni non sono più nel Collettivo; quella di oggi è quindi una nuova fase, ripartita con quelli che sono rimasti.
Lo sgombero avvenne perché le azioni del Collettivo Malarlevèt si erano spesso scontrate con le forze politiche che amministravano la città. Ad esempio: la battaglia contro il jobs act e contro lo “Sblocca Italia” che favoriva le trivellazioni in mare (a Pesaro, la nuova piattaforma Bianca-Luisella), il sostegno al popolo palestinese (il comune abbandonò il gemellaggio con Rafah nella striscia di Gaza), ecc. Nel periodo antecedente allo sgombero, tra l’altro, avevamo preso una posizione netta per il No al referendum costituzionale del 2016, creando il comitato “per il No sociale” e organizzando iniziative anche colorite, come il funerale della democrazia, con tanto di bara e candele che avevamo esposto di fronte al centro sociale mentre era di passaggio il sindaco, che stava andando lì vicino, a un comizio pro Sì al referendum.
Giuseppina: Circa un mese dopo quell’episodio, un venerdì notte, hanno cambiato la serratura del posto. La mattina successiva, quando siamo arrivati, abbiamo appunto trovato la serratura cambiata e attaccato sulla porta c’era un cartello scritto a penna che avvertiva che quella era una proprietà comunale e se qualcuno entrava sarebbe stato sanzionato. Il posto infatti non era uno spazio occupato, ma era dato in comodato d’uso gratuito, da oltre trent’anni.
Quella mattina c’erano già pronte le macchine della digos, che stavano a vedere se avessimo forzato la porta. Noi però non siamo rientrati in quel momento, ma abbiamo deciso di porre il problema pubblicamente. La scusa accampata dall’amministrazione comunale è stata che avevano chiuso il posto perché pericolante, quando in realtà nello stesso edificio c’era uno spazio per gli anziani del quartiere, che noi stessi avevamo costruito tirando su un cartongesso, e quello è rimasto – ed è ancora – tranquillamente lì. Quando abbiamo sollevato la questione che avevano sequestrato all’interno cose nostre, compresi mobili, computer e una piccola biblioteca, ci hanno fissato un appuntamento per poter rientrare a riprenderle: quando siamo arrivati avevano già buttato tutto fuori, in mezzo al fango perché aveva piovuto. Tutto buttato così.
Giuseppe. Per completare il racconto va anche detto che, la settimana prima dello sgombero, un ragazzo che frequentava assiduamente lo spazio con difficoltà economiche e legali (rinnovo del permesso di soggiorno) venne chiamato in questura e dopo due giorni si presentò “spontaneamente” in Comune per consegnare copia delle chiavi del centro sociale. Con quel gesto gli uffici comunali costruirono un ridicolo atto di rinuncia del nostro Collettivo alla concessione dello spazio (in essere dal 1985), riuscendo loro – dopo vari tentavi fatti nel corso degli anni – a entrare nella struttura e quindi a sgomberarci. Da quel momento è iniziato il nostro viaggio per riprenderci lo spazio sociale della città di Pesaro. Dopo inutili tentavi di dialogo con gli uffici comunali e i politici locali, abbiamo convocato un’assemblea cittadina molto partecipata: non bastò a cambiare la situazione, ma servì a organizzare la lotta.
Passati pochi giorni abbiamo organizzato una manifestazione/sit-in di fronte al municipio, che aggirando la polizia si è trasformata nell’occupazione di alcuni uffici comunali per mezza giornata. Questo bastò a scuotere l’amministrazione che decise di incaricare un nuovo referente politico, l’allora assessore Bartolucci, per gestire e risolvere il pasticcio. Bartolucci trasformò l’atto di sgombero in una proposta di “trasferimento” in una nuova sede (lo spazio dove siamo ora).
Discutemmo nell’assemblea cittadina della proposta. Avevamo due scelte: rientrare nel posto da cui eravamo stati sgomberati, con un’occupazione e una successiva resistenza, oppure accettare la trattativa con l’amministrazione comunale per il trasferimento. Scelta difficile, alla luce di tanti casi come il nostro, finiti male. Alla fine l’assemblea fu costretta a votare e, con poco scarto, fu presa la decisione di accettare la proposta di trasloco. Ci sono poi volute tante riunioni in Comune e tante lettere protocollate ed è passato più di un anno prima di poter entrare effettivamente nel nuovo spazio, ma alla fine ci siamo riusciti e ora dobbiamo lottare per mantenerlo, perché se è vero che abbiamo risolto i problemi tecnico/burocratici quelli politici sono ancora tutti lì.
Quindi siamo arrivati ad oggi. In questa nuova fase avete anche cambiato il nome del Collettivo, come lo avete scelto?
Giuseppe. Dopo tutto il percorso fatto, appena preso possesso del nuovo spazio il Collettivo ha scelto di darsi un nuovo nome. Sono state fatte diverse proposte, ma il nome di Anna Campbell, che due ragazze del Collettivo avevano conosciuto, è piaciuto ed è stato accettato da tutti e tutte. Anna Campbell è stata una martire per la liberà e i diritti civili: una delle tante combattenti straniere andate a difendere il popolo curdo del Rojava, unitasi alle YPJ (Unità di difesa delle donne). Si trovava ad Afrin il 15 marzo 2017 per impedire l’ingresso dell’ISIS ed è rimasta uccisa a ventisei anni a causa di un missile turco. La scelta è stata unanime, anche perché il nostro Collettivo ha sempre sostenuto l’esperienza politica e sociale del confederalismo democratico del Rojava. Tra l’altro nel 2015 abbiamo anche partecipato alla raccolta di aiuti denominata Carovana per Kobane.
Quali sono le prime iniziative che avete messo in piedi?
Giuseppina. Siamo partiti con il Festival delle cucine popolari autogestite. Nel 2018 abbiamo ospitato la terza edizione, tutte le assemblee sono state fatte qui allo Spazio e l’evento pubblico al parco Miralfiore. L’idea è che anche la cucina, a partire dalla materialità del cibo e da tutto quello che gli ruota attorno, può essere un terreno di lotta, di costruzione dell’autonomia, di rivendicazione politica. Queste cucine – come la nostra “cucina resistente” – sono anche cucine “in movimento”, perché disponibili a spostarsi in caso di necessità, ad esempio si è andati a far da mangiare per i migranti bloccati sul confine a Ventimiglia; noi ci siamo spostati spesso, anche per dare sostegno a Bologna a XM dopo il primo tentativo di sgombero.
La Boutique di Anna che cos’è e come è nata?
Giuseppe: Quella che abbiamo chiamato la Boutique di Anna è una stanza piena di vestiti e altri generi, tutti suddivisi e ordinati, che sono liberamente a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, secondo le sue necessità. Sono vestiti raccolti in occasione del terremoto del 2016 da parte delle Brigate di solidarietà attiva, di cui facciamo parte. In quell’occasione c’eravamo offerti come centro di raccolta per il Centro-Nord. I beni venivano smistati e mandati nei vari campi di terremotati ma, come spesso accade per le emergenze derivate da calamità naturali, le risposte solidali delle persone sono state molto più abbondanti delle esigenze reali. Avendo raccolto più del necessario, per un certo periodo, durante la fase dello sgombero, abbiamo organizzato lo “scambio solidale”: ogni sabato mattina ci mettevamo in piazza, proprio sotto al municipio, per scambiare prodotti che nel cratere non servivano più, come dentifrici e prodotti per l’igiene, in cambio di cose più strettamente necessarie.
Giuseppina: Finché a un certo punto si è posto il problema di cosa fare di tutto quello che era avanzato, in particolare avevamo ancora scatoloni e scatoloni di abbigliamento. Abbiamo pensato di continuare a dar loro una destinazione di solidarietà e così in questa nuova sede abbiamo organizzato la Boutique di Anna. Qui non facciamo una selezione tra chi può venire a prendere e chi no, non chiediamo credenziali né documenti perché siamo fuori dalla logica di certe istituzioni, dove chi si presenta in stato di necessità deve anche dimostrare di essere povero, cosa che ci sembra perfino umiliante, o dove non si può scegliere quello che si vuole ma solo prendere quello che è stato assegnato. E comunque molte persone che vengono più o meno frequentemente a prendere spesso portano anche altre cose, dando vita a un circuito solidale di scambio.
Giuseppe: È infatti nata una rete di relazioni attorno alla Boutique, possiamo chiamarla una “comunità resistente”, che si organizza e collabora per sostenersi: chi ha di più, dà di più, chi ha bisogno prende. Nelle nostre iniziative cerchiamo sempre di ampliare la comunità e i campi d’azione, e così arriviamo a parlare anche dell’ultimo passo, la creazione dello Spaccio popolare, che è un modo diverso di procurarsi il cibo, più vicino al nostro sentire, fuori dalla grande distribuzione, genuino e solidale. È un passo molto impegnativo ma fondamentale, perché il cibo è un bene primario da sottrarre al capitalismo. Come abbiamo già detto, grazie alla nostra cucina popolare abbiamo negli anni creato delle relazioni che, ora, ci hanno permesso di dare vita a questo Spaccio popolare al quale partecipa una rete di produttori locali ed etici, che non sfruttano il territorio, le persone, gli animali (il nostro obiettivo è di dirigerci verso uno Spaccio prevalentemente vegetariano).
Quali sono altre iniziative e attività che ruotano attorno allo Spazio popolare?
Giuseppe: Il nostro spazio vuole essere aperto alla città, ovviamente a quella parte di città con cui condividiamo dei principi e dei valori di base (antifascismo, antirazzismo, antisessismo, antispecismo). Il Collettivo Anna Campbell ha attivato pratiche di mutualismo, azioni anticapitaliste e ambientaliste, lotte alle discriminazioni, riuscendo così a tessere una serie di legami con le associazioni del territorio e ad avviare collaborazioni che prima il centro sociale non aveva. Adesso diverse associazioni vengono qui o comunque sono in contatto con noi – come l’ONG La Palla rotonda, l’ODV Stay Human, l’APS Arcigay Agora, il Collettivo studentesco Iskra, l’APS Giovani profughi e altre – e con loro organizziamo diverse attività. Detto questo, non ci facciamo però mancare altri tipi di attività come il presidio antifascista ogni volta che Casa Pound si presenta, il sostegno alla comunità LGBTQI (l’anno scorso abbiamo partecipato all’organizzazione del primo Pride Marche), il boicottaggio dei prodotti israeliani per cui facciamo parte della rete BDS (movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane), l’attenzione al mondo del lavoro con il supporto ai sindacati di base, ecc.
Giuseppina. Ad esempio La Palla rotonda è un’associazione che tenta di fare integrazione e aggregazione attraverso sport e cultura. Con loro abbiamo fatto diverse serate dal titolo “Conosci il mio paese”: ogni volta, chi è originario di un paese lo presenta, racconta cosa succede politicamente e non solo, insomma cerca di farcelo conoscere e dopo la presentazione c’è sempre una cena collettiva in cui proviamo a cucinare alcuni piatti tipici di quel paese. Facciamo una ricerca e cerchiamo di riprodurli, anche se non è facile per via degli ingredienti che possiamo reperire qui (in particolare le spezie sono di solito molto importanti). A fine serata c’è una cosa simpatica, un quiz a squadre, che mette alla prova la conoscenza su quel determinato paese; in palio non c’è niente, ma è una piccola cosa che coinvolge molto e sprona alla conoscenza reciproca: conoscenza che è la base del vivere insieme. Di queste serate a tema ne abbiamo fatte su tanti paesi, come Bosnia ed Erzegovina, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Mali, Slovenia…
Un’altra iniziativa che è appena partita è la Ciclofficina. Vogliamo organizzare una piccola officina di attrezzi, così chi vuole ripararsi la bici può venire qui e con l’aiuto di qualcuno di noi, o da solo se è capace, può farlo, oppure se ne ha bisogno può prendere una delle bici che abbiamo già rimesso a posto; quelle che abbiamo adesso sono biciclette abbandonate che il comune (di Gabicce, non di Pesaro) ha recuperato e, passato un certo tempo in cui nessuno le ha reclamate, ce le ha donate.
Tra le associazioni con cui collaborate hai citato Giovani profughi. Tu, Adama, che ne sei formalmente il presidente, ci racconti chi siete e che cosa fate?
Adama: Il nome della nostra associazione – Giovani profughi – l’abbiamo scelto per far capire subito chi siamo veramente: siamo i profughi che la gente ha visto sbarcare e che ancora sbarcano qui. Siamo venuti tutti via mare, alcuni già sette anni fa. Prima dell’associazione, che è nata ufficialmente il 30 gennaio 2020, ci vedevamo come gruppo di amici, ci siamo infatti conosciuti nelle strutture di accoglienza che ci hanno accompagnato per un periodo, fino a quando due anni fa la legge le ha chiuse e molti ragazzi si sono trovati in difficoltà. Così abbiamo iniziato ad aiutarci tra di noi: chi aveva un lavoro o una casa non poteva lasciare un fratello fuori. E poi vogliamo condividere la nostra esperienza con chi è arrivato da poco e con quelli che arriveranno. Aiutarli a capire cosa serve per integrarsi, per imparare la lingua, per vivere qui scegliendo una buona strada.
In particolare sul lavoro è molto importante essere informati, perché se non conosci i tuoi diritti non puoi neanche chiederli e allora ci facciamo aiutare da chi è più esperto, dai sindacalisti ad esempio. All’inizio ci siamo incontrati proprio per problemi di lavoro di alcuni ragazzi che erano sottopagati, abbiamo invitato qui, in questo Spazio di Pesaro, un sindacalista dell’USB che poteva darci una mano; quel giorno abbiamo scoperto anche tanti altri problemi che aveva la nostra gente e così è nata l’idea dell’associazione. Da poco abbiamo aperto una nostra sede a Mercatale di Sassocorvaro, ma rimane un legame speciale con lo Spazio di Pesaro che è sempre stato aperto e disponibile con noi.
Ultimamente, durante il lockdown, abbiamo aiutato nella preparazione e distribuzione dei pacchi viveri per le famiglie in difficoltà.
Cosa vedi nel vostro futuro?
Adama: La prima cosa che vorrei vedere è l’integrazione: una società senza discriminazione, senza razzismo, senza tutte queste difficoltà che abbiamo per ottenere una casa e un lavoro, perché ci sono persone che guardano solo il colore della pelle o da dove vieni. Noi siamo qui perché non potevamo stare dove eravamo e adesso cerchiamo di integrarci. Penso che l’integrazione tra i popoli sarà inevitabile nel tempo. Trovare chi ci lascia sempre indietro e ci tratta male rende solo le cose più difficili e lascerà segni di dolore nelle menti e nei cuori che saranno difficili da cancellare. Se tu mi aiuti a integrarmi non avremo nessun problema e vivremo in pace, ma se tu adesso mi respingi, quando sarò integrato avrò sempre una brutta immagine di te. Nel nostro futuro vogliamo avere bei ricordi, non brutti ricordi.
Nei prossimi giorni ospiterete qui allo Spazio popolare una serata informativa sulle lotte per i diritti degli animali, con cena vegan, da cosa nasce questa iniziativa?
Paolo: Io sono attivista per i diritti degli animali da circa cinque anni, sono stato in vari gruppi; ultimamente, parlando con altri attivisti, abbiamo pensato di organizzare una cena, sia per conoscerci meglio tra di noi, sia per invitare altri e condividere informazioni sulle lotte per i diritti degli animali. Valentina ci ha proposto di farla qui allo Spazio popolare, ci è sembrata una buona idea e così è nato questo incontro. Personalmente mi sto concentrando sul filone della comunicazione efficace per attivisti perché mi rendo conto che è molto difficile parlare con altre persone di argomenti come veganismo, diritti degli animali e loro liberazione – immediata! Alcuni attivisti arrivano addirittura ad accusare una sindrome da stress. Ci sono persone che ci si dedicano full time, che vanno ad esempio a fare i rescue (liberazioni) degli animali negli allevamenti intensivi, ma la condizione di un attivista, o anche solo di una persona vegana, è quella di far parte di una piccola minoranza costantemente sotto pressione e quasi sotto attacco da parte di altre persone che magari non hanno affinato il ragionamento su certi argomenti. Non solo non vieni compreso, ma spesso vieni marginalizzato e quasi umiliato per la tua scelta, che in fondo non è che la ricerca del benessere per i viventi. Un libro cardine su questo discorso è “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”, di Melanie Joy: lei si occupa proprio di fare formazione per gli attivisti proponendo diverse strategie di comunicazione efficace. Credo sia bene iniziare a discutere di questo, la serata che faremo qui sarà l’inizio di questo confronto.
Fermo restando la verità oggettiva sintetizzata nello slogan ACAB (All cops are bastards), voi avete seguito e ora vi state legando alla rete ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). Ci raccontate qualcosa di questa rete e di come sta nascendo qui allo Spazio popolare di Pesaro un suo nodo territoriale?
Giuseppina: ACAD è rete eterogenea di persone, di diversa provenienza, che si è associata a partire dai casi di Federico Aldrovandi (2005), Uva, Cucchi e tanti altri, tutti morti nelle mani delle forze dell’ordine. Il percorso prima informale ha poi portato alla nascita dell’associazione, con un coordinamento nazionale e vari nodi territoriali. ACAD è diverse cose: un osservatorio per monitorare e contrastare gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, un pronto intervento che grazie a un numero verde si attiva immediatamente in caso di segnalazione di abusi, un mutuo soccorso solidale per le vittime e le loro famiglie, un centro di controinformazione per smontare le versioni dei verbali di polizia.
Noi, a Pesaro, stiamo diventando uno dei nodi territoriali di ACAD, anche se in questo momento il Covid ha un po’ bloccato la situazione. Vogliamo dare appoggio a chi ne ha bisogno, anche perché abbiamo riscontrato che a Pesaro gli abusi sono evidenti, i più comuni riguardano il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, il continuo approfittare di chi ha documenti in scadenza, perquisizioni assurde e così via.
Giuseppe: In realtà questa non è un’attività nuova per noi, nel senso che un sostegno di questo tipo lo abbiamo sempre dato, anche con il supporto del nostro avvocato che ci segue da anni e degli avvocati di strada di Pesaro. Il nostro arrivo in ACAD è stato quindi naturale, la cosa positiva è che ci dà una struttura di riferimento, una rete.
Il vostro spazio sociale si trova nella zona pesarese di Villa Fastiggi, pochi chilometri più avanti lungo la strada c’è un carcere dove – come purtroppo in moltissimi altri istituti penitenziari – le condizioni dei detenuti sono pessime, c’è sovraffollamento, ci sono problemi sanitari, sono avvenuti maltrattamenti e anche episodi molto più gravi, come ad esempio la morte di Eneas (Anas Zamzami) nel 2015. Vi siete fatti un’idea di cosa succede in questo carcere?
Giuseppina. Eneas era un giovane che stava scontando una lieve condanna nel carcere di Villa Fastiggi e si è tolto la vita. Su come sia arrivato a questo gesto sappiamo che ci sono fondate responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria. Il caso di Eneas lo abbiamo seguito e siamo tuttora in contatto con il gruppo di amici e amiche che sta cercando di far luce sulla sua morte.
Giuseppe. Il carcere è un luogo di raccolta di “poveracci” e di disperati, il sunto della repressione di tutti coloro che sono emarginati, i cui problemi si potrebbero affrontare con ben altri strumenti; con il welfare, la solidarietà, le politiche sanitarie… Le storie di abusi, violenze, atti di autolesionismo e purtroppo di suicidi escono dal carcere di Villa Fastiggi e ci riempiono di rabbia e sconforto. Purtroppo, oltre la condanna del tribunale, la volontà punitiva verso i detenuti che si vive nell’ambiente del carcere è una cosa che abbiamo percepito e che ci è stata ampiamente raccontata. Per quanto possiamo, cerchiamo di attivarci a ogni sollecitazione, come nel caso di Eneas o collaborando con l’associazione Antigone. Vorremmo andare anche oltre, per questo abbiamo incontrato due volontari di Pesaro che tramite il rugby sono riusciti a organizzare attività sportiva nel carcere, dopo tre anni di richieste e di ostacoli. Ci aspetta un lavoro lungo e difficile.
A Pesaro, come in tutta la riviera, conoscete bene che cos’è lo “sfruttamento stagionale”, cioè quel lavoro in alberghi, ristoranti, stabilimenti, che dura qualche mese ed è fatto orari di lavoro interminabili, paghe ridicole, contratti non rispettati, assenza di turni di riposo eccetera. So che siete attivi/e anche su questo fronte, vero?
Giuseppina. Abbiamo aderito fin da subito alla campagna “Mai più sfruttamento stagionale” e al coordinamento nazionale, nato principalmente da attivisti dell’USB di Bologna, poi diffuso a Rimini, qui a Pesaro, in Toscana, in Sardegna. Si sta estendendo lungo tutte le zone costiere, dove lo sfruttamento stagionale si sente di più (certo, esiste anche in montagna, ma per ora il coordinamento è più presente sul mare). La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è una piattaforma di rivendicazioni, la prima cosa che chiede è, almeno, come minimo, il rispetto del contratto Collettivo nazionale, che è pessimo e pieno di criticità, ma è meglio di niente.
Io posso parlare per esperienza personale, ho iniziato a fare le stagioni quando avevo quattordici anni e ti posso assicurare che è vero che anche allora si lavoravano 15 ore al giorno, ma con tre o quattro mesi di lavoro mi pagavo gli studi e le vacanze, d’inverno non gravavo sulla famiglia. Gli stagionali di allora sapevano che per quei mesi avrebbero praticamente vissuto dentro l’albergo o il ristorante, però poi avevano tutto l’anno a disposizione. Oggi è molto diverso, si lavora sempre per tantissime ore, senza giorno libero, ma le paghe sono ben diverse e non c’è mai un vero contratto in regola. Io adesso ho un contratto a chiamata: spesso la sera mi dicono se la mattina dopo devo andare a lavorare oppure no. Non esiste nessuna garanzia, nessun diritto. Anzi, oggi più che mai con la pandemia in corso, molti datori di lavoro ti fanno sentire fortunato ad essere sfruttato, in confronto a tanti altri che con il Covid sono rimasti disoccupati.
Giuseppe. Bisognerebbe puntare a un vero e proprio sciopero degli stagionali, ma è difficile. Per ora ci sono riusciti i bagnini di salvataggio della Versilia, che come categoria hanno una certa forza perché se non si presentano lo stabilimento non può aprire, e quindi hanno ottenuto qualcosa. La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è stata accompagnata anche da un’indagine, sotto forma di questionario, dove tra l’altro è emersa una delle cose più tristi del lavoro stagionale cioè gli abusi, le molestie, con parole e atteggiamenti: per le donne la situazione è ancora più pesante.