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Noi, Homo sapiens: la nostra ascesa, la nostra fine

Di Luigi

Nel giro di pochi anni, quasi da un giorno all’altro, ci siamo accorti che qualcosa di definitivo è successo, o sta per succedere: come chi, navigando per un fiume tranquillo, si avvedesse d’un tratto che le rive stanno fuggendo all’indietro, l’acqua si è fatta piena di vortici, e si sente ormai vicino il tuono della cascata. [Primo Levi, Vizio di forma, (quarta di copertina della prima edizione Einaudi 1971)]

Preludio

Se osserviamo il percorso evolutivo dell’umanità a cui apparteniamo e proviamo a gettare lo sguardo verso l’immediato futuro appaiono due possibili scenari, non in conflitto l’uno con l’altro: il superamento o l’estinzione. In ogni caso, pare che la storia umana stia scivolando sempre più velocemente sul piano inclinato che la porterà al capolinea.

La distruzione già avanzata degli ecosistemi potrebbe condurre alla fine definitiva del genere Homo, rendendogli il mondo invivibile, oppure, nel tempo sospeso prima che cali il sipario, si potrebbe determinare il superamento dell’attuale e unica specie esistente, Homo sapiens, che lascerebbe il posto (dopo un eventuale periodo di convivenza) a qualcosa di altro e inedito.

Una umanità potenziata dalle biotecnologie e dalle interfacce uomo-macchina – una transumanità – può diventare nel giro di poco tempo radicalmente diversa dall’umanità al naturale: le due potranno convivere per qualche tempo, con gli umani-ancora-umani relegati in aree del mondo marginali o in periferie urbane degradate, probabilmente non più buoni neanche come schiavi visto che i lavori a cui potrebbero accedere saranno svolti da macchine più forti, veloci e precise. La lotta di classe lascerà il posto alla lotta di specie. Ma è facile prevedere come andrà a finire: siamo esperti nel fare estinguere altre specie, e i transumani non saranno da meno.

Un’ulteriore possibilità, insondabile ma che non sfugge agli scenari di superamento ed estinzione, è che si raggiunga una cosiddetta “singolarità”, ovvero un punto dello sviluppo (tecnologico) da cui non si potrà più tornare indietro e oltre il quale si superano le nostre attuali capacità di comprensione degli eventi. Tipicamente si avrà una singolarità – sul quando viene fatta ogni sorta di ipotesi – nel momento in cui una intelligenza generale artificiale supererà le capacità intellettive umane, aprendo scenari imprevedibili.

In ogni caso, al di là di queste prospettive che non sono fantascienza ma a cui la nostra mente non riesce ancora a dare credito, resta il fatto che siamo una specie – anzi, siamo l’unica specie, da quando la vita ha fatto la sua comparsa sulla Terra – ecologicamente pericolosa e distruttiva. Non abbiamo alcuna visione a lungo termine ed è ormai impossibile invertire la rotta: le prossime generazioni, finché ce ne saranno, ne pagheranno il conto.

L’inizio della fine

Come siamo arrivati a questo punto? Ovvero al punto che il nostro modo di vivere e la tecnologia che noi stessi abbiamo prodotto causeranno la probabile estinzione della nostra specie? Ci sono stati momenti della storia in cui tutto era ancora possibile o questo declino era inevitabile? E quando è iniziato? Quali tappe lo hanno, eventualmente, accelerato?

Oggi, ovunque noi siamo, basta guardarsi intorno per vedere come lo spazio vitale e l’intero pianeta siano profondamenti segnati dalle attività umane e dallo sfruttamento sconsiderato delle risorse ambientali. La nostra specie – Homo sapiens – ha evidentemente qualcosa di unico rispetto al resto del regno animale e il suo impatto sul mondo è stato ed è talmente significativo che gli scienziati hanno identificato una nuova epoca geologica – l’Antropocene – caratterizzata appunto dalla modificazione apportata dal genere umano sugli ecosistemi del pianeta. Modificazione irrimediabilmente negativa per tutto ciò che riguarda la vita sul pianeta.

Di solito un’epoca geologica dura da migliaia a milioni di anni (l’ultima, l’Olocene, era iniziata 12.000 anni fa; quella subito prima, il Pleistocene, è vecchia di 2,5 milioni di anni). I geologi non hanno ancora trovato un accordo sulla data di inizio dell’Antropocene, ma il punto è che l’uomo, in un tempo infinitamente breve, ha stravolto in maniera così diffusa e rapida l’intera biosfera da essere paragonabile alle forze geologiche che solitamente agiscono lungo milioni di anni.

Come data in cui collocare l’origine dell’Antropocene, quindi l’inizio del percorso verso il baratro, chi posiziona l’asticella molto vicina a noi propone di considerare la grande accelerazione tecnologica e industriale seguita alla Seconda guerra mondiale, segnata in particolare dall’energia nucleare che ci ha reso «onnipotenti in modo negativo», come ha scritto il filosofo Günther Anders: «indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca è l’ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, non può aver fine che con la sua stessa fine».

Risalendo all’indietro la linea del tempo, l’ipotesi più accreditata colloca l’inizio dell’Antropocene alla fine del XVIII secolo, con la prima Rivoluzione industriale, quando la macchina a vapore ha iniziato a trasformare il calore in movimento determinando un’esplosione dell’energia disponibile, che i sapiens da lì in poi hanno poco saggiamente utilizzato per produrre a ritmi esponenziali. Inquinamento, deforestazione, estrattivismo, perdita di biodiversità, scorie nucleari, microplastiche, autostrade, metropoli… tutto in duecento anni, a stare larghi. Una decina di generazioni di umani ha lasciato un’impronta negativa sul mondo incommensurabilmente superiore a quella lasciata dalle oltre centomila generazioni che l’hanno preceduta.

Ma la Rivoluzione industriale non è venuta dal nulla. Quali cause precedenti hanno portato a quell’innesco e, quindi, dove far risalire l’inizio della fine? Andando a ritroso incontriamo delle tappe fondamentali nel XVI secolo: la Rivoluzione scientifica che introduce l’idea di progresso e il dominio umano sulla natura e, nello stesso arco di tempo, l’avvio dell’accumulazione capitalistica con la colonizzazione e la mondializzazione degli scambi (per cui si parla anche, più politicamente che geologicamente, di Capitalocene). Ma anche tutto questo è figlio e prodotto dell’evoluzione umana precedente. Vi è quindi chi, risalendo ancora indietro, individua la causa prima di tutti i nostri mali nell’estensione globale della Rivoluzione agricola, tra 12 e 6.000 anni fa.

In quella manciata di millenni, in aree diverse del pianeta (non solo nella cosiddetta Mezzaluna fertile), terminata l’ultima glaciazione è iniziato l’addomesticamento di piante e animali, con tutte le conseguenze del caso: le società hanno iniziato a crescere, sempre più grandi, complesse e socialmente stratificate. Nascono quindi insediamenti stabili, aumenta la popolazione a ritmi mai visti prima, si fanno strada il calcolo matematico per gestire magazzini e commerci e le prime forme di scrittura (dai Sumeri in avanti), diventano necessari soldati per proteggere i raccolti e sacerdoti per ingraziarsi gli dei. La terra diventa un bene da possedere. Si smette di vivere e di procacciarsi cibo alla giornata, si programmano le semine e si accumulano i raccolti; si forma così un’entità fino ad allora sconosciuta, il surplus: da lì al distruttivo consumismo odierno sarà un attimo.

È comunemente accettato che l’esistenza degli agricoltori non divenne affatto più comoda e piacevole di quella dei cacciatori-raccoglitori: i primi lavoravano molto di più e avevano una dieta peggiore. Ci si chiede allora come sia stato possibile cadere in questa “trappola”. Niente di strano, né di nuovo: quante persone oggi vivrebbero più felici in campagna, con poco, e invece fanno volontariamente una vita di merda lavorando dieci ore al giorno in luoghi chiusi e malsani per un misero stipendio? La questione determinante è che la rivoluzione agricola, se non migliorò affatto le condizioni dei singoli individui, apportò però un vantaggio alla specie, permettendo l’esplosione demografica di Homo sapiens. Tanto basta a giustificare l’affermazione globale dell’agricoltura.

Quando siamo diventati così intelligenti?

La nascita dell’agricoltura, e quindi della civilizzazione per come la conosciamo, segna un primordiale punto fermo nella storia di ascesa e repentino declino dell’umanità (una storia, detto tra parentesi, in cui il nostro grande nemico, il capitalismo, è solo un misero e congiunturale accidente). Da quel momento in avanti, nel giro di un pugno di millenni, la marcia del progresso e della civiltà ci fa rotolare inesorabilmente verso la nostra fine, con una rapidità incredibile.

Ma come siamo arrivati fino a lì? E soprattutto, è davvero da quel momento – da quel primo seme piantato sotto terra che ha portato in un battito di ciglia alle odierne miniere di coltan e al buco nell’ozono – che il nostro destino si ritrova segnato per sempre, oppure la direzione era tracciata da ancora prima?

La nostra mente concentrata sulla quotidianità – che non ricorda com’era il mondo senza internet e i social network ­– fatica a comprendere quanto sia vasto il tempo che ci ha preceduto, ma la storia della nostra specie è ben più antica della nascita dell’agricoltura: Homo sapiens ha almeno 200mila anni, quindi per decine e centinaia di migliaia di anni non ha minimamente pensato a lavorare la terra, ad addomesticare gli animali, tantomeno a costruire città, imperi ed eserciti. Homo erectus ha vissuto per più di un milione e mezzo di anni in maniera sempre uguale a se stessa, così come il nostro “cugino” più prossimo, l’Uomo di Neanderthal se ne è rimasto tranquillamente per trecentomila anni a fare le stesse identiche cose. Il loro impatto sull’ambiente è stato assolutamente insignificante per decine di migliaia di generazioni. Proviamo a immaginare quanto ci sembrano lontani i tempi degli antichi Romani – appena duemila anni fa – e, al confronto, quante vite si susseguono in un milione di anni.

Prima della nascita dell’agricoltura, incamminandoci all’indietro, incontriamo un’altra grande svolta nella storia dell’umanità, probabilmente quella da cui è davvero iniziato tutto: se oggi siamo arrivati a creare intelligenze artificiali che fanno dell’umanità una specie obsoleta è perché in quel momento, tra 30 e 50 mila anni fa, abbiamo sviluppato una cosa unica ed eccezionale: l’intelligenza umana moderna. Parliamo della Rivoluzione cognitiva o Rivoluzione paleolitica, che i paleoantropologi definiscono come “il grande balzo in avanti” dell’evoluzione umana. La specie Homo sapiens era anatomicamente come noi già 200 mila anni fa, ma la forma esteriore non si accompagnava al pensiero e al comportamento moderni. Poi, a un certo punto (certo non dal giorno alla notte…) esplodono le capacità cognitive, si sviluppano l’intelligenza simbolica, il ragionamento astratto, il linguaggio articolato, diventiamo la prima specie autocosciente in grado di porsi domande su se stessa e sul proprio destino. Lo testimoniano le pitture rupestri di Altamira, Lascaux e tante altre grotte, le sepolture rituali, gli oggetti puramente decorativi, gli strumenti musicali; tutti i resti fossili ci raccontano la stessa storia e la datano nello stesso arco di tempo.

La possibilità di condividere con altri membri del gruppo una realtà immaginata e di darsi obiettivi condivisi permette la cooperazione sociale e la pianificazione di azioni (come organizzare una lunga battuta di caccia), senza queste peculiarità non sarebbero possibili società complesse, né tantomeno imperi, religioni, nazioni.

Che cosa ha potuto trasformare una specie fino ad allora non dissimile da molte altre, in qualcosa di straordinariamente unico, che non è più solo “natura”, ma se ne distacca, la trascende e dalle prime rappresentazioni culturali e simboliche tracciate sulle pareti di una caverna arriva in relativamente pochissimo tempo alla capacità di costruire mondi virtuali e di manipolare il codice genetico riscrivendo le basi della vita? Difficile dirlo, gli studiosi forniscono molte e diverse ipotesi per spiegare questo passaggio, ad esempio una mutazione genetica casuale che è andata a modificare le connessioni neuronali nel cervello dei sapiens, consentendo loro di pensare e di comunicare in una forma mai conosciuta prima, e che poi attraverso il naturale processo evolutivo si è selezionata e tramandata. Oppure l’innesco di un processo di rafforzamento reciproco tra sviluppo del linguaggio e capacità di autocoscienza. Fatto sta che il cervello si riorganizza e inaugura un modo totalmente nuovo di essere umani. Il nostro.

E prima?

Ma prima della nascita dell’intelligenza moderna cosa c’è stato? In breve: tutto ha inizio circa sei milioni di anni fa, quando è vissuto in Africa l’antenato comune tra noi e le grandi scimmie antropomorfe (scimpanzè, gorilla). La sua comparsa è stata possibile grazie a un cambiamento dell’ambiente su larga scala, cioè la formazione della Rift Valley, che dal Mar Rosso scende fino alla Tanzania, passando per gli attuali Eritrea, Etiopia e Kenya. A ovest di questa nuova conformazione rimangono predominanti le foreste pluviali e gli antenati delle scimmie continuano la loro vita scimmiesca, mentre a est la foresta lascia spazio a praterie e altopiani e in questa diversa nicchia ecologica si sviluppano le prime forme del nostro ceppo all’interno dei primati. Cominciamo timidamente a stare su due zampe, cosa utile per correre in spazi aperti, assorbire meno il calore del sole, avvistare i predatori guardando sopra la vegetazione, liberare gli arti superiori.

Per quattro milioni di anni non succede niente: nel senso che le australopitecine vivono la loro vita in natura, sopravvivendo con successo, senza che nessuna si pensi padrona del mondo. Poi, due milioni di anni fa, la Rift Valley cambia ancora e nell’infinita savana emergono le prime forme del genere Homo (Homo abilis; che qualcuno ritiene non ancora inseribile a pieno titolo nel genere Homo e parla quindi di early-Homo): il bipedismo, lentamente, diventa completo, le dimensioni del cervello cominciano a crescere, la vita sociale si fa un po’ più complessa. Inizia la produzione tecnologica con la prima industria litica, cioè la produzione sistematica e non occasionale di strumenti per vari utilizzi: è forse qui, in quelle prime pietre scheggiate, che era già inscritto l’inizio della fine?

Dove passa il sapiens…

L’Africa orientale e meridionale è sempre rimasta la culla del genere Homo che da lì, in più ondate successive, si è diffuso in tutto il mondo. La terza Out of Africa è quella di noi Homo sapiens. Spostandoci abbiamo incontrato i discendenti delle prime due Out of Africa e sappiamo già come questo incontro sia andato a finire: mentre diventavamo “intelligenti” abbiamo fatto fuori in un modo o nell’altro tutti i nostri “concorrenti”, rimanendo l’unica specie umana a solcare il pianeta. Noi sapiens, infatti, non siamo sempre stati gli unici rappresentanti dell’“umanità”. Siamo solo l’ultimo ramoscello nella storia dell’evoluzione umana, che non è un percorso unico, lineare e progressivo dalla “scimmia” a noi, ma una storia ramificata, un gran cespuglio di specie, nostre cugine, che si sono estinte anche a causa nostra.

Con diverse di loro abbiamo convissuto per decine di migliaia di anni. C’è stato un lungo periodo in cui sulla Terra – talvolta sullo stesso fazzoletto di terra – erano presenti contemporaneamente, oltre a noi, l’Uomo di Neanderthal, l’Uomo di Denisova, l’Uomo di Flores, l’Uomo di Luzon e perfino gli ultimi erectus a Giava. Tutti a pieno titolo appartenenti al genere Homo, simili ma diversi; un po’ come leoni, tigri e leopardi sono specie diverse dello stesso genere. Ebbene, da quando siamo diventati “intelligenti”, tutti gli altri sono scomparsi. Non li abbiamo propriamente annientati in battaglia, ma pare che noi sapiens eravamo avvantaggiati nella competizione per le risorse e questo, a lungo andare, ci ha fatto prevalere (spiegazione politically correct, ma che non convince fino in fondo).

Il nostro più famoso “rivale”, con cui abbiamo convissuto per migliaia di anni ma che alla fine si è arreso alla nostra irresistibile avanzata, è l’Uomo di Neanderthal, anch’egli discendente come noi da Homo heidelbergensis. Più robusto e tozzo di noi, con un cervello in media più grande (ma sviluppato in un cranio dalla forma diversa), aveva un linguaggio rudimentale e una parziale capacità di astrazione e intelligenza simbolica; è stato lui il primo vero “europeo”, dalla pelle bianca, quando noi sapiens, scuri e “migranti”, siamo arrivati sul suo territorio provenienti dall’Africa. Non è avvenuta una guerra di sterminio nei loro confronti e nemmeno una fusione, ma una parziale ibridazione, nel senso che per un certo periodo pur appartenendo a specie diverse ci siamo sporadicamente accoppiati, tanto che nel nostro genoma è rilevabile una piccola percentuale che deriva inequivocabilmente dal genoma neanderthaliano. Finché, appunto, il nostro “successo” li ha fatti estinguere.

È interessante notare questa convivenza e quanto sia recentissima: appena poche decine di migliaia di anni fa, non troppo tempo prima dei Sumeri e degli Egizi. Chissà cosa sarebbe successo se fosse durata…: l’umanità civilizzata ha fatto grande fatica a riconoscere un’anima ai selvaggi, chissà cosa avrebbe (avremmo) pensato e come avrebbe (avremmo) trattato un neanderthaliano. E cosa avrebbe pensato il cristianesimo di individui a tutti gli effetti “esseri umani”, ma non discendenti da Adamo ed Eva.

Siamo stati una specie letale per gli altri “uomini”, ma non solo: con la nostra forza distruttiva abbiamo – questa volta sì, volontariamente – sterminato un gran numero di altri esseri viventi. Circa 45 mila anni fa abbiamo raggiunto l’Australia e in poche migliaia di anni ne abbiamo demolito l’ecosistema, portando alla scomparsa del 90% della megafauna locale; 16 mila anni fa siamo arrivati in America e poco dopo non c’è più traccia dei grandi mammiferi, né quelli di media taglia se la passarono meglio; e così via. Esattamente ogni volta che sapiens raggiunge nuovi territori la biodiversità viene decimata e con il progredire della nostra storia non siamo certo migliorati da questo punto di vista. Se fosse successo una volta poteva essere un caso, ma visto che ogni volta si è ripetuto lo stesso copione, allora dovremo forse accettare il fatto che siamo noi il problema per la vita sulla Terra.

Eppure

Nel viaggio nel tempo che abbiamo cercato di delineare abbiamo individuato almeno tre tappe che hanno impresso altrettante accelerazioni alla nostra evoluzione: le cosiddette “rivoluzioni” cognitiva, agricola e industriale. Ognuna di queste tappe ha offerto grandi vantaggi alla nostra specie: intelligenza moderna, cibo abbondante, macchine che lavorano per noi, comfort, aspettativa di vita più lunga, mortalità infantile drasticamente diminuita (almeno per quella parte di mondo privilegiata) ma allo stesso tempo, quasi senza accorgercene, ogni volta ci siamo scavati un po’ più in profondità la fossa.

Più ci allontaniamo dalla condizione di animalità, più ci avviciniamo alla fine di ogni condizione. E allora viene da chiedersi se sia valsa la pena godere dei vantaggi della civiltà moderna se il prezzo da pagare è quello di ritrovarsi a essere l’ultima, o la penultima, generazione. Ma la domanda è anche, e soprattutto, un’altra: la nostra distruttività per tutto quello che ci circonda è una caratteristica connaturata all’essere umano culturale e tecnico – cioè siamo proprio fatti così e non c’è nulla da fare – oppure nella nostra storia ci sono state biforcazioni e strade alternative che non abbiamo imboccato. Se il percorso evolutivo che ha portato fino a noi non è stato un progetto divino, inesorabile e delineato fin dal principio, allora forse le cose potevano andare diversamente. Chi può saperlo?

Forse, ma forse, una rivoluzione sociale globale o un evento catastrofico di portata planetaria, con la definitiva interruzione delle attuali modalità di rifornimento di cibo, acqua potabile, energia e la conseguente drastica riduzione della popolazione potranno darci una seconda possibilità, ripartendo da piccole comunità diffuse che apprezzino il benessere dell’essenzialità e che, spero, potranno smentire il pessimismo.

Eppure, detto tutto questo, bisogna anche considerare che il tempo che ci è dato di vivere nella nostra quotidianità non fa i conti con il tempo profondo dell’evoluzione e del destino della nostra specie, ed è quindi giusto e salutare impegnarci per migliorare le immediate condizioni di vita, nostre e di ciò che ci circonda. Anzi, sapendo che in fondo non abbiamo nulla da perdere, possiamo trovare la spinta per attivare nuove energie:

[…] il tempo della vita è breve!

Trascorrere questa brevità nella bassezza

sarebbe cosa troppo lunga.

Se viviamo è per camminare sulla testa dei re.

Consigli di lettura

Lewis Mumford, Il mito della macchina, Milano, il Saggiatore, 1969.

Robin Dunbar, La scimmia pensante: storia dell’evoluzione umana, Bologna, Il mulino, [2009].

Giorgio Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, Bologna, Il mulino, 2017.

Giorgio Manzi, Il grande racconto dell’evoluzione umana, Bologna, Il Mulino, 2018.

Telmo Pievani, Atlante dell’evoluzione umana, Novara, Libreria geografica 2018.

Telmo Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi: per un’archeologia della globalizzazione, Milano, Meltemi, 2018.

François Gemenne, Aleksandar Rankovic, Atlante dell’Antropocene, Milano, Mimesis, 2021.

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