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Banditi della Marca del Sud

Intervista di Luigi a Raoul Dalmasso

L’intervista a Raoul Dalmasso – autore di Storia dei Quaranta, ovvero La verissima storia de li quaranta banditi di Amandola che se ne andarono a menar guerra al Turco, Edizioni Malamente, 2024) – è uscita su Rivista Malamente #34, ott. 2024. Raoul ci accompagna in un lungo viaggio tra potere e contropotere nelle Marche del Cinquecento, sulla scia dei banditi protagonisti della “Storia dei Quaranta”. Il libro è disponibile sul nostro sito e in tutte le librerie.

Con la tua “Storia dei Quaranta” ci proponi un romanzo storico ambientato nel XVI secolo. È la storia di una compagnia di banditi di Amandola (piccolo paese sui Monti Sibillini, nelle Marche) che attraverso molteplici vicissitudini si ritrova a combattere contro i turchi a Famagosta. Ci sono una trama e un’ambientazione complesse, tradotte in una narrazione “pop” e accattivante, un sottofondo di humor ma anche etico e politico e altre caratteristiche che potrebbero farci classificare il tuo libro nel cosiddetto genere New italian epic (se ancora esiste…). Senti calzante questa etichetta?

Sì. Direi che se si volesse proprio classificare S40 sotto un genere letterario questo sarebbe il NIE. Wu ming 1, proponente della definizione, definisce il New Italian Epic come una “nebulosa” di opere aventi alcuni elementi in comune ma altrimenti diversissime fra loro. Una definizione piuttosto ampia che può accogliere tranquillamente il mio scritto. A mio avviso è principalmente una caratterista del mio libro a renderlo parte della nebulosa, ed è la sua natura ibrida. Storia dei Quaranta, infatti, ha diversi livelli di lettura. Sicuramente è un romanzo storico (“cappa e archibugio”, se vogliamo), e lo stile narrativo è volutamente pop. I fatti narrati sono truci e sanguinosi, il tono è hardcore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalla forma: non si tratta di un’opera di fantasia. O meglio: lo è, ma solo in minima parte. Per questo motivo S40 può essere letto indifferentemente come un romanzo d’avventura o come una trattazione storica di eventi che ebbero luogo nel decennio 1565-1575 nella Marca Anconitana dello Stato Pontificio e più in generale nel Mediterraneo. Dipende da chi legge.

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Il progetto Edison per un impianto di trattamento rifiuti pericolosi a Jesi

Intervento di Augusto De Sanctis

Qualche settimana fa si è tenuto a Jesi (AN) l’incontro pubblico “Ad alto rischio ambientale. L’impianto Edison di trattamento rifiuti pericolosi alla ZIPA” con l’intervento di Augusto De Sanctis, attivista ecologista e autore di pubblicazioni scientifiche in campo ambientale. De Sanctis ha presentato un’analisi critica del progetto, basata sulla documentazione ufficiale, mettendone in luce le profonde criticità ambientali, sanitarie e sociali. Un progetto che in nome di ben precisi interessi privati si vorrebbe imporre al territorio, in un’area prossima al centro cittadino e a quartieri ad alta densità abitativa. Fermarlo non è facile, ma necessario.

Conosciamo Edison. Noi l’abbiamo incontrata e battuta in una campagna storica, quella del sito inquinato di Bussi, in provincia di Pescara, uno dei siti più inquinati del mondo. Ci siamo occupati di quel sito a partire dal 2007 e abbiamo ottenuto l’individuazione di Edison come responsabile della contaminazione; ora non solo l’azienda deve procedere alla bonifica, ma c’è un procedimento in corso al tribunale civile, con in ballo un risarcimento danni da un miliardo e mezzo di euro. Quindi, quando ho saputo del progetto di una società del gruppo Edison qui a Jesi mi sono subito attivato e informato e, come sempre faccio, sono andato a vedere “le carte”, perché sulle carte bisogna intanto cominciare a discutere. Io sono un attivista da tanti anni, mi occupo molto di valutazioni di impatto ambientale. Allo stato attuale il progetto è in questa fase, una fase centrale che prevede la partecipazione del pubblico; chiunque può infatti proporre delle osservazioni, e ancor di più lo dovrebbero fare l’amministrazione di Jesi e quelle dei paesi limitrofi, perché chiariamo subito un concetto: questo è un progetto di scala nazionale (a mio avviso anche extranazionale) per la quantità di rifiuti che vogliono gestire e quindi, come minimo, l’attenzione deve essere alta in tutto il territorio della provincia.

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G7: rituali e maschere sul palcoscenico della provincia italiana

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Di Vittorio Sergi

Da Rivista Malamente n. 34, ott. 2024

Ogni società ha i suoi rituali politici. La nostra non fa eccezione. Nel 1975 attorno a un grande tavolo fiorito, in una sala regale del castello di Rambouillet in Francia, sotto le luci dei riflettori e l’obiettivo delle telecamere ancora analogiche, si riunirono i capi di stato e di governo di sei paesi. Erano le prime nazioni industrializzate del mondo, tutte potenze coloniali e sorprendentemente ne faceva parte anche l’Italia. L’idea pare sia stata dei presidenti di Francia e Germania, per provare a mettere una pezza su una delle più importanti crisi del capitalismo occidentale dopo il boom degli anni Cinquanta e Sessanta: austerità economica, crisi petrolifera, giovani che non ne vogliono più sapere di lavorare. Se vogliamo vederla dalla parte dei capitalisti possiamo parlare di ristrutturazione o rivoluzione neo-liberale: si era infatti negli anni in cui la prospettiva di innovazione socialista di Allende in Cile era stata sconfitta con argomentazioni di piombo e in Europa la lunga ondata di rivolta giovanile del Sessantotto stava combattendo anche con le armi in pugno ma si avviava sulla sua parabola discendente.

Il rituale, dunque, funziona così: i grandi capi del vapore si siedono e discutono con la faccia seria e usano le parole giuste. Poi tutte queste iniziative si concludono immancabilmente con cene di dubbio gusto, foto di gruppo mediamente ridicole e folclore a uso stampa. Si volta pagina e si continua con la solita politica di potenza. Certo, come tutti i rituali, anche se non si fa niente di concreto si porta a casa qualcosa che in politica è molto prezioso: il prestigio. I summit ospitati dal nostro paese sono stati quello del 2001 a Genova, del 2008 a L’Aquila e del 2017 a Taormina.

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Anche noi stiamo con i falciatori e le falciatrici di OGM

Di Luigi

Immagini tratte dal libro Faucheurs volontaires, Les Dessin’Acteurs, 2010

Mezzana Bigli è un piccolo paese nelle campagne della Lomellina, in provincia di Pavia, recentemente diventato il centro della mobilitazione contro i cosiddetti “nuovi OGM”. Qui, in una porzione di terreno di pochi metri quadrati, l’Università degli Studi di Milano ha messo a coltura la prima sperimentazione italiana di queste nuove tecniche di ingegneria genetica: una varietà di riso – che i simpaticissimi e brillanti ricercatori hanno chiamato RIS8imo – studiato per ottenere piante più resistenti alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico, riducendo l’uso di pesticidi e razionalizzando l’impiego di acqua.

Non entreremo nel dettaglio della critica agli OGM; per approfondire rimandiamo, tra gli altri, all’intervento del collettivo Terra e libertà che abbiamo pubblicato sul n. 33 di Malamente e che smonta punto per punto la retorica green dei tecnologi, mostrando come i “nuovi OGM”, oltre che potenzialmente pericolosi per la salute e l’ecosistema, sono portatori della stessa idea di mondo dei “vecchi OGM”, un mondo che condanna definitivamente l’agricoltura contadina a soccombere di fronte alle monocolture industriali e dove il vivente – che ormai non nasce più, ma viene prodotto – diventa una merce tra le altre, manipolabile e brevettabile.

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Piazze

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Di Redazione

Redazione, Rivista Malamente n. 29 (giugno 2023)


Per acquistare la copia cartacea o abbonarsi alla Rivista:
Rivista Malamente 29 – Edizioni Malamente

Il 1° maggio, in attesa di salutari sommosse e scioperi generali per fare “come in Francia”, qualcuno di noi ha partecipato alla manifestazione nazionale di Pesaro contro la costruzione di un biolaboratorio di “alta sicurezza” (ovvero di “alta pericolosità”) dell’Istituto zooprofilattico sperimentale Umbria-Marche, che è solo un tassello nella rete di nuovi biolaboratori previsti in Italia. Circa 8.000 le presenze, in larga parte provenienti dai movimenti contro il green pass; qualche influencer del dissenso sul palco ad arringare follower dall’età media decisamente alta, un crescendo di condivisioni social di immagini e video e un corteo silenzioso sfilato nel deserto della periferia. Eppure, nella ridondante e a tratti fumosa accozzaglia di discorsi (rivolti al popolo che – anche giustamente – non si fida dei poteri forti) c’è un nucleo di argomentazioni che nutrono la critica sociale e che hanno portato diversi anarchici ed ecologisti radicali a manifestare a Pesaro.

È necessario mantenere lucidità di analisi e capacità di adattare i propri paradigmi di pensiero alla veloce evoluzione del contesto contemporaneo, se vogliamo decifrare una società assediata dalle nocività e dai danni del suo stesso sviluppo, che tenta di difendersi accelerando la corsa senza limite delle biotecnologie, medicalizzando ogni aspetto della sua misera esistenza, puntando non solo a controllare ma a manipolare le basi della vita. Dietro a tutto questo non c’è la promozione della “salute”, ma le logiche di potere e di profitto, la lunga mano della ricerca militare, la visione di un’umanità sempre più dipendente dalle tecnologie, sempre meno in equilibrio con il pianeta che la ospita, sempre meno capace di autonomia nel suo stare al mondo, confinata a una vita controllata e sicura, a misura di stabulario.

Pochi giorni dopo, il 6 maggio, mentre stavamo chiudendo il numero, l’iniziativa del movimento femminista e transfemminista Non una di meno ha portato in piazza ad Ancona più di 2.000 persone per denunciare lo schifo del “modello Marche” di applicazione delle politiche anti-abortiste e bigotte della destra di governo. Dai soliti noti della sinistra di palazzo, fino ai Centri sociali delle Marche, c’erano proprio tutti/e, ma mentre il corteo colorato e giovane arrivava sotto la statua dell’imperturbabile conte Cavour, poche centinaia di metri più in là i padroni della città gongolavano protetti da tutto l’arsenale della questura anconetana. E, due giorni dopo, il centro cittadino ha ospitato festante il comizio di Meloni, Salvini e Tajani a sostegno del candidato del centro-destra. Una città forse troppo al passo con i tempi, quelli cupi.

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L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia

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Recensione a: Andrea Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Laterza, Bari- Roma, 2022

di A. Soto

L’autore è uno dei maggiori studiosi della storia contemporanea russa. Legge il cirillico, ha studiato e insegnato tra Stati Uniti, Russia ed Europa ed è autore, tra l’altro, di una storia dell’Unione Sovietica 1914-1991 uscita per il Mulino tra il 2007 e il 2008.

Di orientamento democratico liberale, vicino al mite progressismo di Giuliano Amato, col quale ha scritto un libro, è uno degli intellettuali più informati sulla situazione russa, qui passata attraverso il vaglio dell’analisi storica. Questo suo testo, che collaziona interventi e studi degli anni precedenti aggiornandoli alla luce della guerra, a mio avviso dà utili coordinate interpretative, anche se è scritto in maniera non sempre brillante e non è lineare nella sua struttura. Inoltre offre conferme riguardo alla lettura della guerra come frutto dell’imperialismo russo, fornendo ulteriori elementi di approfondimento a riguardo.

Prendiamo il toro per le corna e, data la presa in Italia del discorso putiniano, sul fatto che sarebbe stato il mancato rispetto delle promesse fatte di non allargare la Nato a oriente a costringere Mosca a scatenare la guerra, Graziosi ci ricorda che:

  1. non si tratta di promesse ma di discorsi informali sul possibile futuro di una Germania riunificata tenutisi all’inizio del 1990 tra diplomatici sovietici e americani;
  2. il 5 dicembre 1994 Mosca firmò con Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina il trattato di Budapest, un impegno questo sì formale e solenne a non violare, e anzi a garantire, i confini di quest’ultima in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione e del trasferimento graduale di più di 4.000 testate nucleari dall’Ucraina alla Russia;
  3. che la Nato non costituisse una minaccia, per di più crescente, è confermato dai fatti: per preparare l’invasione dell’Ucraina la Russia ha ammassato truppe ai suoi confini per mesi; al contrario, i 315.000 soldati americani in Europa nel 1989 erano diventati 107.000 nel 1995 e circa 60.000 nel 2006 rimanendo su questo livello fino al 2021.
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Ancona capitale del TSO

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Uso e abuso del TSO psichiatrico nelle Marche Intervista di Sergio Sinigaglia ad Anna Stammati di Telefono Viola da Malamente 13 [QUI IL PDF]

Sciare a tutti i costi. A due passi dal mare. Monte Catria: lo scempio dei nuovi impianti sull’Appennino marchigiano

In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.

QUI IL PDF

Che bello sciare sul Catria

di Luigi

Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.

Protesta dell’associazione Lupus in fabula, luglio 2018

Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa

Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.

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Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino (#8)

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Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]

Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.

Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.

Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).

Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.

A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.

Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.

Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale

Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.

Fig. 1 - Mappa delle placche tettoniche della Terra
Fig. 1 – Mappa delle placche tettoniche della Terra

L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.

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L’Albero Maestro. Una realtà di “pedagogia del bosco” a Urbino

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Intervista di Luigi a Nicoletta e Serena [da Malamente #12, ottobre 2018] [QUI IL PDF]

La natura non è un posto da visitare. È casa nostra.
Gary Snyder

Il rapporto di molti bambini con l’ambiente naturale è oggi sempre meno diretto, spesso si riduce al palcoscenico di una gita domenicale o alla visita programmata in fattoria didattica, anche perché la quotidianità della vita urbana o semi-urbana ne cattura l’attenzione, loro malgrado, in un mondo di cemento, plastica ed elettronica. Nelle scuole d’infanzia, a parte rare eccezioni in cui qualche nonno è chiamato a piantare pomodori in giardino, si diventa per lo più abili a colorare le fotocopie di un albero senza uscire dai bordi, poco importa se non si è più in grado di riconoscere le piante attorno casa o se non si è mai sentito il profumo di un bosco d’autunno. Anzi, non è infrequente che le nuove generazioni, sempre più abituate a vivere in spazi chiusi, artificiali e igienicamente ipercontrollati, provino sensazioni di disagio quando sono chiamate a uscire dalla propria bolla per entrare in contatto con la materia organica, si tratti di camminare a piedi nudi sulla terra o bere latte appena munto.

Ma ci sono anche bambini e bambine che trascorrono le proprie giornate principalmente all’aria aperta, che sia estate o inverno, tra osservazioni e scoperte, esplorando in libertà il mondo esterno e le potenzialità della propria autonomia. Spesso si sporcano, ogni tanto si sbucciano un ginocchio. Non sanno cosa siano i “lavoretti” uguali per tutti/e e la curiosità è il motore della loro crescita. Li potete incontrare a spasso tra le campagne e i boschi delle Cesane di Urbino: sono i bambini e le bambine di Maestra Natura, un progetto educativo che è da poco entrato nel suo secondo anno di attività, rivolto, per ora, alla fascia uno-sei anni.

Nella sede che domina la vallata da dove, quando l’aria è tersa, lo sguardo può correre fino al mare, i bambini non sono oggetto di un trasferimento di competenze da parte degli educatori, ma soggetti di esperienze vissute, con buona pace di quei genitori ansiosi che i figli non imparino mai abbastanza per “essere pronti” all’ingresso nella scuola primaria, che è in primo luogo imparare a restare buoni e seduti fino al suono della campanella. Inoltre, lo stile educativo di Maestra Natura (e delle molteplici esperienze di outdoor education che si stanno sviluppando anche altrove, anche nelle Marche) non tiene conto solo della sfera cognitiva, perché imparare a gestire fin da piccoli le proprie emozioni e i rapporti umani con gli altri è altrettanto importante che imparare l’inglese e le tabelline e, probabilmente, è una buona strada per iniziare a costruire un futuro di migliore convivenza.

Su Malamente abbiamo già dato spazio a esperienze educative fuori dagli schemi oggi maggioritari, questa volta abbiamo intervistato Nicoletta e Serena, fondatrici ed educatrici dell’associazione L’Albero Maestro, al cui interno si sviluppa anche il progetto Maestra Natura.

Vi chiedo intanto di presentarvi. Da che percorsi personali siete arrivate all’apertura dell’associazione L’Albero Maestro e del progetto Maestra Natura?

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