Redazione, Rivista Malamente n. 28 (marzo 2023)
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Rivista Malamente 28 – Edizioni Malamente
Giudici della giustizia italiana levatevi la maschera e ridateci la forca!
Almeno la morte libera: si sale sul palco, si getta un grido alla folla e tutto finisce…
Meglio la morte, meglio la forca, la ghigliottina, la fucilazione!
Ridateci la forca! Almeno quella uccideva; era come l’attimo fuggente!
L’ergastolo è la tortura senza fine, è la disperazione eterna.
Carlo Molaschi, “Pagine libertarie”, 15 nov. 1921

«Ridateci la forca!», urlava cent’anni fa l’anarchico Carlo Molaschi ai giudici italiani che avevano appena rimesso in libertà un attentatore al re – Antonio D’Alba – dopo che nove anni di isolamento nel carcere di Santo Stefano gli avevano fatto perdere la ragione.
Mentre scriviamo queste righe non sappiamo come andrà a finire lo sciopero della fame di Alfredo Cospito, che ad oggi ha superato i cento giorni facendogli perdere più di quaranta chili di peso. Cospito è accusato di una “strage” che non ha provocato neanche un ferito – un ordigno fuori da una caserma dei carabinieri – qualificata come “strage contro la sicurezza dello Stato” (neanche piazza Fontana, la stazione di Bologna e Capaci sono state definite in questi termini). Per questo pende su di lui l’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di accedere ad alcun beneficio, rinchiuso in regime di 41-bis.
Non è un “errore giudiziario”: Cospito è un anarchico, un fiero nemico dello Stato, uno a cui prudono le mani e che ha già rivendicato un fatto come aver sparato alle gambe – all’indomani del disastro di Fukushima – a un manager di Ansaldo nucleare. Gesto per il quale ha già quasi finito di scontare dieci anni di carcere. Il suo sciopero della fame non è una scelta disperata, ma è parte di un percorso consapevole e di grande dignità. Su di lui si sta consumando la vendetta del potere, a futuro monito per chiunque osi ancora pensare e praticare, nelle molte e diverse forme possibili, l’idea di rivoluzione sociale.
Il regime carcerario 41-bis vuol dire sbattere una persona in cella e “buttare via la chiave”, come qualche forcaiolo ogni tanto invoca contro il mostro di turno. Vuol dire rimanere chiuso ventidue ore al giorno in una cella singola la cui finestra dà sui muri della prigione, dividere due ore con al massimo altre quattro persone scelte dalla direzione, avere diritto a un solo colloquio al mese senza contatti fisici e con vetro divisorio a tutta altezza, niente giornali, controllo e censura della corrispondenza in entrata e in uscita, limitatissimi i pacchi dall’esterno così come i libri che si possono tenere in cella (massimo cinque). È un lento annientamento fisico e psicologico, al quale sono condannati in Italia circa 700 detenuti. Come molti strumenti eccezionali, nati per far fronte a una “emergenza”, anche il 41-bis è stato poi reso ordinaria amministrazione, normalizzato e accettato nel silenzio generale.
Oggi non si usano più le tenaglie arroventate, ma lo Stato tortura lentamente con un metodo vessatorio che ha poco a che vedere con la presunta finalità di interrompere le comunicazioni tra “dentro” e “fuori”. Il lungo sciopero della fame di Cospito ha sollevato il velo su questa vera e propria tortura democratica che si consuma giorno dopo giorno nelle nostre carceri. Il movimento di solidarietà che si sta facendo sentire nelle piazze non chiede pietà per Cospito (né lui la vorrebbe) e neanche che lo Stato di diritto mostri la sua solidità permettendosi di umanizzare i regimi speciali di detenzione (questo lasciamolo dire ai “sinceri democratici”); chiede invece che la tortura cessi in maniera definitiva per tutti e tutte e che, in prospettiva, si incominci a discutere della necessità di liberarsi dal carcere in ogni sua forma, per una società che non ne abbia più bisogno.
In questo numero della rivista parliamo anche di altri argomenti che ci stanno a cuore (modelli di vita alternativi al sistema, nuove generazioni in lotta, recupero abitativo delle aree interne, utopia, storie sovversive, critica al mondo neotecnologico ecc.). Lo facciamo come sempre con articoli, interviste, traduzioni.
Non parliamo invece (ancora) di un’altra questione emersa in questi mesi e che ci riserviamo di approfondire: la costruzione a Pesaro di un laboratorio biotecnologico a livello 3 di bio-sicurezza, gestito dall’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche. Si tratta di un laboratorio con annesso stabulario in cui verranno condotte su animali – come si legge nero su bianco nei documenti approvati dal Comune – «sperimentazioni e manipolazioni, in vivo e in vitro, di agenti virali pericolosi per la salute animale e dell’uomo». Sebbene siano previste elevate misure «di bio-contenimento e bio-sicurezza nei confronti di agenti infettivi», si sa che la prudenza non è mai troppa e che il rischio di incidente irreversibile (che sia per “errore umano” o per altre cause) è dietro l’angolo. La ricerca biotecnologica sta trasformando il mondo intero in un laboratorio e tutti noi in cavie, a vantaggio del profitto e del controllo sul vivente da parte di pochi, ci vorrebbe far vivere in un’epoca di emergenza permanente abituandoci a un mondo in cui non esiste confine tra applicazioni civili e militari degli agenti patogeni, tra il loro studio per difendersi da minacce esterne e la loro produzione come minaccia in quanto tale.
Ancora una volta, saremo tra quelli e quelle che resistono.

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