Intervista di Luigi a Fabio Taffetani – da Rivista Malamente #27, dic. 2022
Qual è lo stato dei fiumi e dei bacini fluviali delle Marche? Quali interventi si sono rivelati inutili se non dannosi, compromettendo biodiversità e funzionalità dei corsi d’acqua, e quali invece andrebbero incoraggiati? Come mantenere una visione d’insieme, che superi la presunta “messa in sicurezza” di singoli tratti fluviali per prendersi cura in maniera integrata del territorio? Abbiamo discusso di questi temi con Fabio Taffetani, professore ordinario di Botanica presso l’Università Politecnica delle Marche (Ancona), esperto di questioni ambientali riguardanti in particolare il territorio marchigiano.
In estrema sintesi, quali sono le caratteristiche di un ambiente fluviale?
Nei fiumi, indipendentemente dalla loro importanza e portata, possiamo distinguere un tratto montano, che comprende la sorgente, lungo il quale le acque scorrono rapide e prevalentemente su un letto incassato su roccia spinte da una pendenza significativa, ben differenziato da un tratto intermedio, spesso il più importante ed esteso, dove le acque scorrono più lentamente assumendo un andamento meandriforme, rimaneggiando a ogni piena il proprio letto, formato dai detriti continuamente sedimentati o erosi nel corso dei secoli. Infine si arriva alla foce, al contatto con il mare, dove le acque lentamente si immettono e si mescolano con quelle del mare, dando spesso origine ad aree umide. Ambienti umidi che sono assai rari nel caso della costa marchigiana, e quindi estremamente importanti per gli spostamenti degli uccelli migratori. I fiumi marchigiani, così come la gran parte dei fiumi dalla Romagna fino al Molise, procedono paralleli tra l’Appennino e la costa adriatica, con l’eccezione del Nera che si versa sul Tirreno. Come tutti i fiumi, anche quelli marchigiani presentano un’elevata biodiversità e costituiscono attualmente una delle poche vie di collegamento della REM (Rete ecologica marchigiana), un corridoio ecologico divenuto pressoché unico e indispensabile per la vita di tutte le specie, sia vegetali che animali in un paesaggio collinare ormai completamente desertificato dall’agricoltura industriale e dalle diverse forme di urbanizzazione.
Andando subito ad analizzare i fattori che hanno reso la recente alluvione così devastante, al di là del fiume come corso d’acqua strettamente inteso c’è da considerare tutto il bacino circostante, cioè quel territorio dove si raccolgono e scorrono le acque piovane. Le colline marchigiane sono in gran parte terreni coltivati: quanto incide l’attuale modello di agricoltura industriale sulla gestione del suolo, sulla sua stabilità e sulla capacità di assorbire le precipitazioni?
Il nostro paesaggio è fortemente determinato dall’attività agricola che però, dagli anni Cinquanta a oggi, ha completamente eliminato tutte le forme di agricoltura tradizionale. Questa non aveva intenti di conservazione ambientale, ma i suoi chiari obiettivi di gestione del terreno dal punto di vista della fertilità facevano sì che nessuna azienda agricola si potesse permettere che le piogge portassero via il suolo, o che non funzionasse il sistema di raccolta delle acque. I fossi e i fiumi venivano regolarmente ripuliti, con un doppio vantaggio: i contadini ne traevano beneficio dal punto di vista del legnatico, facendo cioè scorte di legna, e allo stesso tempo assicuravano la manutenzione, garantendo il deflusso non erosivo e non drammatico dell’acqua dai campi, che venivano così mantenuti alla più alta concentrazione di sostanza organica.
Poi c’erano altri due fattori fondamentali: la rotazione delle colture e la concimazione organica. Il grano, ovvero la fonte alimentare più importante, veniva piantato sullo stesso appezzamento ogni tre anni, alternandolo con altre colture per dare modo al terreno di recuperare fertilità. E ogni azienda, per quanto piccola, aveva molti animali che fornivano letame. C’è un detto marchigiano: «chi ha letame non avrà mai fame», perché la concimazione organica era l’unico modo, insieme alle rotazioni, per garantire che il terreno fosse sempre produttivo.
Oggi abbiamo trovato il modo di sostituire quella sostanza organica con la concimazione chimica e non ci preoccupiamo più della fertilità del suolo, tantomeno della stabilità del terreno. Sui versanti perdiamo centimetri di suolo a ogni pioggia, basta andare in giro e guardarsi attorno; è vero che queste ultime piogge sono state particolarmente abbondanti, ma così succede ogni autunno. Dal punto di vista delle risorse idriche significa che quando piove l’acqua scorre in superficie fin dai primi millimetri e crea problemi di stabilità, con ruscellamento, torbidità, acque che erodono i versanti e rapidamente raggiungono i fiumi creando situazioni di alluvionamento (Fig. 1).
La situazione, quindi, non va vista solo guardando i fiumi ma bisogna allargare lo sguardo al territorio nel suo complesso: gran parte del nostro territorio è formato da campi coltivati e purtroppo, oggi, buona parte del bacino che sottende e raccoglie l’acqua nell’asta dei fiumi non ha più una gestione. Non andrebbe mai fatto un intervento su una porzione di fiume senza conoscere la situazione dell’intera asta fluviale e senza sapere che cosa può accadere a valle a seguito delle opere realizzate a monte e senza neanche tenere conto delle relazioni con lo stato del bacino circostante;
Altra assurdità riguarda quando i calcoli che vengono fatti sulle capacità dei ponti o delle sezioni dei tratti di fiume prendendo in considerazione le portate storiche di duecento o di cinquecento anni, credendo in questo modo di poter prevedere quelle future: non è così. Perché basta che andiamo indietro di settanta anni, agli anni Cinquanta, e troviamo una situazione completamente diversa, con la quale non si possono fare confronti. In questi decenni è stato stravolto tutto il contesto rurale, non c’è più quell’attenzione minuziosa degli agricoltori a preparare il terreno e la funzionalità del sistema di raccolta delle acque per fare in modo che l’acqua non faccia danni, cosa che era nell’interesse dell’agricoltore stesso. Adesso non è più così e ci troviamo con un territorio rurale che occupa gran parte della superficie regionale, nel quale tutto il sistema di deflusso delle acque non viene più gestito (Fig. 2).
Questa mancanza di gestione dei campi non ha effetti negativi solo sulla stabilità idrogeologica, sulla rapidità di deflusso delle acque, sulle condizioni di stress per il fiume, ma crea un problema capillare di mancanza di acqua accumulabile nelle falde e disponibile nei periodi di siccità. In altre parole, osserviamo che l’agricoltura industriale crea problemi anche dal punto di vista della risorsa idrica in quanto tale, perché l’acqua corre in superficie e non alimenta le falde.
Un ulteriore elemento connesso all’erosione dei terreni riguarda l’anidride carbonica. Sappiamo che dovremmo diminuire la produzione di CO2, ma se lasciamo che i campi perdano sostanza organica non facciamo che rimettere in circolo della CO2, appunto non più trattenuta dal terreno. Si tratta di un contributo importante che non è affatto marginale nel bilancio climatico tanto che, a questo riguardo, il contributo totale dell’agricoltura a livello mondiale viene valutato di poco superiore al 30%.
Tutto questo – equilibrio idrogeologico, disponibilità d’acqua ed equilibrio della CO2 – ci fa capire quanto sarebbe importante cambiare modello di agricoltura.
Nella normativa di settore esiste una specie di formula magica – “Risanamento e messa in sicurezza dei fiumi” – in base alla quale sono state spese grandissime quantità di denaro pubblico, a livello regionale e provinciale. Ci puoi spiegare che cosa si intende e cosa viene effettivamente fatto?
Purtroppo “mettere in sicurezza” viene sempre più interpretato come una modalità di artificializzazione delle sponde fluviali. Certo, quando un fiume esonda e rompe una sponda è giusto ricostruirla, nessuno direbbe di no, però lo si dovrebbe fare solo sui tratti strettamente interessati. Questi interventi potrebbero benissimo essere fatti con soluzioni di ingegneria naturalistica, quindi senza interventi che vanno a rendere rigide e artificiali le sponde del fiume e invece si va a ripulire e a sconvolgere completamente il suo greto, a rettificare il suo percorso come se il fiume fosse un semplice canale in cui scorre una certa quantità d’acqua da far defluire il più rapidamente possibile (Figg. 3, 4). Ma il fiume non è un canale! Il fiume è un sistema complesso, con un suo equilibrio e una sua dinamica. Maggiori sono le condizioni di naturalità che riusciamo a mantenere, maggiori saranno i benefici che ne ricaviamo e minori i danni ambientali che dovremo fronteggiare. La capacità degli ambienti fluviali di mantenere la loro vita e i loro servizi è proporzionale alla nostra conoscenza e rispetto di tutte le numerose e assai diverse forme di vita, sia vegetale che animale, che il fiume ospita nei diversi tratti.
Il fiume è un agente di trasformazione geomorfologica della superficie terrestre. È un sistema complesso che reagisce dinamicamente a una serie di fattori (geologici, climatici, biologici ecc.) governato dalla quantità di energia contenuta nelle sue acque correnti. Se i fattori non mutassero nel tempo, il gioco tra sedimentazione ed erosione condurrebbe a una sorta di bilanciamento graficamente evidenziato dalla curva di equilibrio del corso d’acqua, estesa tra la sorgente e la foce. Ogni perturbazione di uno qualsiasi dei fattori che agiscono sulla dinamica fluviale, produrrà mutamenti e aggiustamenti in tutta l’asta fluviale. Se le variazioni dell’equilibrio del fiume comportano la distruzione delle opere dell’uomo, la colpa va individuata nell’insipienza umana, nella sua scarsa conoscenza della natura e nella sua superbia tecnica che gli fa immaginare di poter sottrarre al fiume i suoi domini, imbrigliandolo con i suoi manufatti.
Un esempio tra i tanti possibili. Se asportassimo i sedimenti mobili dell’alveo, il fiume vedrebbe aumentare la sua energia netta e quindi il suo potere erosivo. Questo lo condurrebbe ad accentuare l’erosione laterale, a discapito dei terrazzi alluvionali (con danneggiamento delle sponde e della vegetazione forestale) e inoltre l’erosione di fondo porterebbe a scalzare le fondamenta dei ponti facendoli traballare. Se per impedire l’erosione laterale costruissimo degli argini artificiali, ad esempio con barriere lineari e muri, il fiume aumenterebbe l’erosione di fondo. Se volessimo bloccare quest’ultima con delle briglie trasversali al corso d’acqua, queste intrappolerebbero i sedimenti, che non raggiungendo il mare alla foce farebbero aumentare l’erosione costiera. E via di seguito. Tutto ciò comporterebbe il paradosso che più soldi si spendono per imbrigliare il fiume e più se ne dovranno spendere in futuro per compensare i danni da noi indotti.
Tutto ciò rende indispensabile cambiare lo sguardo con cui affrontiamo i potenziali dissesti indotti da processi naturali, spostando l’azione dal processo in sé al riequilibrio integrato del territorio, sia nella dimensione naturale che in quella antropica, tra loro fortemente integrate. Ciò comporta che spesso sarebbe più utile e anche economicamente conveniente smantellare le opere a rischio, piuttosto che cercare di ingabbiare il processo naturale.
Occorre fare in modo che i fiumi abbiano un decorso il più possibile naturale che permetta alle piene – sulla cui consistenza abbiamo l’unica certezza che saranno sempre più imprevedibili – di fuoriuscire dalle sponde all’altezza delle aree esondabili (dove non deve essere permessa alcuna urbanizzazione, eventualmente dislocando quelle nel frattempo autorizzate), scaricando la forza distruttiva delle acque senza danneggiare abitazioni e attività produttive (Figg. 20).
Guardando lo specifico del fiume Misa, dall’esondazione del 2014 all’alluvione del 2022, quali interventi sono stati fatti? Hai scritto che la gestione del Misa è stata “un esempio illuminante di mancanza di razionalità”; confermi questo giudizio?
Il Misa è proprio un esempio tipico di gestione inadeguata. Dopo il 2014 sono usciti articoli sui giornali che hanno fatto arrabbiare tutti i naturalisti, perché dire – come ha fatto l’allora sindaco di Senigallia – che bisognava abbattere gli alberi perché è più importante proteggere le persone che gli alberi, vuol dire non aver capito la situazione ed essere stato molto mal consigliato. Il problema è che queste non sono rimaste dichiarazioni ai giornali, ma è quello che è stato effettivamente fatto. Sono stati abbattuti chilometri di boschi sulle due sponde del Misa (Fig, 5), appunto perché lo si voleva “mettere in sicurezza”. Secondo qualcuno male informato proprio gli alberi erano stati la causa dell’alluvione del 2014; in realtà lo sono solo perché i ponti ad arcate sul fiume possono raccogliere tronchi e ramaglie e fare da tappo, ma si tratta di un tappo temporaneo. È vero che diventano un elemento vistoso di limitazione del deflusso, ma la piena scavalcherebbe il ponte sul fiume anche senza i tronchi che si accumulano alla sua base.
C’è poi il problema dei ponti che sono crollati o che hanno perso stabilità (Figg. 6-7). Il fatto è che non sono instabili o crollati per la spinta della piena o per l’accumulo di tronchi. La causa va ricercata nel fatto che dai primi anni Duemila a oggi sono stati fatti e più volte ripetuti interventi di ripulitura meccanica del greto, andando a muovere le ghiaie. Ora, le ghiaie dovrebbero essere, normalmente, cementate, nel senso che ci si cammina sopra senza che si muovano per niente e invece su tutti i nostri fiumi ormai è comune camminare su ghiaie in cui si affonda. Questo influisce sulla stabilità dei ponti, che sul greto poggiano la base dei loro pilastri. Il motivo della loro instabilità va appunto ricercato sui pilastri che non hanno più la loro base di appoggio a causa dell’abbassamento dell’alveo.
Questi interventi di alterazione sistematica dei fiumi vengono perseguiti nella errata convinzione che il fiume esonderà più difficilmente. Ma il risultato è che notevoli quantità di ghiaie sono liberate dal greto e fluivate dalla prima piena, a pochi km o fino al mare, senza poter contare su un analogo apporto da monte, determinando un diffuso abbassamento dell’alveo di magra. Gli effetti negativi di tutto questo impattano sulla vita complessiva del fiume. Primo tra tutti sulla presenza di microinvertebrati, cioè tutti gli stadi larvali di numerosi gruppi di insetti che vivono sul greto depurando e degradando le sostanze organiche trasportate dal fiume, la cui ricchezza di varietà permette di valutare lo stato di qualità biologica delle acque. Bene, oggi non sono più utilizzabili per questo scopo e non abbiamo perso solo un gratuito sistema di bioindicatori, ma anche il loro principale servizio ecosistemico, quello della depurazione del contenuto organico.
E c’è, inoltre, un ulteriore effetto negativo: quello dovuto alla modifica del rapporto con le falde, idriche che il fiume non alimenta più come dovrebbe. Quindi le falde non sono più alimentate né dall’agricoltura nelle aree collinari, come abbiamo visto, né dal fiume.
Noi dobbiamo accettare che un fiume può comunque esondare, allargandosi ai campi intorno. L’importante è che nelle aree esondabili al di fuori delle sponde non ci siano costruzioni. E invece quando si fanno le sponde artificiali, i sindaci e i cittadini le prendono come un viatico per autorizzare l’edificazione delle aree attigue, considerandole al riparo da un’eventuale esondazione. È evidentemente una logica perversa, che determina una progressiva diminuzione delle possibilità di permettere al fiume di assorbire in modo naturale ed elastico la spinta delle piene più gravi e distruttive.
Dopo il 2014 erano in progetto, ma non sono state mai realizzate, delle cosiddette “aree di laminazione” o “vasche di allagamento”, cioè delle aree predisposte in modo artificiale dove il Misa avrebbe dovuto esondare. A parte che non sono mai state completate, ma sarebbero anche risultate insufficienti a evitare i danni, sia per le loro dimensioni che per le modalità di utilizzo. Si tratta infatti di costruzioni artificiose, la cui entrata in funzione dipende dall’intervento umano.
La soluzione più adeguata va invece in un’altra direzione. La sicurezza verrebbe garantita, o almeno perseguita, lasciando delle aree di esondazione naturale, non artificiale, disposte lungo tutto il tratto medio terminale del fiume. Occorre naturalmente accordarsi con i coltivatori che gestiscono i terreni individuati, risarcendo loro i mancati introiti derivanti dal fatto che non potranno lavorarli. In realtà i campi non diventano del tutto improduttivi, ma vanno mantenuti a praterie stabili, prati polifitici, erbai e medicai che producono fieno; devono cioè rimanere coperti da vegetazione permanente, così quando arriva l’ondata di piena, questa esonda, allaga quei campi assorbendo la spinta e, dopo qualche giorno, torna in alveo. Le coltivazioni non subiscono danni, anzi l’ondata lascia perfino dei benefici al terreno. Per garantire effetti erosivi occorre anche rafforzare e ricostruire una fascia forestale continua che protegga le sponde esposte all’esondazione. Il punto è che queste aree non devono essere esposte all’urbanizzazione, cosa che stiamo erroneamente e stupidamente continuando a fare.
Proprio relativamente al fiume Misa ho assegnato e seguito diverse tesi di laurea. Ad esempio, l’ultima parte del Nevola, prima di immergersi nel Misa, corre a fianco di una strada provinciale e, nel 2014, la stava erodendo, cioè il fiume stava scavando sotto la base stradale. Durante il periodo di interventi messi in atto a seguito della drammatica esondazione del 2014, concretizzatisi in un violento attacco agli alberi visti come un oggetto di pericolo per la salute pubblica, a monte di questo punto è stato abbattuto un bosco di pioppi e salici di 30-40 anni, che sono stati trasformati in cilindri e posizionati alla base della parete di erosione. Ebbene, due mesi dopo, alla prima piena, i legni erano stati spazzati via e l’erosione era arrivata a un punto tale da rendere necessario chiudere la strada. Ma, cosa assai più grave e ingiustificata, è che chilometri di sponde del Misa, tra la confluenza con il Nevola e Senigallia, sono state completamente deforestate. L’appiglio giuridico per questo ingiustificato delitto ambientale è legato nientemeno che a un Regio decreto del 1904, che prevedeva la ripulitura delle piante sugli argini artificiali. Solo che sul Misa per diversi decenni sono state lasciate sviluppare delle vere e proprie fasce forestali e solo dopo l’alluvione del 2014 se ne sono tardivamente ricordati e hanno cinicamente riesumato una norma che non aveva più motivo di essere applicata. Pesante e colpevole responsabilità che, come si è visto, non ha portato nessun beneficio. (Fig. 8)
Cosa possiamo – anzi cosa dobbiamo – fare d’ora in avanti per prenderci cura dei nostri fiumi e evitare nuovi disastri?
Maggiore naturalità lasceremo ai fiumi, meno responsabilità ci caricheremo e più vantaggi potremo ottenere. Possiamo fare riferimento a una direttiva europea che prevede proprio questo, la Direttiva Acque 2000/60/CE, che l’Italia ha sottoscritto e la quale prevede di mettere in atto una serie di misure e indicatori per raggiungere lo stato di buona qualità dei fiumi entro il 2027. Peccato che non tutte le Regioni si siano attrezzate, anzi alcune, come le Marche, stanno perdendo livelli di conoscenza e strumenti di misurazione della qualità delle acque utilizzati per anni (come quello dei macroinvertebrati) e continuano invece ad applicare una legge “scandalosa” (Regione Marche – L.R. 12 novembre 2012, n. 31), che autorizza il prelievo del materiale litoide e della massa legnosa per il recupero economico delle spese di manutenzione.
Se consideriamo il cambiamento di gestione del territorio e dell’agricoltura di cui abbiamo parlato e consideriamo che stiamo assistendo a eventi meteorici che non hanno pari nel passato, almeno per la rapidità con cui si susseguono, capiamo che dovremmo innalzare argini talmente alti che non avrebbe senso e non ci sarebbe neanche la possibilità di farlo. Basterebbe lasciare i fiumi alla loro maggiore naturalità possibile, compresa la vegetazione forestale; ovviamente in tutti i tratti dove non ci sono urbanizzazioni ormai insormontabili, come nei centri cittadini.
Che poi non accada niente di irreparabile è difficile prevederlo, anche perché non credo che l’agricoltura riuscirà nel breve periodo a invertire la tendenza. Eppure trarremmo grandissimi benefici da un cambio di gestione del modello agronomico da industriale a biologico (senza fare i nomi di tante altre modalità con cui si può fare agricoltura attenta alla qualità del suolo).
Più in generale, dovremmo cambiare lo sguardo con cui affrontiamo i potenziali dissesti indotti da processi naturali, spostando l’attenzione dal processo in sé al riequilibrio integrato del territorio. Purtroppo la situazione è difficile da risolvere in temi brevi, e non la risolveranno le formule di moda come “mettere in sicurezza”. Il problema è anche culturale, ci vorrebbero gruppi di lavoro adeguati, persone qualificate, giovani biologi, geologi, così come ci vorrebbero persone preparate anche in altri settori, dall’agricoltura, alla gestione del verde urbano ecc.
Per punti, provo a sintetizzare i cambiamenti necessari nelle modalità di manutenzione:
- La progettazione degli interventi di manutenzione e di gestione deve riguardare l’intero bacino idrografico, oltre che l’intera asta fluviale.
- È indispensabile individuare un sufficiente numero di aree esondabili (prive di urbanizzazione o con pochi edifici delocalizzabili), cioè i tratti di fiume dove il corso d’acqua in caso di piena può facilmente esondare in modo naturale, distribuiti lungo tutto il suo percorso.
- Nelle zone esondabili esposte al pericolo di allagamento, bisogna vietare ogni nuova attività edificatoria e prevedere la delocalizzazione degli edifici già presenti (occorre per questo una normativa che disincentivi gli investimenti edilizi e responsabilizzi i sindaci che concedono l’autorizzazione a costruire nelle aree individuate dal PAI come zone a rischio idrogeologico).
- Negli ambiti di espansione naturale, che consentono una dilatazione momentanea del fiume, dobbiamo proteggere i terreni con adeguate fasce di foresta fluviale, attraverso interventi di rimboschimento naturale, laddove questa fascia è assente o troppo esigua.
- Nelle aree esondabili dove si pratica oggi agricoltura intensiva, si deve prevedere un obbligo di coltivazione di prati stabili (medicai e prati polifitici) o pioppicoltura per produzione di biomassa, accompagnati da una adeguata compensazione dei mancati introiti alle aziende agricole coinvolte.
- Gli interventi di ricostruzione di tratti di sponda in erosione vanno limitati esclusivamente al punto interessato con interventi di ingegneria naturalistica.
- Si deve evitare accuratamente l’alterazione della morfologia e della vegetazione della sponda, soprattutto laddove interessata da vegetazione arborea e forestale, come pure il rimaneggiamento della morfologia del greto.
Insieme agli interventi di manutenzione sull’asta principale è necessario un profondo cambiamento delle modalità di gestione agronomica dei terreni agricoli:
- Sono indispensabili capillari interventi a carico delle aziende agricole e del Consorzio di bonifica dedicati alla ricostruzione del reticolo idrografico minore che interessa l’intero bacino idrografico, soprattutto nei riguardi dei tratti di primo ordine.
- Altro intervento indispensabile è quello di assicurare la realizzazione di fasce tampone con inerbimenti che difendano e rallentino il deflusso delle acque meteoriche verso i collettori e verso l’intero reticolo idrografico minore (attuando le misure previste da tempo dalla PAC 2014-2020, le cosiddette EFA-Fasce di funzionalità ecologica).
In conclusione: prenderci cura dei nostri fiumi significa ridurre il lavoro delle ruspe e i rischi da esondazioni e frane. Ma anche favorire lo sviluppo di un gran numero di nuove occupazioni, come quelle per la manutenzione dei corsi d’acqua, per un’agricoltura di qualità, per un ambiente ricco di biodiversità, per un turismo che non si fermi alle apparenze, per un paesaggio gradevole, per un cibo sano, per una vita salutare, per una comunità solidale verso i più deboli. Una società rispettosa di piante, animali e habitat (da cui dipende la vita sulla terra) e attenta a quelli che oggi non possono far valere i propri diritti, ma che si aspettano che lasciamo anche a loro la disponibilità di quelle risorse ambientali che noi stiamo allegramente sperperando.
I fiumi delle Marche rappresentano oggi i pochi centri di conservazione della biodiversità e di funzionamento della Rete ecologica regionale, pressoché scomparsa dall’intera fascia collinare, di fondovalle e costiera. È nostro dovere salvaguardare la loro ricchezza, anche per i notevoli benefici che può riservare alla nostra qualità di vita e a quella delle prossime generazioni.
Taffetani e da tanto che si adopera per far passare questi contenuti. Purtroppo le conoscenze, capacità e interesse degli amministratori del territorio vanno in altra direzione: l’uso privato e speculativo sono i principi ispiratori. Come si è visto giocano ad una “roulette russa” sulla testa e sui beni dei cittadini. Ma tant’è….