Vai al contenuto

Cambiare rivoluzione. Come essere realisti senza dimenticare l’utopia

da Rivista Malamente n. 22, lug. 2021 (QUI IL PDF)

Di Groupe MARCUSE (Movimento autonomo di riflessione critica per l’uso dei sopravvissuti dell’economia)

Come lo ribaltiamo il corso della storia? Dove sistemiamo la fatidica leva? Difficile trovare un punto d’appoggio… e mentre ci perdiamo nel labirinto che dovrebbe condurre a un improbabile cuore della contraddizione sociale le lotte scorrono sotto i nostri occhi, nei nostri territori, limitate e parziali, spurie e sporche, ma vive, reali, concrete. Che siano valligiani che disturbano l’alta velocità ferroviaria, piccoli allevatori contrari alla gestione informatizzata dei propri greggi o genitori che rifiutano schedature e controlli biometrici all’ingresso delle scuole (come ci raccontano gli esempi portati in questo articolo), intere comunità si muovono diffidenti e combattive, anche se talvolta non radicali come ci piacerebbe, contro un capitalismo che grazie allo sviluppo industriale e informatico sta realizzando al massimo grado il suo programma di sottomissione e dominio dell’esistente. In attesa che torni popolare la causa della rivoluzione liberatrice, discutiamo insieme su questi argomenti a partire dal testo che abbiamo tradotto da “La liberté dans le coma” (edizioni La Lenteur, 2013, nuova ed. 2019).

Non ha molto senso, a nostro parere, lottare contro gli effetti di controllo prodotti da un dispiegamento tecnologico considerato come ineluttabile con il solo obiettivo di preservare le libertà individuali. Piuttosto, è proprio tale dispiegamento, e il suo carattere ineluttabile, che bisogna mettere in discussione teoricamente e praticamente. L’urgenza non è tanto difendere «le libertà», quanto reinventare la libertà.

Opporsi all’offensiva tecnologica, interromperla, ricacciarla indietro implica un tipo di cambiamento sociale e politico inedito. Quante rivoluzioni ci vorranno per recuperare delle condizioni di vita favorevoli a un progresso del genere umano? Quante insurrezioni e sollevamenti per riorientare il corso delle cose fuori dai binari, resistenti ma flessibili, dello sviluppo economico, dell’accumulazione senza scopo e senza freni? Non è piuttosto un cambio di civiltà quello che auspichiamo? E un tale cambiamento riguarda ancora la politica, cioè l’azione degli esseri umani associati, ciò che si può insieme elaborare e istituire? O si tratta di uno slittamento talmente profondo che sfugge completamente alla coscienza e alla volontà umane, andando al di là di quel che può progettare un movimento politico o un gruppo sociale?

Rispondere non è semplice. Si può dire che il mondo attuale è il risultato del corso delle cose impersonale e meccanico e, allo stesso tempo, di un movimento ideologico elaborato. Svariate generazioni di intellettuali hanno contribuito attivamente al progetto di «perfezionare» le facoltà umane e l’organizzazione sociale tramite le macchine, con il loro aiuto o prendendole come modello. L’illuminismo, il sansimonismo (le cui idee essenziali sono state riprese e diffuse dal marxismo) e in ultimo la cibernetica hanno adottato con successo questa visione riduttiva della vita e del progresso. Opporre a questa altre visioni del mondo contribuisce a coltivare la possibilità di un’altra realtà. È indispensabile elaborare linguaggi e immaginari che veicolino altre cose rispetto all’imperativo della gestione efficace, della quantificazione, della gestione strumentale. Sperando che questa nuova cultura, queste rappresentazioni diverse della libertà, potranno avere una forza di cambiamento del mondo paragonabile a quelle che hanno plasmato fin qui la società moderna.

Anche se si ammette che degli individui o dei gruppi possano in generale incidere sul grado di sviluppo tecnico (e di burocratizzazione) della loro società, permane quel sentimento di impotenza che ispira la nostra epoca moderna. L’arresto dello sviluppo economico e tecnologico non è all’ordine del giorno. La maggior parte dei nostri contemporanei non aspira a un cambiamento che vada nel senso dell’autodeterminazione, della libertà per qualcosa.

In Europa non si vedono all’orizzonte le possibilità di un tale rivolgimento. Possono senza dubbio prodursi rivolte contro le oligarchie, anche a breve termine, ma una o più rivoluzioni che portino a delle conseguenze, che rifondino le società occidentali su nuove basi sono al momento inimmaginabili.

E quindi, cosa fare qui e ora? Se una rivoluzione o un cambio di civiltà sembrano impossibili nell’immediato, possiamo almeno frenare il decadimento in corso. Possiamo lottare contro la pervasività delle schedature digitali e dei microchip RFID, oggi che l’organizzazione sociale ha fondamentalmente bisogno di moltiplicare queste cose e gode dell’approvazione della maggioranza delle persone? Possiamo limitare gli attacchi alle libertà civili difendendo un’altra idea di libertà diversa da quella dominante? Che mezzi utilizzare in questa lotta impari e rischiosa?

Anche in un contesto di contro-rivoluzione permanente non ci sembra impossibile che esistano persone, in momenti e luoghi diversi, che si oppongano al rullo compressore burocratico-digitale.

In questi tempi di regressione, ciò che tutta una tradizione rivoluzionaria ha chiamato con disprezzo «lotte parziali» assume giustamente un’importanza cruciale. Per la critica sociale ispirata a Hegel e Marx, la sola battaglia che valga la pena è quella contro la totalità di ciò che esiste, per il ribaltamento in blocco dello stato di cose. Ma, oggi, nessuno vede come attaccare in blocco, nessuno sa quali leve azionare per trovarsi alle prese con il tutto (se mai lo si sia veramente saputo in passato…). Quel che si sa con certezza è che la libertà può meno che mai arrivare dalla presa del potere. La ricerca della libertà non implica la costruzione di cose nuove o il recupero di cose esistenti, ma innanzitutto di uscire dall’imprigionamento, dal sovraccarico, dall’asfissia indotti dall’abbondanza di oggetti, di plastiche, di cemento, di reti di comunicazione, materiali e immateriali, di schermi, di immagini, etc. Se si riuscirà a sfuggire da questo imprigionamento – da questo «eccesso di realtà» (Annie Le Brun) – allora si vedrà se si potrà costruire dell’altro. Ma per ora si tratta di sottrarsi, e questo evidentemente non si fa da un posto di potere.

Oggi non si può fermare lo sviluppo economico, né dall’alto né dal basso. Non esiste un movimento sociale che lo desideri, che si rivolti contro una sensazione di chiusura materiale ed esistenziale. Non si possono prosciugare le fonti dello sviluppo, non si vede dove colpire. Bisognerebbe colpire ovunque, e questo non è possibile. Quel che talvolta si può fare è sollevarsi contro alcune manifestazioni di questo sviluppo, laddove si ritrovano particolari condizioni.

È quello che fanno coloro che, da anni, si battono contro la TAV in Piemonte e il TGV nei Paesi baschi, coloro che disturbano i convogli di rifiuti nucleari in Germania e, in misura minore, in Francia, coloro che si oppongono, in Europa e in America latina, a grandi progetti di infrastrutture come le dighe idroelettriche, i campi di eoliche industriali, gli aeroporti.

Certo non sempre in queste lotte si sentono discorsi radicali e perfettamente coerenti. La critica di un progetto particolare non conduce per forza di cose alla critica della logica generale. L’attaccamento sentimentale a un territorio o a una cultura, così come il desiderio astratto di «proteggere la natura» danno spesso slancio e tenacia agli oppositori; allo stesso tempo restringono il campo della critica e ostacolano la presa di coscienza che è tutto un sistema a essere inaccettabile.

C’è qualcosa del mito di Sisifo in queste lotte: le vittorie, che talvolta si ottengono sono necessariamente temporanee, o perfino amare se il progetto fatto saltare in un posto è poi messo in opera qualche decina di chilometri più in là. Finché l’economia è sottomessa alla logica del capitale, finché lo Stato serve questa logica per accrescere la propria potenza, l’idra industriale rilancia i suoi tentacoli verso nuovi territori, verso altri recessi della vita sociale che ritiene ancora non sufficientemente colonizzati. Ma le vittorie, e anche certe sconfitte, sono preziose. Fanno vivere la critica e la disobbedienza in un’epoca segnata dal consenso e dalla sottomissione. Sostengono l’esistenza di uno spazio pubblico parallelo in cui possono circolare idee e pratiche impensabili nei grandi media e nel campo della politica rappresentativa. Mostrano che la politica si può giocare al di fuori delle istituzioni, e perfino contro di loro, che la parola degli esperti può venire rifiutata da persone che vogliono autogestire le proprie cose e rifiutano di vedere la propria vita amministrata da altri.

Non tutte le lotte locali o parziali arrivano a questo, ma quelle che lo fanno mantengono in vita il suolo secco e sterile della nostra società. E si può allora sperare che, così facendo, mantengano il terreno buono per futuri rivolgimenti.

In America latina la dialettica tra lotte locali contro le grandi opere e fermento rivoluzionario su larga scala è molto evidente. Negli anni Duemila, in Ecuador e Bolivia sono caduti dei presidenti, vittime delle rivolte originate dalla difesa dell’autonomia contadina contro le grandi imprese straniere. In Messico, la vitalità delle opposizioni ai progetti minerari delle multinazionali e ai parchi ecologico-turistici pianificati dalle autorità deve molto all’atmosfera generale creata dalla sollevazione armata del Chiapas (1994) e dall’insurrezione di Oaxaca (2006). D’altra parte, quest’ultima è stata largamente favorita dal contesto d’insubordinazione diffusa contro l’appropriazione capitalistica delle terre, il saccheggio dei territori, la distruzione delle condizioni di vita comunitarie.

Difficile parlare di successo quando le resistenze eroiche si pagano con il sangue e non si possono minimamente permettere di abbassare la guardia. Ma da Texcoco, sito inizialmente previsto per la costruzione di un mega aeroporto a nord della capitale, alle rive dello Yucatan, dove l’installazione massiccia di pale eoliche è ostacolata palmo a palmo, lo Stato messicano e le compagnie multinazionali subiscono regolarmente schiaffi clamorosi da quegli abitanti che non fanno che difendere il loro territorio e il loro modo di vivere.

In Europa, dove lo sradicamento è più profondo, dove i legami comunitari e le pratiche di autoproduzione sono quasi ovunque dimenticati, la conflittualità è meno forte e la dialettica tra lotte locali e dinamica politica globale quasi non esiste. Ma anche sul Vecchio continente è tra le opposizioni radicali alle grandi infrastrutture industriali che, bene o male, si conservano pratiche politiche portatrici di una sovversione generale.

La lotta contro la costruzione della TAV Torino-Lione, che va avanti da vent’anni sul versante italiano delle Alpi, ne è l’esempio più chiaro. In Val di Susa, la diffusione di informazioni sulle nocività provocate dallo scavo dei tunnel nelle montagne ha creato una maggioranza forte e compatta contro il progetto. Molti hanno fatto proprio l’appello a non sacrificare la qualità della vita agli imperativi astratti del progresso economico. Gli abitanti hanno partecipato in massa alle assemblee locali, lasciando spesso da parte le loro etichette politiche, accettando di discutere direttamente di un problema che si pone loro in quanto comunità di abitanti. Progressivamente, la parola degli esperti ha perduto il suo credito, la comunicazione dello Stato, dell’Europa e delle grandi aziende implicate nel cantiere è stata percepita da molti per quello che è: una trama di menzogne. Anche alcuni rappresentanti locali hanno preso parte alla lotta, senza immediatamente prendersene i meriti o sabotarla dall’interno. Il movimento è riuscito ammirevolmente a conciliare l’elaborazione e diffusione di un discorso pubblico credibile, anche se radicale, con le azioni di sabotaggio che in questo contesto appaiono assolutamente pragmatiche, proprio come lo scontro con la polizia e l’esercito è necessario per continuare a segnare nuovi punti da aggiungere a quelli già ottenuti nel dibattito d’idee.

Elementi di democrazia diretta, articolazione intelligente tra costruzione di un discorso pubblico e distruzione, comparsa di un certo dissenso politico attorno ai misfatti dell’alta velocità, ai legami tra mobilità e capitalismo… Come ha fatto una cosa così rara a verificarsi lì? Ci sono senza dubbio circostanze particolari che spiegano l’ampiezza di questa mobilitazione. Ma ciò che maggiormente importa, è che ci dà la prova di come un braccio di ferro di questo genere sia possibile ancora oggi. Ci troviamo talvolta scoraggiati per principio di fronte all’implacabile decisione dei poteri pubblici o dei potentati privati di sfruttare una certa porzione di territorio o di mettere in opera un certo dispositivo tecnico. Talmente scoraggiati che non mettiamo in campo con sufficiente determinazione quei mezzi di base che servono a creare un’opposizione. La Val di Susa dimostra che con rigore e continuità nella diffusione delle informazioni, con l’organizzazione di dibattiti pubblici e di azioni, si possono talvolta salvare delle montagne… almeno per un certo tempo.

D’altro canto, questo caso fa emergere i limiti delle lotte locali laddove non esiste un fronte più globale. La simpatia che suscita in tutta Italia la contestazione della TAV non sembra provocare la nascita di una corrente politica che critichi in maniera coerente l’offensiva tecnologica. La contestazione dello smartphone o di internet non sembra all’ordine del giorno tra quanti hanno imparato in queste lotte a diffidare dell’idea di Progresso. Eppure questi mezzi di comunicazione rappresentano un supporto altrettanto importante del modo di vita consumistico e della concorrenza sfrenata. Il corollario è dunque che questa lotta non basta per ridefinire il campo di scontro politico nazionale (o generale). Le proteste contro il dominio dei mercati finanziari e i piani di austerità dei governi restano scollegate dalla riflessione occasionata dal rifiuto dell’alta velocità ferroviaria. Non si osserva la caduta delle barriere tra le lotte anti sviluppiste, a carattere locale, e la lotta sociale su scala nazionale o europea, che resta ancora e sempre confinata nell’immaginario di una migliore ripartizione della ricchezza prodotta.

In Europa le lotte contro una decisione o un particolare progetto dello Stato o di aziende private sono condannate ad adottare un atteggiamento duplice. Da una parte infatti acquistano pienamente significato e perdurano solo se sono in grado di mettere in discussione le fondamenta dell’attuale società: se rifiuto l’installazione dell’eolico industriale qui, lo rifiuto anche altrove e rigetto il modo di produzione energetico centralizzato, il livello di consumo degli ultimi decenni, il sistema di falsi bisogni tipico del capitalismo avanzato. Se trovo scandalosa la creazione di un certo tracciamento informatico, posso e devo interrogarmi sulla proliferazione delle schedature digitali, la bulimia di dati e statistiche in ogni campo, l’informatizzazione della società e della vita personale. Dall’altra parte queste lotte non devono mai dimenticare che una simile critica radicale non è all’ordine del giorno e che questa società non cambierà in tempi rapidi.

C’è qualcosa di contraddittorio nella necessità di coniugare queste due esigenze: essere realisti ma senza mai perdere di vista l’utopia; denunciare la realtà come insostenibile, ma restando legati a essa. È evidente che la debolezza delle lotte parziali (in quantità e qualità) deve molto alla mancanza di prospettive rivoluzionarie. E, d’altra parte, questa assenza di prospettive è rinforzata dagli scarsi successi locali e dall’abitudine di limitare la critica a considerazioni «accettabili da tutti/e», cioè che non mettono in discussione niente di fondamentale nel funzionamento ordinario della società industriale.

I sussulti della popolazione francese contro certi progetti di schedatura e identificazione elettronica   illustrano bene le difficoltà per uscire da questo circolo vizioso.

Un pugno di allevatori si oppongono all’identificazione dei loro animali tramite microchip RFID. Sono isolati perché il consenso attorno all’esigenza della tracciabilità è molto forte nelle professioni agricole, così come l’assuefazione agli obblighi burocratici di ogni tipo. La trasformazione degli animali in appendici della macchina informatica non disturba la maggioranza degli allevatori. E in quella minoranza che trova qualcosa da ridire, si ha l’impressione che protestare contro i microchip RFID all’orecchio delle pecore implichi insorgere contro ben altro, cioè contro tutta un’organizzazione dell’agricoltura, del commercio, del consumo che è passata senza rimostranze e che è doloroso condannare oggi.

Anche l’introduzione di macchine biometriche nelle scuole ha suscitato reazioni. In alcuni posti i genitori degli alunni hanno contrastato i progetti dei presidi tecnofili con una mobilitazione elementare: petizioni, adunate fuori dalle scuole, rifiuto di far registrare le impronte dei bambini nei computer, istanze presso rappresentanti locali. Ma come lascia presagire questo repertorio di pratiche cittadiniste, le cose sono raramente andate oltre, anche laddove i presidi sono stati costretti a far marcia indietro. L’emozione suscitata dalla comparsa di queste macchine non è sfociata nella costituzione di gruppi o di reti che interroghino la penetrazione delle nuove tecnologie nelle scuole, e a maggior ragione nel resto della società. Le prese di posizione di federazioni di genitori e rappresentanti locali contro la biometria a scuola, adottate quando un istituto era interessato da questo conflitto, non hanno avuto seguito e non hanno impedito che si installassero, poco tempo dopo, macchine biometriche nelle stesse zone.

L’opposizione alla schedatura «Base Élèves» è il fenomeno fino ad ora più ampio. Il registro digitale «Base élèves» serve a raccogliere, fin dalla scuola primaria, tutto un insieme di informazioni sui bambini, quindi indirettamente sulle loro famiglie, che saranno conservati durante tutto il loro percorso scolastico: origine etnica e sociale, problemi di salute (compresi quelli dei genitori), «bisogni speciali» dell’alunno, «competenze» acquisite, assenteismo…

Dall’apparizione di questa schedatura, nel 2005, dei comitati di informazione e contestazione sono nati in molti dipartimenti. Le riunioni organizzate su questo tema nelle scuole, o attorno a esse, hanno mescolato in maniera talvolta durevole persone tradizionalmente politicizzate o attive nell’associazionismo con genitori e insegnanti poco abituati a partecipare direttamente a delle lotte. È nato un coordinamento nazionale e si sono prodotte dinamiche locali interessanti che non sono svanite quando il ministro dell’Educazione Darcos ha avuto la brillante idea, nell’estate 2008, di eliminare dalla schedatura i campi ritenuti più critici, senza rimettere in discussione l’esistenza della banca dati. Questa è stata temporaneamente ridotta a un nome e un numero, ma resta disponibile ad accogliere altre informazioni in futuro, quando la contestazione si sarà assopita. Cosa non ancora avvenuta nel 2012, con molti comitati che mantengono la loro opposizione al Libretto personale delle competenze e ad altri software di raccolta dati sugli alunni.

Nel corso degli anni i metodi utilizzati da chi contesta questo tracciamento sono stati vari e nell’insieme piuttosto gentili: sollecitazioni ai sindaci dei comuni affinché rifiutino di collaborare alla raccolta dati e di servirsene nella «lotta alla delinquenza»; sollecitazioni ai consiglieri dipartimentali e regionali per far prendere loro posizione contro la schedatura; ricorsi al CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés; equivalente del Garante per la privacy, Ndt), al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e soprattutto al Consiglio di Stato che ha dato ragione ai ricorrenti denunciando il mancato rispetto delle procedure legali da parte del ministero dell’Educazione nella messa in funzione di «Base Éleves», giudicando inoltre legittimo il diritto di rifiuto da parte dei genitori (senza, per questo, pronunciarsi contro il principio stesso della schedatura: il ministero è invitato a riesaminare la forma, ma il senso del suo progetto non è mai stato rimesso in discussione). Alcune sessioni di formazione dei presidi su come gestire lo schedario sono state disturbate con blocchi all’ingresso dei provveditorati o con interventi critici durante la formazione. Alcuni presidi hanno fatto ostruzione riempiendo la banca dati con informazioni fantasiose. Più rari sono stati quelli e quelle che di fronte alla minaccia di sanzioni e trasferimenti hanno persistito nel loro rifiuto di collaborare alla banca dati. Le sanzioni non sono mai arrivate dove è stata forte la solidarietà dei genitori, che ha fatto temere alle autorità un amplificarsi della contestazione. Altrove sono stati i tribunali a reintegrare i presidi nelle loro funzioni.

Ecco un esempio di lotta molto parziale, i cui risultati sono lontani dall’essere soddisfacenti, ma il cui terreno è di grande interesse. Gruppi relativamente eterogenei di abitanti di uno stesso quartiere o di uno stesso comune si confrontano insieme sulla logica di gestione burocratica informatizzata applicata ai loro figli. Fanno circolare informazioni sulle procedure di identificazione elettronica che vengono promosse nella società, e sulle ragioni di criticarle. Tutto indica che la critica oltrepassa raramente le classiche inquietudini sulla violazione dei dati personali, l’anonimato, etc. La critica dell’informatica come mezzo di gestione e di insegnamento resta marginale e ciò che la proliferazione delle schedature e degli schermi dice della scuola, del suo ruolo nella società, dello stato di coloro che ci lavorano viene appena evocato. Molti contestatori di «Base Élèves», compresi insegnanti e presidi disobbedienti, non vedono alcun problema nell’arrivo del digitale a scuola, con registri e lavagne elettronici, e la distribuzione sistematica di computer portatili ai bambini da parte dei consigli regionali, etc.

Eppure discussioni e assemblee su «Base Élèves» sono occasioni per allargare il tema, per evidenziare una logica d’insieme e l’incoerenza di preoccuparsi solamente del versante poliziesco della schedatura. Soprattutto, questa lotta pone costantemente il problema dell’obbedienza alla gerarchia, delle possibilità e dei rischi che esistono quando si sceglie l’illegalità e la logica di confronto con l’istituzione.

Nel contesto di oggi e di domani, la questione della disobbedienza, o della non sottomissione, ha una grande importanza. L’invasione delle nuove tecnologie ha generato un giro di vite burocratico nella società. Le intimazioni a conformarsi, ad applicare procedure assurde o contrarie a ogni etica personale si moltiplicano, al lavoro e in qualunque transazione con le amministrazioni pubbliche o private. Ovunque ci verrà chiesto di collaborare fornendo informazioni necessarie al buon funzionamento delle reti, delle organizzazioni, dei mercati. Si può dire che la massima Chi non collabora non mangia stia per rimpiazzare la vecchia massima del mondo capitalista, Chi non lavora non mangia.

Per sovvertire questa società bisogna quindi immaginare un movimento di disobbedienza generale agli obblighi burocratici e tecnologici: rifiuto di applicare le procedure lavorative destinate a migliorare i rendimenti o semplicemente a poterli misurare, rifiuto di ogni forma di tracciamento, al lavoro e fuori, rifiuto delle carte a microchip RFID (comprese le carte d’identità), degli apparecchi di controllo biometrico, degli strumenti di sorveglianza e misurazione contenuti nei software e nei computer; rifiuto di fornire i dati necessari alla costruzione e all’incrocio dei registri, etc. Il complemento indispensabile di questa serie di rifiuti a connotazione «antigerarchica» è il rifiuto delle reti social, dei motori di ricerca, delle reti di telefonia mobile… Ancora un altro paio di maniche.

È fuor di dubbio che un simile movimento sia improbabile. Ma è innegabile che sia desiderabile e che costituirebbe un mezzo interessante per creare spazi di discussione e di conflitto sul tema della libertà, una leva insomma per rimettere in discussione l’esistente. Una riduzione massiccia dell’uso delle nuove tecnologie è per il momento utopistica (così come un’abolizione generalizzata del denaro o delle diseguaglianze sociali). Ciononostante aprire brecce nel consenso che circonda queste tecnologie e diffondere pratiche di insubordinazione che le prendano di mira avrebbe già un grande valore politico.

Quando individui o piccoli gruppi vogliono impedire l’attuazione di questo o quel dispositivo dal carattere inutilmente innovatore, trovano sul proprio cammino un certo numero di trappole e del resto cadere in una di queste trappole non impedisce di raggiungere obiettivi particolari, ma in questi casi la «vittoria parziale» ha poche possibilità di sfociare in un rivolgimento sociale. La prima trappola è la Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), istituzione appositamente creata per neutralizzare le velleità di opposizione all’informatizzazione della società. Più in generale, sono trappole i ricorsi alle diverse istituzioni statali per proteggersi dall’assalto tecno-burocratico, nella misura in cui questo costituisce il cuore del progetto dello Stato contemporaneo. Questi ricorsi sottintendono la parola d’ordine della disobbedienza civile, ed è per questo che preferiamo il termine di «insubordinazione» a quello di «disobbedienza», in una certa misura discreditato dagli errori dei “fauchers volontaires” d’OGM e altri disobbedienti professionisti. Infine, c’è la trappola simmetrica al cittadinismo, ovvero l’insurrezionalismo, che esalta l’opacità e la sommossa in risposta alla razionalizzazione insopportabile della vita e alla chiusura angosciante del nostro orizzonte d’azione.

Al contrario di queste semplificazioni per partito preso, difendiamo la necessità di assumere il carattere minoritario di un’opposizione radicale al capitalismo high-tech, e di costruire pazientemente nuovi mezzi di comunicazione politica che possano un giorno rendere di nuovo popolare la causa della libertà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.