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Non di solo Stato vive la scuola. In difesa delle scuole libertarie

Intervento di Francesco Codello

Agli inizi di marzo il sito Dinamo Press – che si definisce come un progetto di informazione indipendente nato dalla cooperazione tra diversi spazi sociali di Roma, giornalisti professionisti, ricercatori universitari, video maker e attivisti – ha pubblicato un articolo di Angela Pavesi e Michele Dal Lago intitolato “Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie”. Mettendo in un unico calderone esperienze educative tra loro anche molto diverse, gli autori attaccano duramente tutte le realtà che si muovono esternamente alla scuola statale, identificata come l’unica scuola pubblica possibile, al di fuori della quale ci sarebbe solo la giungla del modello neoliberista. Pubblichiamo una replica di Francesco Codello, pedagogista, tra i fondatori della Rete per l’educazione libertaria, che è stato dirigente scolastico ed è da lungo tempo impegnato nella ricerca storico-educativa. Codello ha parlato ai microfoni di Radio Blackout, nella rubrica Anarres condotta da Maria Matteo, difendendo le esperienze concrete di educazione libertaria che, tanto oggi quanto nella loro ormai lunga storia, si sono sviluppate come strumenti di cambiamento sociale in senso antiautoritario: riportiamo qui il dialogo radiofonico con l’autorizzazione dell’autore, e ci ripromettiamo di tornare sul tema anche sulle pagine di Rivista Malamente.

[Maria Matteo] Vuoi raccontare brevemente cosa dice l’articolo pubblicato su Dinamo Press o preferisci partire dalla realtà delle scuole libertarie?

[Francesco Codello] Preferisco sicuramente partire dalle nostre idee e dalle nostre pratiche, perché ritengo quell’articolo pubblicato da Dinamo Press violento nei toni, inqualificabile, che sprigiona ignoranza e/o malafede. I toni e i modi, oltre che i contenuti, non stimolano l’apertura di un dibattito, non aiutano il confronto e nemmeno spingono a fare riflessioni e autocritiche, peraltro sempre necessarie. Nel corso della discussione spero di riuscire a far emergere alcuni concetti importanti sia dal punto di vista storico che attuale, che in quell’articolo non vengono minimamente considerati.

[M.M.] Cominciamo allora con il dissipare un po’ di confusione, che certamente Dinamo Press ha contribuito ad alimentare, perché il percorso delle scuole libertarie non può essere equiparato alla sola educazione parentale, né tantomeno a percorsi come quelli delle scuole private, confessionali o di altro genere.

[F.C.] Partirei da una prima considerazione: gli autori dell’articolo che esprimono questi giudizi, e portano un così duro attacco all’educazione libertaria, palesano una profonda ignoranza di tutta la storia dell’educazione libertaria. Non sanno nulla, almeno così traspare dall’articolo, di una storia della quale noi siamo orgogliosamente fieri, che ci appartiene e di cui sentiamo anche la responsabilità. Quando si intraprendono pratiche di educazione libertaria si deve infatti sentire il senso di appartenenza a una tradizione che ha segnato profondamente il rinnovamento della pedagogia nel corso della storia. A cominciare da William Godwin, che per primo parlò contro l’idea di un curricolo scolastico unico e quindi di gestione in esclusiva del sistema scolastico da parte dello Stato, per arrivare fino alle esperienze concrete dei giorni nostri.

C’è poi anche una profonda ignoranza di ciò che si è dibattuto e discusso nella storia della scuola italiana. Tra il 1900 e il 1926, cioè fino all’imporsi delle leggi cosiddette “fascistissime”, la scuola italiana ha subìto due grandi processi di cambiamento: la legge Daneo-Credaro del 1911 e la riforma Gentile del 1923. Mi soffermo in particolare sulla legge Daneo-Credaro, con la quale lo Stato italiano, in ritardo di molti anni rispetto ad altri paesi europei, avoca a sé la gestione e quindi l’organizzazione delle scuole di base, così si chiamavano le elementari, che fino ad allora erano state a gestione comunale. Questa legge rappresenta sicuramente un importante passaggio, anche in senso positivo, ma dà inizio anche a un percorso di statalizzazione esclusiva dell’organizzazione scolastica. Tra gli anarchici si sviluppa in quegli anni tutto un dibattito che possiamo semplificare nella domanda: scuola laica o scuola libera? Cioè era positivo il tentativo di togliere la scuola dal condizionamento clericale, perché era questo che succedeva con la scuola a gestione comunale, soprattutto nei piccoli comuni che rappresentavano la maggior parte del tessuto sociale italiano, ma d’altra parte a questa idea di scuola laica veniva contrapposta un’idea di scuola libera.

È questa la stessa ambizione che hanno oggi (e da sempre) le scuole libertarie: l’idea di una scuola intesa e progettata come organizzazione pubblica non statale. Quindi aperta a tutti, non confessionale, libera, autogestita da comunità tra loro federate e auto-organizzate. Con un movimento organizzativo che parte dal basso e salta ogni forma di accentramento deleterio per le pratiche di autogestione. Questa è la nostra grande ambizione, ma la sinistra italiana è sempre stata, tranne poche eccezioni, una sinistra statalista, e non poteva essere altrimenti che così.

Nell’articolo uscito su Dinamo Press, nella sua difesa a oltranza della scuola statale, non viene posto minimamente il problema della differenza tra pubblico e statale. Per loro sono la stessa cosa. Non si pongono neanche il problema di come si siano evoluti i sistemi scolastici statali a livello globale (pedagogia delle competenze, meritocrazia, aziendalizzazione, sistemi centralizzati di valutazione, ecc.), in conseguenza del processo di globalizzazione per come si è affermato, di che tipo di cittadini e studenti governabili in modo autoritario abbia bisogno il mercato del lavoro globale.

[M.M.] Hai puntato il dito sui peggiori aspetti di questo articolo, dove si discorre di neoliberismo accusando i percorsi delle scuole libertarie e poi si ignora, o si finge di ignorare, che quella che loro chiamano scuola pubblica è la scuola statale, al cui interno sono in atto processi di aziendalizzazione così forte che ormai queste scuole sono costruite per produrre uomini e donne flessibili e adattabili a un mercato del lavoro nel quale molti di loro nemmeno entreranno, ma la cui logica è di essere pronti e sottomessi a qualsiasi esigenza. Come si fa a ignorare cosa è accaduto e sta continuando ad accadere dentro la scuola statale e a difenderla tout court come organo di una società futura migliore, quando è quella stessa scuola una delle colonne su cui si regge oggi l’ordine costituito?!

[F. C.] Non considerare tutto questo è malafede o incapacità di vedere al di là del proprio naso. È furore ideologico. Mi sembra però importante anche sottolineare che l’esperienza dell’educazione libertaria è concepita da tutti coloro che la praticano, nonché da coloro che la sostengono, come un mezzo per il cambiamento sociale in senso antiautoritario. Non è pensata come una cosa sulla quale costruirsi il proprio spazietto e crogiolarsi nella propria idea di perfezione. Anzi, sono esperienze che nascono con l’intento di mettere in pratica oggi, qui e subito, degli strumenti di cambiamento sociale, pur con le contraddizioni che ci possono inevitabilmente essere e con i limiti sui quali occorre riflettere e ragionare continuamente.

Non capire questo, accomunando l’esperienza delle scuole libertarie a tutto quell’altro mondo di alternativismo che c’è in giro, significa mistificare e generalizzare arbitrariamente. Queste esperienze non hanno a che vedere con la new age, i no vax, la scuola parentale e tutte le altre cose che ci sono, e che hanno tutto il diritto di esprimersi e fare le loro cose. Non sono scuole parentali: è vero che si utilizza una legge dello Stato, quella che consente l’educazione parentale, ma non sono scuole di famiglie che si mettono insieme per soddisfare la propria temporanea necessità e che molto spesso rivelano un prolungamento dell’ideologia familistica all’interno dell’educazione scolastica. Questo non sarebbe un passo avanti dal nostro punto di vista. Sono invece scuole libertarie, che vivono certamente tante contraddizioni e problemi ma che hanno come scopo principale di essere uno dei mezzi di cambiamento sociale in senso libertario e antiautoritario.

È inoltre importante ricordare che il discorso portato avanti dalla Rete per l’educazione libertaria non ha mai messo in discussione le tante buone pratiche che anche all’interno della scuola statale possono avvenire a opera di singoli docenti, o di piccoli gruppi di docenti, ma con la consapevolezza che il sistema scolastico globale, per come si è ormai stratificato, nel suo insieme – non i singoli soggetti che ci lavorano – è irriformabile. È prigioniero del suo paradigma.

[M. M.] Ti chiederei di spiegare un po’ come funzionano, come sono fatte queste scuole libertarie, anche solo restando nella realtà italiana. Per rispondere con i fatti…

[F. C.] Provo a riassumere in pochi punti le caratteristiche fondamentali. Sono progetti educativi autogestionari che nascono dalla volontà di un gruppo di persone di dare vita a processi di cambiamento qui e ora, in questo caso nell’ambito dell’educazione e dell’istruzione. L’idea di base è che non esista un curriculo unico ma che, estremizzando, ce ne siano tanti quanti sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che frequentano questo tipo di esperienze. Le decisioni che riguardano la vita della scuola devono esser prese in maniera paritetica tra tutti i membri della comunità, senza distinzioni di età o di altra natura. Non c’è una metodologia didattica privilegiata, ma le varie metodologie e suggestioni che sono state avanzate nella storia della pedagogia vengono prese e utilizzate a seconda del contesto e delle esigenze di chi frequenta queste scuole. Ci sono poi diversi livelli di accentuazione di un aspetto rispetto all’altro: non potrebbe che essere così visto che non tutte le scuole hanno il medesimo modo di procedere, anche se hanno delle caratteristiche comuni. Ovviamente ci sono anche altre caratteristiche che qui non ho tempo per riassumere. Direi che la cosa più significativa è questa: l’apprendimento deve diventare il centro dell’organizzazione e non questa essere piegata alle esigenze dell’insegnamento. Apprendere è un fatto naturale, inevitabile, spontaneo: deve essere incoraggiato, coordinato, problematizzato e non imposto.

Se le persone prima di giudicare e di sparare sentenze assistessero, ad esempio, a un’assemblea di queste scuole (luogo e tempo strategico di ognuna di queste esperienze), dove vengono prese le decisioni, dove si discute e si assumono paritariamente le scelte inerenti alla vita della comunità educante, dai bambini piccoli ai più grandi, capirebbero forse che cosa significa “partecipare”, essere coinvolti in modo libero e spontaneo alla definizione delle regole della propria vita associativa. E capirebbe che l’alternativa allo Stato c’è e si può praticare.

C’è un passaggio di quell’articolo che… davvero non trovo l’aggettivo per descriverlo. Quando usa l’esperienza di una delle nostre scuole, di Verona: l’opinione che i bambini e le bambine devono dare sul proprio insegnate viene definita una delle nuove forme di istituzionalizzazione della precarietà e del licenziamento del personale… siamo davvero alla paranoia più indescrivibile!

[M. M.] In pratica, dire che un bambino o una bambina hanno la possibilità di criticare l’operato degli adulti che sono con loro nel processo di autoeducazione, senza temere punizioni e reprimende come capita normalmente nella scuola statale, diventa che il bambino licenzia il maestro. Questi nemmeno capiscono di che cosa stiamo parlando! O forse hanno realmente un tale disprezzo nei confronti di quei percorsi di libertà che riconoscono dignità ai bambini e alle bambine, come soggetti attivi che possono e devono scegliere per poter imparare. Io credo che ci sia anche incapacità di capire che nella scuola statale chi apprende a forza dimentica, non acquisisce davvero un percorso formativo profondo.

[F. C.] Uno dei presupposti dell’educazione libertaria parte dall’idea incontrovertibile che apprendere è un fatto naturale. Nessuno può non apprendere. Io sfido chiunque a dimostrarmi che gli esseri umani non apprendano continuamente in qualsiasi contesto, anche in quelli più tragici. Allora, se apprendere è un fatto naturale che non si può evitare e che viene dalla relazione tra gli esseri umani e tra essi e l’ambiente, come mai, mano a mano che questo processo di apprendimento viene organizzato, istituzionalizzato, valutato con voti ed esami, si affievolisce per non dire che scompare?

Si parla di aumentare il personale, aumentare il tempo scolastico, senza preoccuparsi che il sistema andrebbe cambiato radicalmente alla base. Mettendo al centro non l’insegnamento ma l’apprendimento. Andrebbero organizzate le giornate e gli anni dell’apprendimento a seconda delle domande che vengono poste dagli attori dell’apprendimento stesso, cioè i bambini e le bambine, non tanto sui pregiudizi dell’insegnamento, cioè dell’insegnante. Si tratta di capovolgere il paradigma.

[M. M.] Io credo che alla fine ci sia sempre una questione di gerarchia e i piccoli esseri umani, bambini e bambine, devono stare al loro posto, avranno il diritto di dire qualcosa quando avranno acquisito le competenze necessarie. Questo è terrificante perché così si impara l’obbedienza forzata: devo obbedire se voglio essere accettato e riconosciuto. Comunque, di fronte a una scuola statale che sta annegando, tanto più in periodo di pandemia, è evidente l’importanza delle scuole dove i numeri sono volutamente piccoli, dove si dà importanza all’educazione all’aperto, che già in epoca prepandemica rappresentavano un modo più sano e sicuro di stare insieme.

[F. C.] Certo, queste sono tutte scelte fatte con cognizione di causa. La scelta della piccola dimensione, che comporta il moltiplicarsi di tante piccole realtà piuttosto che l’accentramento è una politica scolastica, diciamo così, che va in direzione opposta a quella statale, a prescindere dai partiti che sono stati al governo, che è stata invece quella di chiudere, chiudere, chiudere, per risparmiare.

Un altro caposaldo, che rappresenta un’alternativa anche in questi tempi, è quella che noi chiamiamo “educazione incidentale”, che porta al decentramento dell’istituto scolastico, dalla scuola come edificio verso le tante occasioni che la città, la campagna, la bottega, il campo, l’ufficio etc. possono offrire per l’acquisizione di vere competenze. E non parlo di quelle dichiarate nei documenti scolastici, perché la competenza è la capacità di un individuo di sperimentare e operare in concreto, in una data situazione, le sue conoscenze, intuizioni e abilità. Sfido chiunque a dimostrarmi come questo sia possibile in una classe di trenta bambini che non possono muoversi dai banchi.

Dobbiamo abbandonare una concezione securitaria dell’esperienza scolastica, che è allucinante. Bisogna invece sciogliere la scuola nel contesto sociale in cui vive, utilizzare tutti gli spazi della vita sociale che sono forieri di apprendimento motivato e motivante. Come faccio a sperimentare in un’aula chiusa? Certo, ci sono momenti in cui il sapere ha bisogno di essere sedimentato, e una cosa non esclude l’altra. Ma è stata la scuola statale, che gli autori chiamano pubblica, ad aver escluso in maniera ormai irrecuperabile tutte quelle esperienze di apprendimento che nascono dal contesto. Come diceva Paul Goodman: io non devo addestrare i bambini a rispondere alle mie domande, devo piuttosto stimolarli a porre continue domande.

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