Vai al contenuto

Il marchingegno si è rotto. RetroMarch(e): cambiare direzione

Intervista di Sergio Sinigaglia a Carlo Carboni e Michele Serafini [QUI IL PDF]

A metà marzo ad Ancona, presso la Facoltà di Economia, si doveva tenere un incontro pubblico promosso dalla nostra rivista insieme al mensile Gli Asini e al Circolo Laboratorio Sociale. Alla vigilia di una tornata elettorale in cui si prefigurava un successo della destra, l’intento era quello di ragionare sulle trasformazioni avvenute nelle Marche, sui mutamenti sociali, economici, culturali e antropologici, specchio del contesto più generale. Tra i relatori era previsto Carlo Carboni, docente di sociologia presso la stessa facoltà, autore di numerosi saggi tra cui “Il marchingegno”, edito nel 2005 da Affinità elettive, che analizzava il defunto modello marchigiano incentrato sul “piccolo è bello” e cercava di ragionare sulle possibili alternative.

L’incontro di Ancona è saltato a causa delle restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19; abbiamo però ritenuto opportuno intervistare Carboni sulle tematiche di cui avremmo dovuto discutere a marzo. L’intervista contiene alcuni riferimenti alla “classe dirigente” che ovviamente non ci appartengono visto che le nostre idee guida sono, piuttosto, i concetti di autonomia sociale, autogestione, autogoverno. In ogni caso ci sembra un contributo importante e qualificato per riflettere sui cambiamenti in atto, con l’auspicio che nella prossima primavera si possano ricreare le condizioni per riproporre l’iniziativa annullata.

Per ampliare il quadro sulla situazione regionale abbiamo intervistato anche Michele Serafini che, ritornato nelle Marche dopo due anni da ricercatore in antropologia a Londra, ha contribuito alla formazione del gruppo di ricerca interdisciplinare “Emidio di Treviri” formato da antropologi, sociologi e urbanisti, seguendo fin dalle primissime fasi le vicende del terremoto e post-terremoto 2016. Michele ci ha parlato delle dinamiche dell’entroterra, in particolare delle conseguenze determinate dall’ultimo sisma in territori già gravemente alle prese con fenomeni sociali ed economici che ne hanno fortemente indebolito il tessuto civico.

Andrea Pazienza, “Vignette”

Intervista a Carlo Carboni

Nel 2005 hai scritto “Il marchingegno” dove riflettevi sul modello di sviluppo tradizionale della nostra regione e di come ormai mostrasse la corda, quindi sottolineando la necessità di un suo superamento e di un cambio di paradigma. A quindici anni di distanza sembra che siamo ancora al palo…

Non è cambiato nulla, anzi il contesto è peggiorato. Già due anni fa Ilvo Diamanti a un convegno all’Istao (Istituto Adriano Olivetti, ndr.) ad Ancona aveva osservato come le Marche fossero scivolate nella “media mediocritas” italiana. Devo dire che dopo la vicenda del terremoto di quattro anni fa, a cui dobbiamo aggiungere lo scossone della crisi del 2008, con tutte le conseguenze avute sia nell’apparato produttivo che nel sociale, molti di quelli che hanno fatto i cantori di questo modello di sviluppo diversi anni fa – mi riferisco al nostro ambito accademico – abbiano peccato di un eccesso di entusiasmo rispetto a una realtà che ha invece mostrato tutti i suoi limiti strutturali.

Un ragionamento più approfondito va fatto sulla società, aspetto che più mi compete. La riflessione proposta dalla “scuola sociologica di Ancona” guidata a suo tempo da Massimo Paci aveva il limite, legato alla provenienza dello stesso Massimo, di essere condizionata da una visione metropolitana”. Ciò che colpiva era la tenuta dei valori tradizionali e si è continuato a fare riferimento a quello spessore morale, “etico”, come se tutto fosse rimasto fermo, mentre erano in corso profondi mutamenti. Basti penare alla dimensione del consumo e alla sua incidenza sulle persone. Come sottolineava Pasolini, te ne accorgi dopo di quanto possa influire dal punto di vista anche antropologico. C’è stata una eccessiva retorica riguardante le tradizioni… magari alla gente fa piacere, ma è tutto cambiato, quel mondo non c’è più. È cambiata anche l’etica del lavoro, si lavora per consumare. C’è una minoranza a cui piace, gratificata dell’attività che svolge, ma dall’altra parte esiste una maggioranza che non vede l’ora di finire…

Dunque c’è stato un ritardo nel capire come anche le Marche stessero cambiando pelle, sotto l’influsso delle trasformazioni avvenute nella società in generale?

Certo, tenendo presente che i cambiamenti hanno i loro tempi, attraversano le generazioni. Oggi è persino imbarazzante parlare delle Marche come regione, nel momento in cui secondo me le Regioni andrebbero ripensate e sarebbe un’occasione preziosa per una riforma profonda, per rinnovare la classe dirigente, detto nel senso buono, selezionarla in modo migliore. In Francia, per esempio, in poco tempo sono passati, vado a memoria, da trentatré a tredici province. Mi sembra che attualmente manchino figure di riferimento in grado di suscitare interesse, entusiasmo, confronto su queste tematiche, che stiano in mezzo alla gente, con la capacità di diffondere idee chiare.

Tornando al nostro territorio, di fronte al terremoto non si è manifestata una reazione forte. Questo anche perché oggi i marchigiani sono un altro tipo di persone, e ritorno allo sguardo antropologico a cui facevo riferimento prima. Sono convinto che oggi sostanzialmente ci sia un enorme deficit di etica, una incapacità di confrontarsi, di dialogare. La crisi delle Marche sta diventando una crisi comune ad altri territori. Mi riferisco in particolare all’Italia di mezzo, noi, l’Umbria, la Toscana, ad eccezione della zona di Firenze.

Rispetto alla riflessione che proponevi sull’assetto territoriale, forse sarebbe il caso di prendere in esame l’analisi di Antonio Calafati, proposta in centroidi”, in sostanza un ragionamento su aree metropolitane vaste, una specie di neomunicipalismo rinnovato*. Mi sembra una suggestione su cui varrebbe la pena riflettere rispetto a un modello centralista basato su Stato e Regioni.

Credo che di Regioni sia meglio averne tredici piuttosto che venti. Anche perché bisognerebbe risolvere questo regionalismo zoppo che ci portiamo dietro, emerso clamorosamente in questa fase di pandemia con il contrasto tra esecutivo centrale e governatori, contraddizioni che sconcertano i cittadini perché esprimono incertezze, esplicitano una “società di sopra” che vacilla. Certamente le analisi di Calafati sono interessanti a partire dalla città coalescente che a mio avviso è stata una grossa idea. Sono un punto di riferimento, soprattutto se consideri il territorio nel suo complesso come realtà urbanizzata, antropizzata, anche se fortunatamente non c’è solo la presenza dell’uomo, come un contesto che dovremmo preservare. Calafati fa riferimento alla linea mediana adriatica che va da Pescara a Rimini e ad altri segmenti che tendono a unificarsi. È sicuramente un’idea suggestiva che ha implicazioni anche sovrastrutturali su cui però bisognerebbe riflettere dal punto di vista ambientale.

Prendiamo Ancona e il suo sviluppo dopo il secondo conflitto mondiale: si è affermato uno sviluppo, pensiamo alla rete ferroviaria, al porto, che ha appesantito il territorio.

cartolina turismo marche

Sì, evidentemente “l’industrializzazione senza fratture” di cui parlava Giorgio Fuà, fratture ne ha invece create…

Non si può seguire una linea che porta cemento… insomma ci vogliono proposte alternative. Siamo in campagna elettorale ed è evidente come le idee siano poche. Pensiamo al laboratorio di suggestioni elaborate negli anni Settanta alla Facoltà di Economia di Ancona, espressione di una narrazione superiore. La politica l’ascoltava, ci si rapportava; oggi le cose stanno molto diversamente. C’è una evidente povertà di elaborazione. Ci sono stati dei tentativi di creare una classe dirigente regionale, la verità è che abbiamo un ceto politico molto debole, fragile. In passato il tutto era basato su un tessuto comunale radicato, i partiti erano una cosa molto diversa e svolgevano una determinata funzione. Questo però ha comportato un’incapacità di dare vita a una classe politica regionale, e si ragiona principalmente in una logica comunale, cioè si tratta di “piazzare” Ascoli Piceno o Fermo o Pesaro… Quindi è evidente che una classe dirigente regionale non c’è se a prevalere è una logica di “rappresentanza dei territori”.

Hai fatto riferimento alle imminenti elezioni. Dal punto di vista sociale come ti spieghi il successo della Lega e della destra, la crescita dei consensi nei loro confronti?

È evidente che tutte le colpe sono da imputare al centrosinistra. Il fatto che il centrodestra sia dato in vantaggio per le Marche è sicuramente una notizia, in passato non c’è mai stata partita, anche in momenti di flessione come le elezioni di cinque anni fa. Sostanzialmente penso che abbiamo perso la comprensione della società marchigiana, della crescita della povertà, dell’impatto che la crisi del 2008 ha avuto sul tessuto della piccola e micro imprenditorialità, piccoli commercianti, artigiani. È andato in fumo il risparmio di migliaia di persone. Pensiamo a ciò che ha voluto dire per tanti risparmiatori il fallimento di Banca Marche. Una massa di “autoccupati” che ha pagato un conto salatissimo.

ariston fabriano pubblicità anni 70

Invece per quanto riguarda quel pezzo di società che come rivista ci sta più a cuore, quindi i movimenti, l’associazionismo diffuso, quanto pensi possa incidere, quale ti sembra il suo stato di salute?

Credo che da tempo i movimenti stiano perdendo. Penso che la rete, internet abbia avuto una ricaduta negativa, magari non è stato l’elemento decisivo, ma è stata un aspetto rafforzativo, ha fulminato la partecipazione. Molto si è trasferito lì. Sempre più i movimenti sono legati ai social, alle nuove tecnologie. Certamente in questi anni ci sono state molte “strette”, ma la verità è anche che si sta sfaldando lo spazio pubblico a livello mondiale. Le persone preferiscono stare davanti al computer, trafficare con il cellulare, anche se la maggior parte dei giovani non sa cosa sia internet, le sue origini. Ritengo che su questo andrebbe fatta una riflessione seria da parte della sinistra. All’ordine del giorno ci dovrebbe essere la necessità di ricreare uno spazio pubblico, di reagire.

Regione Marche, comunicazione istituzionale

Intervista a Michele Serafini

Ci puoi raccontare che impatto ha avuto il terremoto di quattro anni fa sul tessuto socio-economico e sull’ambiente e fare un quadro della situazione attuale, considerato che della questione se ne parla sempre di meno?

La ricostruzione sta procedendo molto lentamente, anche confrontata con situazioni analoghe, anche a causa di fattori oggettivi, visto che l’area interessata è molto ampia e coinvolge tanti piccoli comuni in una zona montana. Le pratiche presentate, sia da soggetti pubblici che privati, sono molto poche. In ogni caso il quadro che emerge in questo momento è di un territorio che si sta riprendendo per quanto riguarda l’economia privata, mentre è alquanto indietro sul fronte della ricostruzione sociale. Quelle piccole realtà economiche che erano riuscite, anche per disponibilità di soldi, a rimettersi in piedi velocemente adesso stanno raccogliendo i frutti del loro agire. Viceversa chi non aveva un’attività imprenditoriale o ne aveva una di un certo tipo ha dei problemi; in sostanza, se avevi un ristorante oggi puoi in qualche modo essere avvantaggiato da una parziale ripresa del turismo, se invece avevi un negozio di elettrodomestici è evidente che paghi lo spopolamento del territorio perché difficilmente puoi vendere a persone di passaggio.

Muccia Foto Moira Spitoni
Muccia, gennaio 2020 – Foto di Moira Spitoni

Stiamo parlando di un territorio che come hai detto è caratterizzato da un certo numero di piccole località. Qual è quindi la situazione della rete dei piccoli comuni, che ruolo hanno avuto i sindaci, le amministrazioni locali. Sono stati soggetti passivi o hanno fatto sentire la loro voce?

In realtà i territori erano già abbastanza frammentati anche prima del terremoto perché, come è noto, il calo demografico e lo spopolamento sono fenomeni abbastanza strutturali, almeno a partire dagli anni Sessanta. Se a questo aggiungiamo uno scarso interesse da parte della politica nazionale è evidente come l’abbandono dei luoghi da parte degli abitanti abbia favorito un graduale e irreversibile impoverimento e svuotamento del tessuto civico. Anche in questo caso va sottolineato che, nonostante il quadro generale ora descritto, anche prima del sisma c’era chi si trovava dentro un determinato circuito economico e chi invece ne rimaneva tagliato fuori. Il terremoto non ha fatto altro che accelerare questo processo, questo sfaldamento, per cui chi non poteva contare su determinate risorse economiche ha deciso di rifarsi la vita altrove. Dobbiamo tenere presente che stiamo assistendo a una ristrutturazione che risponde a logiche che hanno poco a che fare con una effettiva ricostruzione. Cioè ricostruire non significa solo rifare le case, ma avere valori, progettualità di un certo tipo.

Quindi quale modello di ricostruzione si sta delineando?

Un modello piuttosto eterogeneo. Si va dalla strategia nazionale per le aree interne, al “patto per la ricostruzione e lo sviluppo” che definisce anche le linee economiche, sociali, di promozione turistica. Abbiamo la filiera del legno o il settore agricolo-pastorale, dove troviamo non tanto le linee guida incentrate sulla ricostruzione locale, ma su una visione legata alle grandi politiche europee, per esempio la politica agricola comune, un turismo di alta qualità, elitario, una montagna specializzata nell’accoglienza, non più incentrata sulla produzione e l’economia locali. È una ricostruzione che ha tante contraddizioni al suo interno, vedi tutti i bandi usciti per quanto riguarda la ricomposizione del tessuto economico, dove emergono contrasti evidenti, anche nei bandi regionali: da una parte si privilegia il piccolo produttore, dall’altra però i finanziamenti vengono dati a chi avvia l’e-commerce, o a chi decide di aprire una struttura ricettiva lungo la costa.

Nocelleto
Nocelleto, febbraio 2020 – Foto di Moira Spitoni

A proposito di modello, in questi decenni ci sono stati vari esempi di ricostruzione, positivi e negativi. Abbiamo avuto il cosiddetto “modello Friuli” incentrato sull’azione dei comuni e casi disastrosi come l’Irpinia e L’Aquila dove ha prevalso una logica centralista e burocratica. Nel nostro caso si è affermata la seconda linea con tutte le conseguenze a cui stiamo assistendo…

Si è affermata una sfiducia sia da parte dei cittadini nei confronti dello Stato che viceversa. Si è dato vita a un sistema burocratico che fino ad oggi, cioè all’intervento dell’ultimo commissario, ha prodotto sostanzialmente assai poco. Si è messo in piedi un sistema teso a evitare l’infiltrazione mafiosa, le azioni dei furbetti nel presentare le pratiche, ma così è stato creato un meccanismo estremamente complicato, con tantissimi paletti e tutto ciò ha bloccato la ricostruzione. Uno dei motivi è il fatto che nelle domande si è riscontrata una situazione pregressa fatta di piccoli e grandi abusi, che però sono stati trattati alla stessa maniera. Per esempio chi negli anni Settanta ha rimesso mano alle vecchie case di montagna, magari inserendo una finestra qui, ampliando una porta là, aggiungendo parti la cui realizzazione non è stata sanata, si è trovato dopo anni a pagare uno scotto generalizzato. Quando sono state presentate le domande di ricostruzione dopo il terremoto, gli uffici preposti hanno rilevato una finestra non prevista, una porta fuori posto, una discrepanza tra la casa reale e quella presente nel catasto: da qui il blocco dell’intero progetto di ristrutturazione. Di casi come questo ce ne sono centinaia. Il nuovo commissario per la ricostruzione ha sottolineato in un’intervista la necessità di accelerare, semplificare, sburocratizzare, deregolarizzare, ma poi ha dovuto ammettere che spesso la deregulation è un mostro a due facce, si va a finire dalla padella alla brace. Va bene semplificare, ma successivamente vanno creati quei contrappesi per appurare che ciò non abbia dato il via libera all’infiltrazione mafiosa. Tutto questo fa emergere una questione più generale, propriamente politica e culturale. Vogliamo dare spazio all’autocertificazione, in modo che le pratiche vadano avanti, quindi dando fiducia alle persone? Però qualcuno deve anche controllare. Oppure mettiamo tutti questi paletti e dopo quattro anni verifichiamo di essere al palo. E ci accorgiamo che questi paletti che dovevano impedire la presenza della malavita e il lavoro nero invece non sono serviti.

Sorbo
Sorbo, febbraio 2020 – Foto di Moira Spitoni

È opportuno toccare una tematica che come rivista ci sta particolarmente a cuore. In questi anni ci sono stati momenti di mobilitazione, si sono create reti di movimento. Che bilancio si può trarne? Sono state esperienze marginali o secondo te si è riusciti a incidere in qualche modo?

Marginali direi di no. Al di là della capacità di influenzare le politiche attuate nel territorio, cosa in cui non penso si sia riusciti, ritengo che le mobilitazioni abbiano avuto il ruolo prezioso di mettere insieme pezzi di società che altrimenti sarebbero rimasti isolati. Io non credo che ci siamo resi ben conto dell’importanza che hanno avuto questi movimenti. Effettivamente in tanti contesti dove le persone si sono ritrovate completamente sole nei confronti dello Stato, tra una normativa e l’altra, non dico che abbiano risolto i problemi, ma si sono posti come un aiuto rilevante e concreto. Soprattutto, hanno contribuito a ricreare una dimensione comunitaria, hanno provato a coinvolgere i territori nei processi decisionali. Dobbiamo tenere presente che il modello della protezione civile nazionale è gerarchico, si pone dall’alto verso il basso: “voi state buoni che ci pensiamo noi”. Il lavoro dei movimenti invece ha liberato un po’ di energie, una certa consapevolezza nelle persone che abitano i territori.

Ussita
Ussita, febbraio 2020 – Foto di Moira Spitoni

La pandemia quanto ha influito nel contesto fino qui descritto e che prospettive vedi?

Con la pandemia è nata la retorica nazionale del ritorno nei borghi, si è parlato di rifinanziamento delle aree interne. Da questo punto di vista le zone di montagna sono tornate centrali, dato che nel periodo della chiusura totale le persone stavano dentro casa e quindi il verde e i grandi spazi che la montagna può offrire hanno contribuito a creare una certa narrazione “esotica”. Però questa visione si va a intersecare con i progetti di sviluppo a cui ho accennato. E mi chiedo come verranno declinati in futuro. Sentire qualche “archistar” teorizzare come si possa stare bene in un borgo, ma poi verificare che le case non ci sono, che non c’è il contesto per poter riprendere a vivere… c’è da chiedersi se siano solo parole vuote. Inoltre i vari grandi progetti che vengono proposti dovrebbero essere rapportati alle amministrazioni locali. Le grandi idee che vengono da fuori si andranno a scontrare con le pratiche del territorio, con il suo tessuto civico.

Vallinfante
Vallinfante, febbraio 2020 – Foto di Moira Spitoni

* Antonio Calafati, per diversi anni docente di Economia urbana all’Università Politecnica delle Marche, ha pubblicato nel 2008 il saggio Città in nuce nelle Marche (scritto con Francesca Mazzoni, edito da Franco Angeli). Si tratta di un’analisi che si sofferma sulle caratteristiche territoriali della regione e le relative “traiettorie” di sviluppo locale, ne esamina le contraddizioni e i mutamenti avvenuti, proponendo quindi un’ipotesi di riorganizzazione a partire dall’evoluzione dei vari comuni, anche sotto il profilo urbanistico, e delineando così una mappa ideale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *