Di Mario Di Vito
Un’immagine condannata a descriverci. «Brigate Rosse» e la stella cerchiata sullo sfondo. Davanti c’è Aldo Moro che stringe in mano una copia di Repubblica. Titolo: «Moro assassinato?». Lui guarda dentro l’obiettivo e l’effetto è lo stesso di tanti ritratti: sembra che ci stia osservando, quasi che ci segua con il suo sguardo.
È la stessa impressione, sia pure con un’altra foto, che ha Cossiga in Esterno Notte di Marco Bellocchio, che torna sul tema dopo Buongiorno, notte.
Solo un’impressione, quella di Cossiga? È la stessa cosa delle macchie sulla pelle che gli stavano venendo: lui le vedeva, gli altri non ancora. Capita che ti prendano per matto o per visionario solo perché hai capito tutto prima degli altri, perché vivi le situazioni in maniera diversa, le avverti come uno spiffero che si insinua e non passa. Non passa mai.
L’omicidio Moro (qui interpretato da un impressionante Fabrizio Gifuni) è il nostro omicidio Kennedy, uno di quei momenti che dividono la storia in un «prima» e in un «dopo». Nel nostro caso siamo nel cuore della notte della Repubblica, là dove tutte le trame sono nere ma il sangue è sempre rosso. E scende come la pioggia dal cielo, a ricordarci cosa eravamo, cosa non siamo stati capaci di essere e cosa non saremo mai.
Nella sua serie di sei puntate, Bellocchio si concentra sui personaggi. Li prende, uno per uno, e li viviseziona, li copre e li scopre, ci gioca, confonde i piani, riflette, mischia fatti storici e variazioni sul tema che sanno di ucronia (qualcuno di certo li prenderà per marchiani errori temporali nella sceneggiatura) e che restituiscono allo spettatore una visione che ha la stessa lucidità del Leonardo Sciascia dell’Affaire Moro. Guardiamo la via crucis di Moro e vediamo noi stessi dietro ogni ombra, abitanti perplessi di un paese senza. Senza memoria, senza verità. Perché ci siamo affidati troppo ai tribunali (e alle evitabilissime commissioni d’inchiesta) e poco al racconto, perché siamo andati alla ricerca di una spiegazione in grado di tenere insieme tutti i fili e non ci siamo mai resi conto che era tutto sotto ai nostri occhi. Le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro perché nella loro analisi bisognava portare l’attacco al cuore dello Stato e lo Stato era la Democrazia Cristiana: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato. Gli obiettivi potevano essere tantissimi, ma alla fine la pallina della roulette si ferma su Moro. L’uomo delle convergenze parallele con il Partito Comunista, del compromesso storico, per usare un’espressione che adesso va per la maggiore. Così cominciano i 55 giorni di prigionia (o di martirio?) del presidente della Dc, condannato in partenza già nell’esatto momento in cui la sua scorta viene massacrata per strada, in via Fani.
La morte di Moro è anche la sua sopravvivenza nella versione di Bellocchio, che apre la sua storia con Cossiga, Andreotti e Zaccagnini che se lo ritrovano davanti in carne e ossa, vivo, con la barba un po’ più lunga del normale ma tutto sommato in buone condizioni. E lo sguardo dei leader democristiani è sperduto, più che impaurito. La voce di Moro, fuori campo, ci racconta della sua intenzione di mollare qualsiasi carica all’interno del partito e qualsiasi ruolo all’interno del Palazzo. E chissà cosa sarebbe successo, dopo.
È colpa quella che vediamo sui volti dei tre? O forse è la consapevolezza di trovarsi di fronte all’incerto, cosa che per un democristiano non dovrebbe accadere mai, perché tutto discende dalla volontà di Dio e tutto fa parte di un grande disegno (di cui loro, va da sé, sono i custodi in terra). E questa incertezza di fondo li travolge, come se gli apostoli avessero preso la resurrezione di Cristo come una prova della non esistenza di Dio.
Dio tace, in Esterno Notte, fa pesare il suo silenzio e i capi democristiani non riescono ad amarlo come, successivamente, avrebbe raccontato Harold Brodkey in «Questo buio feroce», la storia della sua morte. La Dc non si percepiva terminale come Brodkey e non riusciva a fare pace con l’ineluttabilità della sua fine: del resto, dopo Moro, il partito sarebbe sopravvissuto appena altri 14 anni.
Una mancanza di consapevolezza imperdonabile, resa attraverso l’ambiguità di Andreotti – volto granitico e mani però sempre in movimento – e l’iperattivismo di Cossiga, che forse si fidava troppo degli amici americani e non capisce, proprio non ce la fa, come i brigatisti, gente che al massimo aveva fatto l’istituto tecnico, lo stessero mandando ai matti. Lui, laureato giovanissimo, una carriera scintillante, cinque lingue perfettamente parlate. Eppure è andata così: fregato, reso incapace di muoversi, umiliato.
Poi c’è anche Berlinguer, gelido nella sua volontà di chiudere qualsiasi spiraglio di trattativa, perché la cosa più importante, per il Pci, è che non ci fossero nemici a sinistra: le Br come criminali e basta, niente «album di famiglia», per il segretario quelli là non avevano diritto di fregiarsi dello status di compagni. Neanche di compagni che sbagliano.
E poi c’è papa Montini, la cui voce è flebile e sembra sempre sul punto di spezzarsi. E in effetti non riesce a salvare l’amico sequestrato, nemmeno quando arriva a parlare agli «uomini delle Brigate Rosse».
È così che la storia di Aldo Moro diventa quel che è: la storia di una sconfitta collettiva. Perde la Dc, perdono i comunisti, perde il Vaticano. Perdono le Brigate Rosse: il racconto di Adriana Faranda è quello di una madre che abbandona il figlio piccolo per inseguire la rivoluzione, ovvero della collisione tra una tragedia privata e una tragedia pubblica. Perdono pure Eleonora e Agnese Moro, la moglie e la figlia, che non perdono e non possono perdonare. E infatti non assolvono nessuno. Perde Aldo Moro: le convergenze parallele moriranno con lui, il sogno di una democrazia compiuta resterà tale (e lo è ancora adesso, in fondo).
La Prima Repubblica – l’unica Repubblica che abbiamo mai avuto – è un cadavere nel bagagliaio di una Renault 4. Non la perdita dell’innocenza, ma la ripetizione eterna di un momento inafferrabile che possiamo solo raccontare, raccontare e raccontare ancora. Come Don DeLillo in Libra e Stephen King in 22/11/’63, Bellocchio sfonda tutti i muri della narrazione per presentarci una vicenda semplice eppure gravissima: la nostra. Walter Benjamin ce l’ha insegnato, è impossibile lasciare la Storia alle spalle. Come minimo ci si condanna a trascorrere una vita in fuga. Bellocchio ci costringe a fermarci e a fare in conti con il fantasma dei fatti. Non se ne esce bene, ma forse si può guadagnare la libertà. Almeno noi.
Complimenti. Analisi lucida …