Cambiare rivoluzione. Come essere realisti senza dimenticare l’utopia

da Rivista Malamente n. 22, lug. 2021 (QUI IL PDF)

Di Groupe MARCUSE (Movimento autonomo di riflessione critica per l’uso dei sopravvissuti dell’economia)

Come lo ribaltiamo il corso della storia? Dove sistemiamo la fatidica leva? Difficile trovare un punto d’appoggio… e mentre ci perdiamo nel labirinto che dovrebbe condurre a un improbabile cuore della contraddizione sociale le lotte scorrono sotto i nostri occhi, nei nostri territori, limitate e parziali, spurie e sporche, ma vive, reali, concrete. Che siano valligiani che disturbano l’alta velocità ferroviaria, piccoli allevatori contrari alla gestione informatizzata dei propri greggi o genitori che rifiutano schedature e controlli biometrici all’ingresso delle scuole (come ci raccontano gli esempi portati in questo articolo), intere comunità si muovono diffidenti e combattive, anche se talvolta non radicali come ci piacerebbe, contro un capitalismo che grazie allo sviluppo industriale e informatico sta realizzando al massimo grado il suo programma di sottomissione e dominio dell’esistente. In attesa che torni popolare la causa della rivoluzione liberatrice, discutiamo insieme su questi argomenti a partire dal testo che abbiamo tradotto da “La liberté dans le coma” (edizioni La Lenteur, 2013, nuova ed. 2019).

Non ha molto senso, a nostro parere, lottare contro gli effetti di controllo prodotti da un dispiegamento tecnologico considerato come ineluttabile con il solo obiettivo di preservare le libertà individuali. Piuttosto, è proprio tale dispiegamento, e il suo carattere ineluttabile, che bisogna mettere in discussione teoricamente e praticamente. L’urgenza non è tanto difendere «le libertà», quanto reinventare la libertà.

Opporsi all’offensiva tecnologica, interromperla, ricacciarla indietro implica un tipo di cambiamento sociale e politico inedito. Quante rivoluzioni ci vorranno per recuperare delle condizioni di vita favorevoli a un progresso del genere umano? Quante insurrezioni e sollevamenti per riorientare il corso delle cose fuori dai binari, resistenti ma flessibili, dello sviluppo economico, dell’accumulazione senza scopo e senza freni? Non è piuttosto un cambio di civiltà quello che auspichiamo? E un tale cambiamento riguarda ancora la politica, cioè l’azione degli esseri umani associati, ciò che si può insieme elaborare e istituire? O si tratta di uno slittamento talmente profondo che sfugge completamente alla coscienza e alla volontà umane, andando al di là di quel che può progettare un movimento politico o un gruppo sociale?

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Destituire, bloccare, hackerare (#4)

Destituire, bloccare, hackerare
Di Vittorio

Parigi, 1 maggio 2016
Parigi, 1 maggio 2016

 

A partire dal 9 marzo scorso, un movimento radicale di protesta si oppone tenacemente alla riforma del codice del lavoro francese. Dalle occupazioni di scuole e università si è passati a quella delle piazze, per giorni interi. La parola e la determinazione dei giovani hanno spinto anche i lavoratori più garantiti a radicalizzarsi fino ad aderire ai blocchi della circolazione ed estendere lo sciopero alle raffinerie e persino alle centrali nucleari, senza contare i numerosi sabotaggi alle reti informatiche e di comunicazione. Per chi vive nell’Italia imbambolata da Johnny Renzi sembra incomprensibile come un movimento al centro dell’Europa possa sfidare lo stato d’eccezione imposto dopo gli attacchi terroristici di novembre 2015 a Parigi ed allo stesso tempo mettere in discussione il modello economico esistente. In fondo, si pensa, non stanno mica nella merda come noi in Italia e il loro “jobs act” è acqua fresca in confronto a quello che qua abbiamo ingoiato senza troppo strepito. Ma se lasciamo da parte i luoghi comuni sui francesi “che si incazzano” anche i movimenti più imprevedibili si spiegano con le loro ragioni politiche e culturali. Pubblichiamo per questo la trascrizione della presentazione del libro “Ai nostri amici” del Comitato Invisibile, pubblicato per la prima volta in Francia nell’ottobre del 2014, che si è tenuta presso la libreria Il Catalogo di Pesaro nel gennaio 2016 sotto forma di dialogo.

Amandine Urruty, Disco ball
Amandine Urruty, Disco ball

 

Da dove arriva questo libro? Chi è il Comitato Invisibile che lo firma? Perché in Italia è uscito in maniera semiclandestina, in forma di autoproduzione senza un riferimento editoriale riconoscibile?

Il libro nasce da un percorso politico e intellettuale che è quello del Comitato Invisibile che in Francia ha una storia di almeno dieci anni. Le pubblicazioni del Comitato Invisibile sono state tradotte in molte lingue, sono circolate in molti paesi, hanno creato una rete di contatti, di complicità e di condivisione. Facendo a ritroso una genealogia di questa iniziativa politica e culturale, alcuni si ricorderanno di «Tiqqun» che è stata una rivista uscita in tre volumi dal 1999 al 2001. Era una rivista politica che si definiva di “metafisica critica”, proponeva un discorso che rompeva con i codici della sinistra e dell’anarchismo ma anche con quello che era in quel momento il movimento della globalizzazione anticapitalista. Cercava una critica radicale dell’esistente, ma attraverso codici filosofici e politici leggermente spostati rispetto alla tradizione della sinistra e dei movimenti antagonisti. Si rifaceva al pensiero di Walter Benjamin, di Giorgio Agamben, di un’evoluzione del situazionismo francese e così via.

«Tiqqun» ha chiuso i suoi lavori nel 2001 e nel 2004-2005 in Francia ha cominciato a circolare un piccolo opuscolo che si chiamava Appel, che poi è stato tradotto anche in italiano e in altre lingue. In quel periodo in Francia c’è stato un movimento particolarmente importante per i movimenti sociali dell’epoca che è stato prima la rivolta delle banlieue del novembre 2005, poi il movimento contro il CPE del 2006 (contrat de premiere embauche, cioè contratto di primo impiego), un tentativo in parte riuscito del governo di allora di imporre maggiore precarietà nei contratti dei giovani, che scatenò un grande movimento universitario molto forte. All’epoca Appel circolò e cominciò in qualche maniera a emergere come posizione politica. Gli autori vennero chiamati “appellisti”, ci fu un po’ di discussione attorno a questa posizione che si definiva rivoluzionaria e anticapitalista ma in rottura con le tradizioni politiche del Novecento e soprattutto molto critica verso l’ambiente degli attivisti politici radicali dell’epoca.

Dopo la storia di Appel, nel 2007 esce L’insurrezione che viene, pubblicato dalla casa editrice La Fabrique, che è una casa editrice commerciale, seppur appartenente a una parte della sinistra francese. Questo libro ebbe un successo di vendite e di pubblico pazzesco per un pamphlet politico, vendette circa 8.000 copie nei primi mesi e poi ci fu un avvenimento che accese ancor di più i riflettori sul libro, cioè l’operazione “Taiga” dell’11 novembre 2009, con cui la Direzione antiterrorismo francese andò ad arrestare una decina di compagni e compagne nel paese di Tarnac, con l’accusa di far parte di un’associazione terroristica e di sabotaggi contro il treno ad alta velocità in diverse città della Francia. Il quadro dell’accusa contro questi attivisti è basato proprio sulla lettura del libro L’insurrezione che viene. Questo è stato descritto come il loro programma politico, come uno dei libri più pericolosi di quel periodo, come un libro altamente sovversivo da un noto criminologo che è Alain Bauer, che ha fatto scuola in Francia prima con Sarkozy e poi con Holland con le sue teorie sulla radicalizzazione. La repressione nei confronti degli autori del libro non ha avuto molto successo nel frenare la diffusione delle loro idee, visto che dopo il loro arresto il libro è arrivato a vendere 25.000 copie ed è diventato un caso editoriale.

Dopo quella vicenda, che ancora non si è conclusa da un punto di vista giudiziario, gli autori rimangono attivi, vengono organizzati seminari, incontri, il libro circola e c’è una discussione che viene riportata in parte nell’introduzione di Ai nostri amici. Qui si racconta come dopo L’insurrezione che viene e al fuoco vivo delle rivolte a cui gli autori e le autrici hanno partecipato, viene pensato questo nuovo libro che, se vogliamo, è una continuazione delle tesi precedenti, un’attualizzazione delle ipotesi su un’azione politica rivoluzionaria nel presente, una riflessione sulle rivolte e sulle insurrezioni che abbiamo visto dalle piazze arabe del 2011 a quelle europee e americane degli indignati nel 2011-2012. Dunque, il libro esce in Francia nel 2014 anche come una riflessione critica sul percorso proposto da L’insurrezione che viene e come il tentativo di attualizzare il dibattito politico con un invito all’autorganizzazione.

In Italia perché non viene pubblicato? Come ho detto prima le vicende sono varie, di fatto non si è trovato un editore che avesse il coraggio e la voglia di pubblicarlo, perché quelli che hanno una posizione politica definita in qualche maniera o sono di qualche parte o partito, lo sentono come non allineato alla loro visione, quelli commerciali hanno paura di sputtanarsi con un libro troppo radicale e quei pochi interessati hanno temuto di affrontare un investimento non previsto nei loro piani editoriali. Quindi, impazienti del fatto che questo libro non venisse pubblicato in italiano, c’è stata una specie di iniziativa dal basso che l’ha stampato a luglio dell’anno scorso e adesso viene presentato in tutti i posti dove c’è interesse a discuterne.

Amandine Urruty, Family Portrait I
Amandine Urruty, Family Portrait I

 

Quello che si nota subito leggendo il libro è che il lessico, il linguaggio non somiglia al gergo classico della sinistra radicale. Allo stesso tempo il Comitato afferma nell’introduzione di voler costruire un dibattito per liberare “il Gulliver della rivoluzione”, ma un dibattito necessita di interlocutori. Chi sono questi “amici”? E a chi si riferisce la prima persona plurale “nostri” utilizzata dagli autori? Puoi spiegarci chi sono tutti questi soggetti chiamati in causa?

Effettivamente il termine “amici” a qualcuno un po’ più attempato suona come gergo democristiano. Questo libro rompe con la sinistra come concetto politico, è fortemente critico verso la sinistra e questa idea di amicizia non ha niente a che fare con l’amicizia pelosa dello scambio di favori, ma è un’amicizia politica, cioè è una riflessione che parte dall’idea che il politico è prima di tutto un terreno dove si definiscono l’amicizia e l’inimicizia, dove in qualche maniera la forza, il motore del conflitto e della trasformazione politica è proprio questa dicotomia tra amico e nemico. Il concetto viene da questa radice di riflessione politica e filosofica che attraversa la sinistra, attraversa i movimenti rivoluzionari ma è anche precedente alla modernità.

E soprattutto il “noi”. Esso è chiaramente un riferimento all’idea che è necessario, gli autori e le autrici propongono che è necessario organizzarsi con una forza politica, con una forza collettiva che agisca, quindi questo noi è un noi che invita e riconoscersi, a creare delle situazioni collettive. Ma in che modo farlo? Per rendere l’idea vi leggo proprio il passaggio dove si utilizza questa metafora del Gulliver della rivoluzione: “Organizzarsi non ha mai voluto dire affiliarsi alla stessa organizzazione. Organizzarsi significa agire secondo una percezione comune, a qualsiasi livello essa sia. Ora, quello che fa difetto alla situazione non è la «collera della gente» o il bisogno, non è la buona volontà dei militanti né la diffusione della coscienza critica e nemmeno la moltiplicazione del gesto anarchico. Quello che ci manca è una percezione condivisa della situazione. Senza questo legame i gesti si dissolvono nel nulla senza lasciare traccia, le vite hanno la consistenza dei sogni e le sollevazioni finiscono nei libri di scuola. La profusione quotidiana di informazioni, per gli uni allarmanti e per gli altri semplicemente scandalose, plasma la nostra comprensione di un mondo globalmente inintelligibile. Il suo aspetto caotico è la nebbia della guerra dietro la quale esso si rende inattaccabile. È grazie al suo aspetto ingovernabile che è realmente governabile. È questo il trucco. […] Una intelligenza condivisa della situazione non può nascere da un solo testo, ma da un dibattito internazionale. Ma perché un dibattito abbia luogo bisogna cominciare a mettere in circolo dei documenti. Eccone uno, quindi. Abbiamo sottoposto la tradizione e le posizioni rivoluzionarie al banco di prova della congiuntura storica e abbiamo provato a tranciare i mille fili ideali che tengono legato al suolo il Gulliver della rivoluzione”.

Quindi l’idea degli autori è quella di non proporre un’organizzazione politica come un luogo di identità nel quale cercare dei tesserati, ma proporre una riflessione più ampia su quelle che sono le forme dell’organizzazione sociale e del vivere collettivo, quindi “noi” fa riferimento a questa volontà di non creare un perimetro identitario per un’organizzazione con un’entrata e un’uscita ma attivare una riflessione più ampia.

Amandine Urruty, Family Portrait II
Amandine Urruty, Family Portrait II

 

Destituire, bloccare, hackerare: sono le parole chiave del metodo che il Comitato Invisibile legge all’opera nelle insurrezioni succedutesi dal 2008 ad oggi, fuori e dentro l’Europa. Se queste sono delle buone strategie, perché non hanno vinto? Come si costruisce, se è possibile costruirla, una prospettiva rivoluzionaria a partire da queste fiammate insurrezionali?

Se qualcuno ha letto L’insurrezione che viene, un limite sicuramente di quel libro era un certo, detto volgarmente, volontarismo, cioè l’idea che una rottura radicale con questo sistema politico ed economico fosse anzitutto una posizione etica che potesse portare a questa rottura. Il problema dell’etica è che in qualche maniera si scontra quotidianamente con l’economia, quindi in Ai nostri amici si approfondisce un filone che c’era già nel libro precedente che è quello se vogliamo più materialista rispetto a quelle che sono le forze reali che governano la società e che fanno sì che appunto le rivolte che abbiamo visto dal 2011 in avanti non riescano a costruire una rivoluzione.

Dallo stadio di rivolta o di insurrezione anche particolarmente estesa come quelle avvenute in Tunisia o in Egitto e in tanti altri posti non si riesce a passare a quello che alcuni chiamerebbero un passaggio costituente. Ai nostri amici parla invece della necessità di un passaggio destituente, poiché gli autori non credono che si debba costituire un nuovo potere ma che lo sforzo principale sia quello di destituire il potere in quanto tale nella società. Per fare questo l’analisi si articola su quattro terreni su cui secondo loro si poggia il governo dell’esistente. Uno è appunto il tema del governo, ma governo inteso non solo come governo istituzionale, ma proprio come lo intenderebbe Foucault, come forma di far vivere, non tanto come istituzione che legifera ma come capacità di gestire la vita delle popolazioni. Da questo deriva la grande centralità della logistica come forza principale di riproduzione del capitalismo, che si riproduce soprattutto attraverso la circolazione che crea il valore delle merci. Qui il dissapore con i marxisti di varie scuole è molto forte, perché per i marxisti l’elemento principale di creazione del valore è lo sfruttamento del lavoro e tutta la dinamica del plusvalore, mentre secondo questa analisi è la sfera della circolazione, della logistica ad essere oggi centrale piuttosto che quella della produzione. La cibernetica che è la tecnica principale di governo, non è l’informatica ma utilizza anche l’informatica per controllare, normare, prevedere, modellizzare la società attraverso l’uso dei calcolatori e dell’economia. Sarebbe molto lungo parlare di cos’è l’economia secondo i “nostri amici” però sostanzialmente l’economia è l’opposto del comunismo. Il comunismo non come sistema politico sociale storico, ma il comunismo come forza di comunizzazione, condivisione e negazione della scarsità, critica radicale della logica economica. Se la logica economica è creazione della penuria, creazione del bisogno, il comunismo è l’opposto, è la negazione della penuria, la negazione della povertà attraverso la negazione di ogni proprietà, di ogni limitazione dei bisogni e della possibilità di condividere. Ecco queste sono le quattro gambe su cui si appoggia il potere e l’analisi del libro in qualche maniera, capitolo per capitolo, cerca di smontare l’articolazione di questo potere attraverso delle proposte e delle pratiche che vengono indicate come possibili.

Amandine Urruty, Family Portrait III
Amandine Urruty, Family Portrait III

 

Attorno al libro sono esplose polemiche anche molte accese che hanno portato ad una sorta di boicottaggio e anche alla diffusione da parte di alcuni anarchici di un pamphlet intitolato Ai clienti in cui viene nettamente rifiutata la proposta del Comitato Invisibile che si può sintetizzare nella frase: “non esiste un esperanto della rivolta. Non spetta ai ribelli imparare a parlare anarchico, ma agli anarchici diventare poliglotti”. Qual è il problema?

Secondo me ci sono vari motivi, uno è legato alla scelta degli autori di non voler costruire esplicitamente un perimetro identitario preciso, ma allo stesso tempo di volersi organizzare in una forza politica. Questa ambivalenza viene vissuta in maniera scomoda e negativa da chi invece fa dell’identità politica, dell’ortodossia della propria visione un punto di forza. E qui già c’è un primo problema. L’altro è quello dell’etica, sicuramente cioè che accomuna alcuni anarchici e i “nostri amici” è sicuramente un primato dell’etica, un’idea etica molto forte dell’azione politica e di ciò che spinge all’adesione a una determinata scelta di vita. Se vogliamo, da una parte c’è un’etica puritana, contro un’altra che dal mio punto di vista è meno dogmatica.

Detto molto bruscamente, vedo in certe critiche una sorta di invidia, di preoccupazione che un pensiero prenda campo e invada dei territori che sono presidiati da altre iniziative, perché di fatto quello che è avvenuto è che queste idee sono circolate e secondo me hanno avuto il pregio di saper attraversare un momento storico complesso, come è stato la transizione dal movimento contro la globalizzazione capitalista dal 1999, 2001 e poi riuscire a interpretare quello che è successo in un altro ciclo di lotte, quello degli anni 2000 e poi quest’ultimo non ancora concluso delle insurrezioni nei primi anni del nuovo decennio del 2000. La forza dei “nostri amici” è la capacità, proprio perché non si chiudono in una posizione identitaria, di essere capaci di ascoltare e anche di contaminarsi con altre esperienze che avvengono e questo chiaramente da qualcuno viene etichettato come opportunismo, come marketing politico, come volontà di essere buoni per tutte le stagioni. Per qualcuno la circolazione e il successo di un’idea la squalificano per principio, se l’adesione a qualche idea politica supera un numero minimo di persone diventa necessariamente commerciale. Secondo me quando un pensiero, una riflessione diventano collettive, diventano ampie, diventano necessariamente anche plurali e a volte anche spurie. Se siamo diecimila a leggere questo libro forse daremo diecimila interpretazioni e se abbiamo dei luoghi collettivi dove discuterne potranno diventare cento, ma sicuramente non diventeranno mai una.

Amandine Urruty, Pear
Amandine Urruty, Pear

 

Oggi non sembra che viviamo in una fase di crisi del capitalismo ma nel “capitalismo della crisi”, cioè è la crisi stessa (la sua gestione e il suo controllo) una forma di governo. In nome della “crisi” diventa tutto giustificabile. Al di là di prospettive rivoluzionarie, auspicabili ma forse difficilmente immaginabili nell’immediato, vedi possibilità di svolte alternative del capitalismo, cioè una uscita da questa crisi prolungata per mantenersi in piedi con altre strategie?

Quando si sente parlare di rivoluzione sembra una parola completamente fuori contesto, desueta e assurda, quando invece è stata una parola che è stata il motore della politica e della cultura in Europa per almeno due secoli. Perché questa parola è collassata e questo concetto è stato dato per morto. Invece è ancora vivo. Secondo me e secondo gli autori del libro un punto fondamentale è il tema dell’Apocalisse. Viviamo in un’epoca che si compiace e che costruisce il suo consenso sul governo e sull’economia della catastrofe, sulla riproduzione continua della crisi e sull’apocalisse come prospettiva, cioè un’epoca il cui governo si legittima sul fatto che ci dovrebbe in qualche modo difendere da un’apocalisse incombente. La crisi ecologica, la crisi economica, il crollo di tanti sistemi politici del Novecento piuttosto che indebolire il governo di questa società lo hanno rafforzato e questo è il grande problema. Questo ha anche in qualche maniera tagliato le gambe all’idea di rivoluzione almeno per come si era costruita nella cultura e nella politica del Novecento, in cui la rivoluzione era un’alternativa all’apocalisse, un’altra linea storica che aveva cercato di scalzare l’idea dell’apocalisse cristiana, cioè la fine dei tempi non attraverso una grande purificazione finale ma attraverso una grande trasformazione sociale.

Il pensiero rivoluzionario oggi sta ancora cercando il suo senso del tempo e della storia, ma continuare a lottare è fondamentale per continuare a capire il presente. Vi leggo a proposito questo passaggio: “Se questa epoca va matta per le messinscene apocalittiche, che costituiscono buona parte della produzione cinematografica, non è solo per il godimento estetico che questo genere di distrazione autorizza. Del resto, l’Apocalisse di Giovanni ha già tutto della fantasmagoria hollywoodiana, con i suoi attacchi aerei di angeli scatenati, i suoi inenarrabili diluvi e i suoi spettacolari flagelli. Solo la distruzione universale, la morte di tutto può lontanamente procurare all’impiegato che vive nelle villette a schiera il sentimento di esser vivo, lui che tra tutti è il meno vivo. «Che la si faccia finita!» e «Purché duri!» sono i due sospiri che alternativamente procurano un’eguale disperazione civilizzata. A ciò si mescola un vecchio gusto calvinista della mortificazione: la vita è un rinvio, mai una pienezza. Non si è parlato invano di «nichilismo europeo». Del resto è un articolo che si è esportato così bene che il mondo ne è ormai saturo. Infatti più che una «mondializzazione neoliberale» abbiamo avuto soprattutto la mondializzazione del nichilismo”. La rivoluzione, se vuole vincere di nuovo, deve affrontare questo compito immenso di critica radicale del nichilismo quale unica metafisica che è rimasta in piedi nelle nostre società.

Francia 2016
Francia 2016

 

 

La critica antindustriale e il suo futuro (#9)

La critica antindustriale e il suo futuro
Di Javier Rodriguez Hidalgo

Sulle nostre pagine abbiamo già dato spazio a diversi contributi di critica antindustriale. Ora, con questo articolo di Javier Rodríguez Hidalgo, cerchiamo di approfondire alcuni passaggi dello sviluppo che tale critica sociale ha attraversato negli ultimi decenni e di delineare quali possibili ipotesi di cambiamento radicale ci consenta di intravedere, pur nelle enormi difficoltà che intralciano le prospettive rivoluzionarie nel tempo presente. Il rifiuto dell’ideologia del progresso e la messa in discussione di scienza e tecnologia in quanto strumenti né neutrali né di emancipazione hanno radici in pensatori come Jacques Ellul o Günther Anders ma, in tempi a noi più vicini, Hidalgo si sofferma in particolare sui contributi apportati dal gruppo dell’Encyclopédie des Nuisances. Dedica inoltre un capitolo a mostrare sotto quali forme questa corrente di pensiero si sia diffusa in Spagna: non abbiamo tradotto questa parte, che riserva ampio spazio all’esperienza del gruppo Los Amigos de Ludd e all’omonima rivista (2001-2004), i cui sette numeri sono stati tradotti in italiano da Acrati (acronimo che sta per Aggreg-azione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Sempre per quanto riguarda lo specifico contesto in lingua italiana rimandiamo anche al testo di una relazione del 2005 a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano, “Critica della scienza e della tecnologia nei movimenti dagli anni Settanta a oggi”, che si può facilmente reperire anche online. Il testo di Hidalgo, scritto nel luglio 2005, è stato pubblicato sulla rivista «Ekintza Zuzena», n. 33, gen. 2006 ed è circolato subito dopo in una prima traduzione italiana fatta da Marco Camenisch dal carcere di Regensdorf. Alcune note al testo sono nostre.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017

 

In questi ultimi anni, una critica sociale che possiamo definire antindustriale e antiprogressista ha conosciuto una importante diffusione. I suoi tratti principali sono: un rifiuto categorico dell’idea di progresso; un giudizio critico rispetto alle promesse della modernità; una completa messa in discussione delle potenzialità liberatorie della tecnologia; la constatazione del disastro ecologico e umano in corso; la contestazione della pretesa neutralità della tecnica. Anche se questa carrellata è troppo generica, cercherò di passare in rassegna le obiezioni più comunemente sollevate contro queste idee ed esprimerò le mie proprie critiche. Non nascondo, per evitare accuse a posteriori, di essere d’accordo, in sostanza, con questa critica antindustriale. Per diverse ragioni non parlerò qui del primitivismo. Quella che viene chiamata critica “anti-civilizzazione” o “anti-addomesticamento” non sarà trattata in questo articolo.

 

La chiave del disastro

Theodore J. Kaczynski, meglio conosciuto come Unabomber[1], ha reso pubblica la sua critica della società industriale in circostanze molto particolari. Poco prima del suo arresto, avvenuto il 3 aprile 1996, è riuscito a fare in modo che due dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti pubblicassero integralmente il suo manifesto, intitolato La società industriale e il suo futuro, firmato Freedom club[2]. L’impatto mediatico della cattura di Kaczynski aiutò enormemente la diffusione delle sue tesi sull’evoluzione della società tecno-industriale, ma le discreditò assimilandole ai deliri di un pazzo omicida. In sostanza, Kaczynski afferma che la società industriale, obesa, cieca e appesantita dalla zavorra delle sue inerzie, corre verso la catastrofe, e che i radicali dovrebbero sfruttare l’occasione che offrirà loro il crollo del sistema per ricostruire una società più umana, fondata su comunità più ristrette e su un livello di sviluppo tecnico accessibile, non gerarchizzato né basato su un’eccessiva divisione del lavoro. Egli scarta ogni possibilità di riforma del sistema e rifiuta l’idea che ci possano essere delle tecnologie emancipatrici. Queste riflessioni sono accompagnate da uno duro attacco del gauchismo e del progressismo, e da alcune osservazioni sulla tecnica in generale. Per Kaczynski, la sola lotta prioritaria dev’essere quella che mira a distruggere il sistema industriale. Tutte le altre, a paragone, sono insignificanti.

Da allora, il Manifesto di Unabomber, come viene generalmente chiamato, è circolato molto. Il suo merito principale è di presentare le cose con una sorte di innocenza davvero inusuale nella critica sociale, solitamente incline al conformismo militante o all’auto-indulgenza. Il suo principale difetto è che sembra credere nelle possibilità salvifiche che porterebbe con sé il collasso della società industriale. È altrettanto chiaro che il suo manifesto ha avuto l’effetto di una bomba (scusate il facile gioco di parole) nel mondo della critica ecologista radicale, costretta a rompere con ogni fantasia riformista e a dotarsi di una certa coerenza teorica quanto allo stato attuale della società tecnologica. In altri testi posteriori, pubblicati col contagocce, Kaczynski ha insistito sulle idee fondamentali de La società industriale e il suo futuro. La novità di maggior rilievo è che si è mostrato talvolta convinto della necessità di abolire non solo il sistema tecno-industriale, ma anche la civilizzazione nel suo insieme, il che ha facilitato l’adozione del suo discorso da parte di alcuni primitivisti.

In una forma molto più lenta e silenziosa si è fatta strada la critica elaborata dalla parigina Encyclopédie des Nuisances (EdN). L’EdN ha debuttato nel 1984 come collettivo editore dell’omonima rivista. Fino al 1992, anno di pubblicazione dell’ultimo fascicolo, sono usciti quindici numeri, tredici dei quali prima del 1989. In seguito, le edizioni dell’Encyclopédie des Nuisances, fondate nel 1993, hanno dato alle stampe una ventina di libri (tra i quali una traduzione francese de La società industriale e il suo futuro di Kaczynski) che approfondivano gli elementi di critica antiprogressista già presenti nella rivista. Per ben comprendere le idee dell’EdN bisogna sapere che il termine nuisances – “effetti nocivi” o “nocività” – non designa solo le conseguenze della vita moderna (contaminazione, rumore etc.) ma l’insieme dei danni che un sistema sociale concreto, il capitalismo industriale, infligge agli esseri umani. Il lavoro salariato, per esempio, è uno degli effetti nocivi di questo sistema.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
 

La critica dell’EdN prende di mira la modernità e qui il termine “critica” non va inteso come sinonimo di attacco, ma come intenzione di capire fino in fondo e mettere a nudo una realtà. Come Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, gli “enciclopedisti” non negano un aspetto emancipatore nel progetto trasformatore della modernità, enunciato e promosso del secolo del Lumi, ma allo stesso tempo ne sottolineano il lato perverso: la foga razionalizzatrice e quantificatrice, l’ideologia del progresso, il disprezzo verso la tradizione, così come certe illusioni ereditate dalle epoche precedenti. Gli “enciclopedisti” constatano che è proprio questo lato della modernità che ha finito per imporsi e che dirige, incontrando sempre meno opposizione, il destino dell’umanità. Il problema è che il sistema totalitario che si è costruito nel corso del XIX e XX secolo, in parte derivato dal progetto dell’Illuminismo, e che può essere considerato come definitivamente “lanciato” a partire dalla Seconda guerra mondiale, governa come un despota solitario e fa tabula rasa di tutto ciò che l’ha preceduto, compresi i saperi e le capacità umane che permettevano di concepire un mondo più giusto e meno aberrante. La tecnicizzazione e la mercificazione sempre più spinte di ogni sfera della vita umana, sia sociale che personale, portano a credere che questo processo sia irreversibile. Allo stesso modo l’EdN denuncia qualunque speranza di liberazione tecnologica (a partire dall’informatica) come un deus ex machina irreale, una mistificazione che contribuisce a far accettare le imposizioni del sistema. Critica inoltre l’idea secondo la quale l’industria sarebbe qualcosa di neutrale, un semplice attrezzo che dovrebbe solo cambiare di mano per cessare di essere strumento di tortura e convertirsi in mezzo di liberazione.

Secondo l’EdN, gli esseri umani della nostra epoca sono più reticenti che mai all’idea stessa di emancipazione. La perdita dei saperi tradizionali, rimpiazzati da surrogati in forma di merci o servizi, rende il compito di trasformare la società molto più difficile. In effetti non resta più granché che meriti di essere autogestito: dal linguaggio alla cucina popolare, tutto è coinvolto nella degradazione industriale, ma il più grande successo di questo sistema è di essersi saputo rendere desiderabile ai dominati. Di fronte a questo, nemmeno la catastrofe in corso è di buon auspicio quanto a possibilità di liberazione. In un libro pubblicato dall’EdN alla fine del 2000, intitolato significativamente Après l’effondrement [Dopo il crollo], Jean-Marc Mandosio scriveva a proposito della tesi di Jacques Ellul sul collasso del sistema industriale: “è da molto tempo che ci troviamo in un «enorme disordine mondiale», in cui la contraddizione e lo smarrimento sono diventati la norma, senza che questo significhi la fine del «sistema tecnificato». Il moltiplicarsi delle crisi locali e del caos su grande scala rinforzano, paradossalmente, la coerenza del sistema nel suo insieme, che si nutre appunto di smarrimento e contraddizione, nei quali trova nuove forze per estendersi e perfezionarsi esasperando sempre più l’alienazione dell’individuo e la distruzione dell’ambiente. Quanti attendono che la società industriale crolli loro attorno, rischiano di dover subire ben prima il proprio stesso crollo, perché questo collasso, che si sta già consumando, non è quello del «sistema tecnificato», ma della coscienza umana e delle condizioni oggettive che la rendono possibile”[3].

Abbiamo qui la chiave del disastro che si produce ovunque e dal quale, secondo l’EdN, non ci dobbiamo attendere alcuna garanzia di trasformazione positiva: il sistema industriale trascina via con sé quella sensibilità umana che potrebbe giudicare negativamente lo stato di cose presente. Questa è l’autentica catastrofe. A differenza dei primitivisti, che sembrano entusiasmarsi della possibilità di un cataclisma di dimensioni mondiali (più sarà devastatore, meglio sarà), gli “enciclopedisti” rifiutano “la soddisfazione non dissimulata con la quale [certi teorici] parlano di crisi, di crollo, di agonia, come se possedessero qualche speciale assicurazione riguardo alla direzione di un processo che tutto il mondo spera porti finalmente a un risultato decisivo, un evento che chiarirà una volta per tutte l’ossessionante enigma dell’epoca, sia che abbatta l’umanità, o che la obblighi a raddrizzarsi”[4].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
 

Non si tratta di inaugurare la moda dell’anti-industrialismo

Domandiamoci ora in quale situazione si trovi oggi la critica antiprogressista e antindustriale e quali obiezioni le siano state mosse. In primo luogo, come ci si può attendere, i più refrattari a queste idee sono i settori dell’ultrasinistra, che vengano dal marxismo o dall’anarchismo[5]. Per loro la rivoluzione non è nient’altro che un progetto che è sempre da riprendere partendo dal principio e negare la possibilità che possa scoppiare da un momento all’altro appare loro come un crimine di lesa umanità. Parlare di “società industriale” invece di “società capitalista” è ai loro occhi un passo indietro. Che la società industriale, tuttavia, distrugga le basi materiali che potrebbero permettere una successiva riappropriazione dell’esistente non sembra preoccuparli minimamente, dal momento che continuano a credere che le lotte attuali debbano puntare all’autogestione generalizzata etc.

Come sempre, dietro queste critiche c’è l’idea, più o meno esplicita, secondo la quale lo sviluppo tecnologico di una società è un processo neutro o, al massimo, subordinato esclusivamente agli interessi della classe al potere; basterebbe quindi che i consigli operai (o la “moltitudine”) si prendano in carico la situazione affinché la tecnica venga gestita in forma razionale. A questo si può replicare che la società industriale non tollera che un margine di gestione molto ristretto. Ad esempio, la gigantesca burocrazia non è una semplice escrescenza della società moderna, bensì un elemento fondamentale del suo funzionamento; per non parlare del fatto che l’attuale processo di divisone del lavoro crea un tipo di essere umano che non sa fare praticamente nulla, o quasi nulla, al di fuori del suo ridottissimo ambito lavorativo, di conseguenza sarebbe capace di “autogestire” solo le proprie attività… che nella maggior parte dei casi non possono esistere se non nel contesto della società capitalista. Infine, poco importa ai marxisti, malgrado la loro feticizzazione della Storia, che Marx ed Engels scrissero ne L’ideologia tedesca che “gli individui attuali debbono abolire la proprietà privata, perché le forze produttive e le forme di relazioni si sono sviluppate a tal punto da essere diventate, sotto l’imperio della proprietà privata, delle forze distruttive”[6]. Sono passati centosessanta anni da quando sono state scritte queste righe, ma ai marxisti di ogni sorta questo non interessa: una volta scoperta la pietra filosofale della critica sociale, cioè il fatto che viviamo in una società capitalista (o spettacolar-mercantile), non c’è null’altro da dire. Inoltre, ci sono quelli che si ostinano instancabilmente a salvare la teleologia di Marx, continuando a credere che “lo sviluppo delle forze produttive” continua a produrre, qua o là, le condizioni che permettono una rottura con l’esistente: al solito, come no, grazie all’informatica. Da qui la proliferazione di una vera e propria corrente di pensiero universitario (le cui teste pensanti più visibili sono Antonio Negri e Paolo Virno) che continua ad applicare alla lettera il principio del Manifesto del Partito comunista secondo il quale “le armi di cui la borghesia si è servita […] si ritorcono oggi contro la borghesia stessa”, etc. L’arma è in questo caso l’informatica, avatar postmoderno del general intellect marxiano.

Per quanto riguarda gli anarchici si può fare un discorso quasi analogo. È eloquente il fatto che essi non prendano in considerazione che un solo aspetto della questione dell’oppressione tecnologica, cioè l’aumento del controllo sociale attuato dalle nuove tecniche di vigilanza. Il dominio esercitato sulle nostre vite dallo sviluppo tecnico si riduce pertanto alle videocamere di sorveglianza, al programma Echelon[7], all’infiltrazione delle telecomunicazioni, etc. Sembra invece che sfugga loro il resto delle sottomissioni alla macchina industriale che conformano la quasi totalità della nostra vita quotidiana, a cominciare dall’onnipresenza dell’informatica, che è ancora più nociva proprio per la sua subdola immaterialità.

In secondo luogo, esiste una maniera di recuperare la critica dei danni inflitti dall’industrialismo riducendola a “un altro fronte di lotta”. Per molte persone, la devastazione causata dal capitalismo industriale non è che una strofa in più da aggiungere alla litania delle accuse contro il Sistema: no al fascismo, no al razzismo, no al patriarcato, no all’inquinamento, etc. L’importanza fondamentale del salto irreversibile compiuto da questa società è così ridotta al livello di un altro pretesto per giustificare il vittimismo. Inutile dire che questa visione aiuta moltissimo a dissimulare i danni i danni dell’ultramodernità; si veda per esempio l’infame analogia stabilita dagli hacker tra la “brevettabilità del vivente” e la “brevettabilità dei software”, come se le due cose fossero comparabili.

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Un’altra obiezione, molto più onesta delle precedenti, che viene sollevata contro la critica antiprogressista è che questa non risulterebbe molto attrattiva a causa del suo pessimismo. Più che di un’attitudine pessimista, bisognerebbe parlare di una realtà oppressiva: qualificare i Los Amigos de Ludd[8] per profeti di sciagura, come viene spesso fatto, equivale a voler uccidere il messaggero. Tornerò poi sulla questione delle “illusioni rinnovabili” (evocate in un libro pubblicato dall’EdN), d’altronde ho l’impressione che la critica antiprogressista abbia ancora delle cose da dire al riguardo. Sembra infatti che questa critica non abbia ancora concluso il suo sviluppo, restandogli da compiere un lavoro di demolizione (di idee saldamente assestate) che è ben lontano dall’essere giunto a termine. Il suo interesse sta esattamente nel rifiutarsi di fornire uno slogan demagogico o una ricetta riassumibile in quattro parole tanto per guadagnare dei proseliti. Per il momento è già abbastanza prezioso cercare di superare gli approcci manichei o vittimistici e far appello alla ragione delle persone piuttosto che alla loro pancia.

In quanto alle obiezioni da considerare a proposito della necessità di questa critica antindustriale, ne vado a enumerare qualcuna. È evidente, in primo luogo, che non tarderà a incontrare il suo limite. In effetti, poiché la sua analisi parte dalla constatazione che non esiste oggi alcun soggetto rivoluzionario, e che le circostanze rendono sempre più difficile che un tal soggetto possa costituirsi (e niente lascia pensare che questa tendenza debba invertirsi in un prossimo futuro), diventa necessario domandarsi: e allora, cosa fare? Al di fuori dell’iniziativa individuale, in cui ciascuno può capire cosa fare per conservare un minimo d’igiene mentale nei limiti concessi dalla camicia di forza industriale, quale spazio resta per l’attività politica? Secondo Kaczynski, la presa di coscienza che può nascere tra il momento presente e l’insorgere del “disastro” sarà decisiva per un futuro cambiamento sociale. Ma questa attesa di una catastrofe (sociale, ecologica, umana) assomiglia a una nuova variante dell’idea determinista della “battaglia finale”, com’era per il vecchio movimento operaio. Al contrario René Riesel, in Del progresso nella domesticazione, considera che “delle occasioni inaspettate di rovesciare il corso delle cose, foss’anche solo il tempo di un lampo, restano sempre possibili in un sistema così imprevedibile per se medesimo”[9]. (Vale la pena segnalare che non troppo tempo fa Riesel ha passato diversi mesi in prigione per aver partecipato a delle azioni di sabotaggio di prodotti transgenici).

Detto questo, è giusto riconoscere che il termine “società industriale” è molto ambiguo: a partire da quale momento possiamo dire di essere entrati in una società di questo tipo? È difficile proporre una data; nelle sue Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis[10], Jaime Semprun sostiene che “bisogna ammettere che nel corso del XX secolo, diciamo tra Hiroshima e Chernobyl, abbiamo attraversato uno spartiacque storico” e Riesel, nella sua opera citata, scrive che “Auschwitz e Hiroshima possono essere considerati allo stesso tempo come un risultato, una matrice e una chiave di comprensione dei benefici dello sviluppo tecno-economico”[11]. Possiamo dunque supporre (sempre a partire da osservazioni come quelle esposte, dal momento che nessuno dei critici ha proposto una definizione stringente) che la società industriale non si è instaurata agli inizi del XIX secolo con la cosiddetta Rivoluzione industriale, ma che ha dovuto attendere il XX secolo per consolidarsi; non solamente sviluppando le basi materiali che le hanno permesso di perpetuarsi come sistema esclusivo – cioè distruggendo i modi di vita preindustriale che, secondo Riesel, “permettevano di seguire altri cammini rispetto a quelli imposti dallo sviluppo industriale” –  ma anche modellando, parallelamente, gli esseri umani che vivono al suo interno. Se è così, è inevitabile giungere alla conclusione che la critica di questo sistema arriva troppo tardi. Come avviene anche ora, i presagi delle “Cassandre logiche”, che avvisano che non può esserci emancipazione possibile nel quadro della società industriale, non sono mai stati molto ascoltati e, salvo quale raro caso, non sono usciti dagli ambienti “radicali”[12].

Resta il fatto che il concetto stesso di “società industriale” pone qualche problema. Jacques Ellul, uno dei riferimenti fondamentali per la critica antiprogressista, lo rifiutava trovandolo “impreciso” e “privo di significato”[13]. È ovvio che a una realtà tanto difficile da definire non si riesca ad opporre un discorso teorico interamente coerente: ne Il fantasma della teoria, lo stesso Semprun sostiene che non esiste oggi alcuna teoria critica capace di indicare dei “punti di applicazione” sui quali agire. In queste condizioni, la suggestione formulata da Riesel di “riavviare il processo storico di umanizzazione” appare un po’ astratta. Questo concetto di “umanizzazione” merita di essere precisato[14]. Quando Semprun scrive che “l’umanizzazione iniziata è restata incompiuta e le sue fragili esperienze si disfano”[15] è evidente che egli non ha più in mente l’obiettivo rivoluzionario di una società senza classi, ma qualcosa di più elementare: il ristabilimento di condizioni minimali che rendano possibile un cambiamento, che non potrà aversi senza passare preliminarmente per un’epoca traumatica, nella quale ci troviamo già adesso. Mandosio, da parte sua, riconosce che l’obiettivo della deindustrializzazione è “molto vago”[16].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Ciò che questa critica del progresso (o delle diverse concezioni di progresso) sta prospettando è una revisione di molte idee date fino ad oggi per acquisite. La filosofia della storia di Marx, ereditata a sua volta da Hegel, stabiliva una progressione della storia umana divisa in preistoria, società schiavista, società feudale, società capitalista e società comunista. Se ammettiamo che il capitalismo ha distrutto tutte le vie di accesso a questa società senza classi, lo schema non funziona più. Eppure questo schema, che l’anarchismo fondamentalmente ha sempre condiviso, era coerente: di conseguenza, se togliamo il “mattone progressista” dell’edificio della critica rivoluzionaria “classica”, marcata in modo più o meno esplicito dal famoso “materialismo storico”, trema tutta la costruzione[17]. È auspicabile? Io rispondo categoricamente: sì.

Per il momento la critica del progresso riesce a porre le domande giuste, ma non dovrà in nessun caso aspirare a una mera crescita quantitativa. Non si tratta di inaugurare la moda dell’antindustrialismo, ma di stabilire una manciata di verità che possano servire a orientarsi di fronte a quello che verrà, che rimane imprevedibile. Nella postfazione scritta nel 2004 alla sua Storia di dieci anni dell’EdN, Miguel Amorós, che era stato membro di detto collettivo, dice che “quello che è ora urgente sono le tattiche di resistenza immediata, la circolazione delle idee, la salvaguardia del dibattito pubblico, le pratiche di solidarietà effettiva, l’affermazione della volontà sovversiva, la preservazione della dignità personale, la rottura con il mondo della merce, il mantenimento di un minimo di linguaggio critico autonomo…”[18]. Ma qui si mescolano attività personali con azioni più politiche e in quanto programma risulta decisamente ambiguo.

Ai suoi inizi, l’EdN attribuiva alle lotte di resistenza contro le nocività un ruolo più importante di quello che hanno poi realmente avuto; l’esperienza ha dimostrato che le lotte di questo genere non sono quasi mai riuscite a uscire dal quadro delle rivendicazioni concrete che le aveva fatte nascere. Si può dar la colpa di questo fallimento all’epoca, ma allora era senza dubbio sbagliato riporre troppe speranze nelle possibilità di queste lotte “contro le nocività”. L’EdN, che partiva dalla critica formulata dall’Internazionale situazionista nella sua ultima fase (“i primi frutti del superamento dell’economia non solo sono maturi: hanno incominciato a marcire” e “l’inquinamento e il proletariato sono oggi i due aspetti concreti della critica dell’economia politica”[19]) vedeva senza dubbio nella lotta contro le nocività la nuova necessità storica che avrebbe retto le future lotte contro il dominio. Ad ogni modo, con la prospettiva vantaggiosa della distanza, vediamo che non è stato così: questo sistema ha fatto della devastazione la norma e ha creato un genere di umanità che aspira soltanto ad adeguarsi ad essa. Forse aveva ragione Ulrich Beck quando diceva ne La società del rischio che l’estensione generalizzata delle nocività industriali “non genera un’unità sociale visibile per se stessa e per gli altri”, né “niente che possa organizzarsi in strato, gruppo o classe sociale”[20].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Un disfattismo illuminato?

Tornando al tema centrale del presente articolo: quale futuro ha questa critica? Spesso è stata accusata di essere un “disfattismo illuminato”. Quando questa accusa è in buona fede non è del tutto priva di fondamento, nel senso che la critica antiprogressista non procede da una visione teorica unitaria e positiva della critica sociale. Nondimeno, nell’attuale disfatta di tutto ciò che lasciava aperta una possibilità di cambiamento sociale, mantenere vivo il linguaggio della critica non è cosa da poco, sebbene bisogni riconoscere che la prospettiva di essere il testimone più lucido dell’affondamento del sistema industriale non è che una magra consolazione.

Ricordiamoci che una delle tesi fondamentali degli “anti-industriali” è che la società attuale ha ridotto quasi a zero le possibilità di intervento politico[21]. Quello che prospettano è chiaramente un ripiego, o un riarmo, che non vuol dire rimanere in casa a braccia conserte, ma resistere ai canti delle sirene dell’attivismo spettacolare e dedicarsi a una riappropriazione dei saperi sottratti dal capitalismo o partecipare a delle lotte concrete quando si presentano le condizioni adeguate: penso in particolare al caso della “Prestige” quando di fronte alla marea trionfante della piattaforma “Nunca máis” non si alzò fermamente quasi nessuna voce contro tanta ingenuità; si dirà che non poteva andare in altro modo, ma non lo credo. Mi sembra piuttosto che le persone più coscienti non abbiano osato sfidare l’idea condivisa dalla maggioranza, secondo la quale bisognerebbe sollecitare una maggior efficacia nella gestione tecnica dei disastri industriali[22]. E potrei citare molti altri esempi analoghi. Tocchiamo così quel limite di cui parlavamo prima: Miguel Amorós afferma nel testo sopra citato che “nel migliore dei casi la critica rivoluzionaria c’è già arrivata, e nel peggiore, sarà lo stesso se ci arrivi o meno”[23].

È innegabile che molte pratiche che vogliono essere sovversive incorrano nel volontarismo: quali che siano le condizioni in cui si sviluppano, delegano ogni possibilità di successo o di sconfitta allo slancio attivista, con le conseguenze che sappiamo. Evidentemente, la critica antindustriale parte dalla rinuncia all’idea di rivoluzione o, per meglio dire, della possibilità di rivoluzione nel momento attuale. Credere che una rivoluzione possa aver luogo oggi, come fanno gli “altermondialisti” più allucinati, è un’idea reazionaria. Malgrado tutto, è difficile che una tale attitudine si riveli attraente per qualcuno. In un libro recente, Nel calderone del negativo, Mandosio parla dell’illusione rappresentata dall’idea secondo la quale basti che la società industriale cambi di mano perché si metta al servizio dei bisogni umani, sostenendo che il desiderio di universalizzare i privilegi materiali che questa società offre oggi solo a qualcuno è uno dei pilastri che ne garantisce la sopravvivenza. Stando così le cose, è difficile che un cambiamento sociale che implichi una rinuncia alle comodità che, lo si voglia negare o no, la devastazione dell’ambiente offre a pochi, possa apparire desiderabile a molti. E io non sto parlando qui delle masse inebetite che vanno in macchina all’Ikea a sprecare quel poco che guadagnano; chi più, chi meno, siamo tutti prigionieri della società industriale che ci veste, ci distrae e ci riempie la pancia; con dei surrogati, certo, ma avendo eliminato la possibilità di farlo in altro modo.

Sembra assai poco probabile che la critica antindustriale riesca a svegliare gli entusiasmi se non offre anche un sogno al quale aderire (è quello che fa il primitivismo, fabbricando a misura di ciascuno uno “stato di natura” che permette di sognare); ma il problema è che lo scopo di questa critica è precisamente di demolire tutte le illusioni. Il tempo dirà se la prospettiva della deindustrializzazione è solo una chimera in più o se detiene qualche possibilità di realizzarsi.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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[1] Unabomber è il nome dato dalla stampa statunitense all’autore di diversi attentati compiuti tra il 1978 e il 1995 contro importanti rappresentanti della società tecnologica.

[2] Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997.

[3] Jean-Marc Mandosio Après l’effondrement. Notes sur l’utopie néotechnologique, Parigi, EdN, 2000, p. 204.

[4] Jaime Semprun, Le fantôme de la théorie, in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a Réné Riesel e J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Parigi, EdN, 2008. Trad. it.: <https://enoizapicname.files.wordpress.com/2013/04/il-fantasma-della-teoria.pdf>.

[5] Non possiamo fare a meno di notare, di passaggio, il fatto incontestabile che la critica ecologista non è nata negli ambienti anarchici o marxisti, gli uni e gli altri così impregnati, nella loro maggior parte, dal mito del progresso, ma negli ambienti che essendo politicamente più timorati erano però più sobri nella loro visione del mondo, come ad esempio il bioregionalismo e altre correnti ecologiste degli anni Cinquanta e Sessanta. È d’altra parte chiaro che stiamo generalizzando: storicamente ci sono stati sia marxisti che anarchici che non si sono arresi alle promesse del progresso

[6] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Libro 1, III, Nuovo Testamento: ‘Io’, 6 (Il cantico dei cantici o l’Unico).

[7] Per Rete Echelon si intende un sistema interstatale di sorveglianza e intercettazione di comunicazioni pubbliche e private.

[8] Gruppo anti-industrialista spagnolo, editore dell’omonima rivista «Los Amigos de Ludd. Boletín de información anti-industrial», uscita in 7 numeri tra 2001 e 2004.

[9] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, in Id., Sulla zattera della medusa, Torino, 415, p. 223.

[10] J. Semprun, Notes sur le Manifeste contre le travail du groupe Krisis in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a R. Riesel, J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, cit.

[11] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, cit., p. 215.

[12] Cf. Jean-Marc Mandosio, Nel calderone del negativo, Torino, 415, 2005, p. 114.

[13] Kaczynski disse di aver trovato assolutamente entusiasmante il libro di Jacques Ellul, La tecnica: rischio del secolo (1954), che lesse agli inizi degli anni Settanta.

[14] La prima parte de Il mito della macchina di Lewis Mumford contiene il miglior tentativo di definizione del concetto di “umanizzazione”.

[15] J. Semprun, L’abisso si ripopola, Milano, Colibri, 1999, p. 76.

[16] J.-M. Mandosio, Nel calderone del negativo, cit., p. 116.

[17] A meno che non si voglia vedere nella catastrofe attuale la realizzazione di un’idea enigmatica del Manifesto su cui Marx ed Engels non sono più ritornati, cioè che la lotta di classe si possa concludere “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”, questa volta in senso letterale (K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, I Borghesi e proletari). L’EdN difatti, seguendo Hannah Arendt, parla della dissoluzione delle classi sociali nelle masse…

[18] Miguel Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos: esbozo para un cuadro histôrico de los progresos de la alienaciôn social, Madrid, Klinamen, 2005, p. 81 (Histoire de dix ans è originariamente pubblicata in «Encyclopédie des nuisances», n. 2, feb. 1985).

[19] Tesi sull’Internazionale situazionista e il suo tempo, in Internazionale situazionista: la vera scissione, Roma, Manifestolibri, 1999, par. 8 e 17.

[20] Ulrich Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000.

[21] “La formidabile organizzazione tecnica dell’attuale società nega che possa prodursi una messa in moto rivoluzionaria”, si legge in La fine di un’epoca («Los Amigos de Ludd», n. 7, giu. 2004); questo testo fa eco all’articolo intitolato L’inizio di un’epoca, con il quale si apriva l’ultimo numero della rivista «Internazionale situazionista» (n. 12, 1969) pubblicato dopo gli eventi del maggio 1968.

[22] Cfr. Los Amigos de Ludd y Los Enemigos del mundo industrial, Disastro della Prestige o disastro della coscienza; Prestige: i segreti dell’adattamento moderno, Bologna, Acrati, 2004 (entrambi i testi, uniti a una autointervista a Los Amigos de Ludd, anche in A proposito del naufragio della petroliera “Prestige”, Bologna, La mala erba, 2003).

[23] M. Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos, cit., p. 81.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017.
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017.

Alcune questioni preliminari molto pratiche (#10)

Alcune questioni preliminari molto pratiche
Di Jacques Philipponneau

Il 5 giugno 1999, José Bové, René Riesel e Dominique Soullier nel corso di una campagna contro l’ingegneria genetica, sabotavano i lavori sugli Organismi geneticamente modificati (OGM) effettuati al Centro di cooperazione internazionale in ricerca agronomica per lo sviluppo (CIRAD) di Montpellier. L’intera questione del sabotaggio e del successivo processo è stata letta e affrontata da due prospettive contrastanti: mentre da un lato c’è stato chi ne ha fatto un esempio mediatico di battaglia popolare (“cittadinista”) volta a richiedere maggiore trasparenza, partecipazione, tutela statale e, in definitiva, a raggiungere una pacificante cogestione delle nocività presenti e future, dall’altro lato Riesel ha cercato di affermare la lotta contro gli OGM come una tappa nella costruzione di un’opposizione veramente radicale alla società dominante. A partire da questa vicenda, Philipponneau ha proposto alcune questioni preliminari che potessero fornire una base minima di discussione all’interno del Comitato di sostegno a René Riesel. Si tratta, come dice l’autore, di “banalità di base” utili da riaffermare “per non ricadere in quel continuo riproporre questioni che finge di riscoprire eternamente dei fondamenti critici già chiari da lungo tempo”.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Il quadro della situazione contemporanea non pare dei più felici e la riflessione di Philipponneau non fa sconti. Infatti, dopo l’ultimo assalto al cielo del Sessantotto e delle lotte sociali del decennio successivo, sembra che le nuove generazioni manifestino una crescente difficoltà anche solo a immaginare quella che una volta veniva chiamata “rivoluzione sociale”. Per volare più basso, sarebbe già qualcosa avere una visione lucida dei falsi bisogni generati dalla società industriale, più che dalle necessità della vita. E porre in discussione le coordinate di base di questa società, stadio attuale del capitalismo, con tutti i suoi veleni e le sue devastazioni ambientali e sociali, per cominciare a chiedersi, intanto, in quale mondo desideriamo vivere e come sia una vita degna di essere vissuta, fuori dalla scolarizzazione istituzionale, dal lavoro, dall’economia mercantile e dalla politica dei palazzi, sperimentando le vie per metterla in pratica qui e ora. Soprattutto, è necessario mantenere vivi e aggiornati gli strumenti critici che ci potranno far affrontare quelle eventuali crisi rivoluzionarie che speriamo allietino il prossimo futuro, anche se al momento non ci è dato intravedere da quale scintilla potranno originarsi.

D’altra parte, il fatto che la rivoluzione non sia ineluttabile non è un buon motivo per scoraggiarsi: “diciamolo chiaramente – scrivono Bertrand Louart e Fabien Palisse – per noi la rivoluzione potrebbe anche non avere luogo, ed è il fatto stesso di guardare in faccia e prendere freddamente in considerazione questa eventualità che sta alla base della nostra attuale riflessione e della nostra attività. La questione, d’altra parte, non è di sapere se la rivoluzione avrà luogo o no, mentre noi ci siamo ancora o no, ma piuttosto di sapere come, con le nostre modeste forze e nelle circostanze attuali particolarmente sfavorevoli, possiamo operare per fare in modo di mantenere vivi e restituire una certa popolarità ai valori legati al progetto di emancipazione individuale e sociale. Quella che motiva la nostra attività in questo senso, non è dunque la certezza che la rivoluzione arriverà un giorno, quanto la nostra adesione ai valori che fondano il progetto rivoluzionario. E abbiamo la presunzione di credere che possiamo tentare di cominciare a vivere secondo questi valori qui e ora, che è anche il principale mezzo per mantenerli vivi, cioè attraverso la loro sperimentazione pratica, e così trasmetterli, esplicitarli, rinnovarli e assicurare loro una certa diffusione” (Bertrand Louart e Fabien Palisse, À propos de quelques grognements et aboiements…, luglio 2001).

Nel tratteggiare la situazione disastrosa del testo presente, Philipponneau lascia comunque aperti degli spiragli di fiducia. Individualmente e collettivamente non sono ancora del tutto chiuse le possibilità di riprendere in mano il senso del proprio stare al mondo. Certo, se si vuol tentare di annodare i fili di una diversa organizzazione sociale, che rispetti le relazioni tra i viventi e i loro territori e non corra a capofitto verso la catastrofe, sarà indispensabile far propria una critica radicale di questo mondo, senza impantanarsi nelle sabbie mobili di quel cittadinismo interessato a partecipare allo sviluppo più o meno sostenibile alternando conflitto e collaborazione con le istituzioni. Non tutto, quindi, è perduto, sebbene a distanza di quindici anni dalla stesura di questo testo non ci sembra siano stati fatti grossi passi in avanti. Eppure, come ha scritto Riesel, “constatare che la guerra è totale e che le nostre posizioni sono fragili non significa dipingere il quadro a tinte fosche. Non sembra possibile scurirlo più di coloro che non hanno nient’altro da offrirci che la ristrutturazione delle rovine” (René Riesel, “Sulla zattera della Medusa”, Torino, Quattrocentoquindici, 2004, p. 11).
Le note al testo sono nostre.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

1) Abbiamo globalmente assistito, da trent’anni a questa parte, a una regressione (qualitativa e quantitativa) della contestazione dei fondamenti di questa società?

2) Lo sviluppo e l’estensione della società di massa non hanno compromesso sempre più le condizioni materiali di elaborazione di una coscienza critica che non fosse rudimentale né spettatrice?

3) Se si pensa che l’esistenza di comunità pre- o anti-capitalistiche (oppure pre- o anti-industriali) sia la condizione sine qua non della costituzione e dello sviluppo durevole di una coscienza critica attiva, ma d’altra parte si constata ogni giorno la loro evanescenza o il loro sradicamento, fare come se questo processo potesse ribaltarsi rapidamente non è forse indicatore di una speranza slegata dalla realtà o di una routine militante; cioè, di una forma o l’altra di pigrizia intellettuale?

4) Possiamo sperare, ammettendo tutto questo, che la degradazione delle condizioni di vita sociale e biologiche a livello planetario e l’incapacità manifesta della società industriale a risolvere i problemi che ha creato possano produrre a breve termine una coscienza critica diffusa che colga un giorno l’occasione di esprimersi tanto improvvisamente quanto radicalmente?

5) Questa ipotesi (che si basa sul precedente del Maggio ’68 francese) che presuppone in proporzioni variabili il mantenimento astorico di una coscienza di classe nelle masse atomizzate, una permanenza della “soggettività radicale” in individui profondamente alienati o una tendenza eterna dell’umanità a ricercare la libertà, non è anch’essa una forma di consolazione senza prospettive?

6) In cosa l’esperienza delle diverse opposizioni agli OGM nel corso di questi quattro ultimi anni fa luce sulle questioni precedenti?[1]

7) In breve, se si condividono più o meno queste domande-constatazioni, cosa pensiamo di poter fare delle nostre idee nel prossimo futuro, diciamo nei prossimi dieci anni?

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Nessuna forza sociale significativa, opposta ai valori fondamentali di questa società, si è costituita in nessuna parte del mondo dalla fine degli anni Settanta. Questa assenza impedisce alle minoranze realmente ostili al capitalismo, allo Stato e all’alienazione tecno-industriale, di sperare di intervenire in maniera decisiva sull’andamento del mondo in un prossimo futuro.

È certamente la realtà materiale del sistema di bisogni sviluppati dalla società industriale che modella l’insieme dei rapporti sociali, fino a sradicare la possibilità per la coscienza di rimetterli in discussione. Questo sistema di bisogni è congegnato come l’insieme delle produzioni materiali, organizzative e ideologiche necessarie alla riproduzione della società. Non tutte queste dipendono dalle strette necessità della redditività capitalistica ma sono molto più, fondamentalmente, una visione del mondo che si realizza utilizzando i molteplici mezzi di una mega-macchina sociale equipaggiata dalla tecnoscienza: economici, mediatici, amministrativi, militari, polizieschi, etc.

Nel sistema di necessità artificiali in cui viviamo e di sovrasocializzazione[2] che è ad esso legata, le nozioni di libertà individuale e di autonomia collettiva sulle quali si fondavano i progetti di emancipazione sociale sono progressivamente svuotate del loro contenuto e presto diventeranno impensabili. È per questa impossibilità crescente, piuttosto che per la semplice coercizione, che questa società diventa totalitaria.

Ma il risultato a cui tende questa società totale (poiché mondiale e unificata) è che non esista più niente al di fuori di essa. Né realtà, né critica, né parametri di confronto e presto nemmeno più ricordi.

Questo programma di sradicamento dovrebbe designare, a contrario, quello di coloro che coerentemente si oppongono a tale sistema.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Dal momento in cui questa società non conosce più una seria opposizione è entrata in una crisi da cui non uscirà più: la degradazione della natura (in tutte le accezioni del termine, fino all’integrità psico-fisiologica dell’uomo) e la disintegrazione sociale costituiscono, che lo si voglia o meno, la questione universale del nostro tempo.

Se non si sono mai visti movimenti sociali lottare contro delle astrazioni teoriche quanto, piuttosto, contro le condizioni concrete dell’alienazione della loro epoca, è altrettanto vero che non s’è mai vista una significativa trasformazione sociale senza che prima la battaglia delle idee non sia stata persa dai sostenitori della vecchia società. E quindi risulta inconcepibile un mero auto-collasso ideologico del sistema che accompagni quello della sua realtà materiale. Poiché l’abbruttimento individuale e collettivo non ha alcun limite conosciuto e non ci sarà salvezza assicurata dall’apocalisse.

L’esito di una simile battaglia di idee implica che dei valori positivi si siano affermati e che siano stati messi in pratica su larga scala contro i valori precedenti. Ma dobbiamo riconoscere che è in maniera frammentaria e occasionale che quei valori sui quali possiamo fare leva vengono affermati o praticati. Come, ad esempio, quello che consideriamo come il successo, malgrado tutte le sue insufficienze, della lotta contro gli OGM: l’aver messo sulla pubblica piazza questioni come il senso della completa rottura con la natura causata dal progresso tecnico o il ruolo dell’ideologia scientifica nel processo d’asservimento alla società totale.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Ma se anche questi valori non vincessero mai, abbiamo il dovere di assicurare la loro persistenza per il nostro tempo sulla terra, perché è così che amiamo vivere, nonché di trasmetterli ai posteri, come altri lo hanno fatto prima di noi.

Il compito classico di distruggere l’ideologia dominante, i suoi valori e il suo sistema di giustificazione, se è oggi d’attualità, è reso ben più difficile dalla scomparsa dei contesti in cui una coscienza critica attiva poteva trovare le sue condizioni materiali di esistenza.

La gran parte della popolazione dei paesi industrializzati è atomizzata e rimbambita da mezzo secolo di incessanti trasformazioni tecnologiche. Non riesce a reagire alla degradazione reale delle sue condizioni di vita se non domandando allo Stato maggiore protezione, come fanno in maniera apparentemente contraddittoria ma fondamentalmente identica il cittadinismo[3] e l’innegabile deriva verso regimi securitari.

A questa richiesta “politica” soddisfatta dalla cooptazione del cittadisimo, inteso quale coscienza morale volontariamente impotente, e dalla messa in opera pragmatica di un controllo sociale che si sogna assoluto, corrisponde una fuga nel consumo di protesi tecniche o chimiche, palliativi per la scomparsa di ogni vita sociale autonoma e per il crollo della personalità che l’accompagna.

Questo gregge cieco[4] costituisce inoltre la massa di manovra ideale di tutte le manipolazioni che saranno rese necessarie dalle brutali disfunzioni del sistema: crisi economiche o finanziarie, catastrofi industriali, anarchia geopolitica, barbarie sociale generalizzata.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Se è vero che ogni rivoluzione richiede che dal basso la grande maggioranza rifiuti di continuare come prima, spinta dalle necessità della sopravvivenza e dal dinamismo del proprio progetto sociale, mentre in alto non si possa più governare come prima perché i valori del dominio sono moribondi, dobbiamo riconoscere che nessuna di queste condizioni è presente. In altre parole, siamo solamente all’inizio di questa spirale regressiva.

La colonizzazione operata dalla società industriale sulla vita quotidiana non è una figura retorica ma una realtà travolgente ed è proprio perché si è totalmente realizzata che adesso merita pienamente il suo nome. Ed è proprio l’incarcerazione nei rapporti sociali necessari a questo sistema di bisogni che produce, attraverso il sentimento d’impotenza e la totale dipendenza che questa comporta, la passività pratica e intellettuale dei nostri contemporanei.

Se si accettano questi bisogni e la loro soddisfazione, non si ha alcuna ragione di ricusare questa società, che ne è la forma appropriata così come la loro matrice. Tutt’al più si può domandare allo Stato o alle istanze sovrastatali una produzione più responsabile e una redistribuzione più equa. Per chi si considera per sempre legato a un tale mondo, senza speranza di uscirne, è tutto assolutamente legittimo. Ecco la fonte di tutte le forme di cittadinismo, che rende vane le recriminazioni contro questo moderantismo[5] e inadeguate le accuse di recupero da parte del sistema.

Chi guarda queste realtà con sguardo freddo non può che rabbrividire di fronte alla fragilità della causa della libertà e convincersi che è innanzitutto in lui stesso, nella sua vita individuale e in una realizzazione collettiva, qui e ora, che può fondarla.

Voler uscire dagli attuali rapporti sociali senza demolire questo sistema di bisogni non ha alcun senso, né teoricamente né praticamente. Vale a dire che un’opposizione efficace a questa società non avrà concretezza che quando un numero sufficiente di persone avranno rotto, nella misura del possibile, intellettualmente e materialmente con i suoi valori e le sue false necessità: la questione sociale non è mai stata altra cosa che quella del senso della vita.

È sulla critica di questa vita mutilata che può farsi la distinzione tra coloro che accettano i suoi valori fondamentali (mercificazione, tecnificazione, meccanizzazione, isolamento tecnico, gusto del simulacro, fuga nella rappresentazione, etc.) e coloro che li respingono. Dalla formazione o meno di questa linea di demarcazione dipenderà la nascita di un nuovo progetto di emancipazione oppure l’immersione in una barbarie inedita.

Tuttavia, l’ideologia del progresso tecnico, la mercificazione di ogni rapporto sociale, l’industrializzazione della totalità dell’esistenza cominciano ad essere rimesse in discussione, dopo un lungo occultamento, anche al di fuori del ristretto ambito sopravvissuto dai movimenti radicali degli anni Sessanta e Settanta. Non sorprende che in un primo tempo questa critica sia parziale, riformista, piena di illusioni, tutto dipende da cosa diventerà nei prossimi anni. Ed è qui, naturalmente, che il lavoro critico propriamente teorico conserva tutto il suo classico ruolo di motore, stimolo e denuncia della pseudo-critica.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

D’altra parte, se parlare di un progetto di emancipazione sociale ha ancora un senso, vuol dire che la necessità di tirarsi fuori dall’insieme crescente di costrizioni tecniche e sociali prodotte dalla società industriale, non si riduce a un seducente progetto intellettuale ma può diventare un bisogno sociale di massa.

Sappiamo almeno che lo è in senso negativo. Sotto una forma ormai patologica, il bisogno non reprimibile di fuggire dalla materialità della vita quotidiana attraverso le realtà virtuali, le droghe e i disturbi psicologici relega la ricerca compulsiva del divertimento e il turismo di massa al rango di inoffensive nevrosi della nascente società dello spettacolo.

È questa specie di scommessa che siamo costretti a fare che ci tiene lontani da ogni forma di gauchismo rifatto, che recita incessantemente le stesse verità morte, poiché inutilizzabili, sul capitalismo, la globalizzazione, l’egemonia americana o il pericolo fascista. Realtà o fantasmi che restano in ogni modo fuori dalla portata della magia della parola e della vuota indignazione.

Al contrario, se la lotta di questi ultimi anni contro l’ingegneria genetica ha avuto una tale risonanza, è stata una tale boccata d’aria fresca, è perché si è manifestata laddove non la si attendeva, su un terreno molto concreto, con un obiettivo realistico. Perché è stata innescata da dei protagonisti più o meno oscuri ma che nel corso di questi anni di riflusso avevano saputo costruire basi solide per la loro autonomia materiale e intellettuale. E perché, infine, malgrado la confusione seminata in maniera più o meno interessata da un cittadinismo che si andava ancora definendo, sono due concezioni della vita, in tutti i sensi, che hanno conosciuto lì il loro primo scontro. È in queste schermaglie che le idee diventano pratiche, si affinano e si diffondono.

La società industriale compiuta appare tutto tranne che stabile, costretta dalle sue necessità interne a sconvolgere senza sosta le condizioni di vita, non può che aprire in maniera imprevedibile delle occasioni di conflitto, dovute a esiti fuori controllo o a minacce tangibili su quello che resta di stabile in un mondo divenuto ostile.

Si può dire che è sul cambiamento che si indirizza il potenziale conflitto sociale della nostra epoca, ma è innanzitutto insorgendo contro tutti i cambiamenti imposti dalla società attuale, portatori di degrado e riduzione della condizione umana, che si può prendere coscienza dei bisogni essenziali per una vita degna di questo nome.

In certe circostanze estreme, il progetto di reinventare la vita si semplifica considerevolmente. In Cabilia o in Argentina[6], per cause molto diverse, intere popolazioni sono state costrette a riprendere in mano le condizioni della loro esistenza, la prima delle quali è il dialogo sociale senza mediazioni e la capacità di ritrovare forme di organizzazione non gerarchiche. Quello che diventeranno simili tentativi getterà luce su una questione fondamentale della nostra epoca: la capacità dell’umanità, plasmata all’incoscienza storica e all’irresponsabilità sociale, di riprendere in mano il proprio destino.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

Simili problemi, su questa scala, non sembrano doversi porre in un prossimo futuro nelle necropoli dell’alienazione che sono diventati i paesi industriali europei. La combinazione di una piramide demografica che propende decisamente verso il silenzio dei cimiteri, come dimostrazione genetica dell’assenza di futuro, l’effetto della divisione mondiale del lavoro che allontana dagli occhi il suo lato concreto, sporco e conflittuale, la fabbrica, e la disintegrazione sociale delle vecchie classi pericolose, tutto fa pensare che i prossimi importanti conflitti non si svolgeranno qui. A meno che non si condividano i pronostici di umoristi radicali secondo i quali l’alienazione assoluta provoca immancabilmente una rivolta assoluta e che attendono dunque la realizzazione dell’arte e della filosofia nelle piazze delle periferie, da loro non frequentate.

La resistenza in queste condizioni deve prepararsi a durare e poiché ha poco da aspettarsi da questa società, essa deve tendere a conservare laddove possibile e a ricreare laddove non ci sono più le condizioni di una secessione attiva.

Quali saranno le sue forme è troppo presto per dirlo visto che malgrado qualche tentativo si tratta, per ora, più di una necessità, sebbene abbastanza condivisa, che di una realtà. Si può solamente dire quali non saranno: militanti o comunitarie sul modello degli anni Settanta. Se si possono trovare nel passato delle forme di resistenza offensiva più realistiche è piuttosto verso i circoli di pensiero del XVIII e XIX secolo, le associazioni di mutuo soccorso, le riappropriazioni individuali o collettive di saperi dimenticati o di forme di collettività più organiche, agricole o artigianali, che bisogna guardare.

Ad ogni modo, se questa tendenza si conferma, è soprattutto il lato sperimentale più che i riferimenti storici, la necessità più che l’astrazione di un progetto epocale a lungo termine, che saranno i motori della fondazione durevole di un arcipelago di oasi nella società in decadenza.

Il lato felicemente imprevedibile della storia dirà allora se tutto questo sarà servito solamente a preservare delle forme residuali di umanità o se si sarà trattato di uno dei trampolini provvisori necessari a una ripresa del processo di umanizzazione interrotto brevemente dall’industrializzazione del mondo.

Jacques Philipponneau, membro della rivista «Encyclopédie des Nuisances». Maggio 2002.

Fa Maschere - Urbino. Foto di Laura Rapone
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone

[1] Sul sabotaggio al CIRAD e, più in generale, sulla lotta all’agricoltura transgenica e le sue opposizioni si veda René Riesel, Sulla zattera della Medusa. Il conflitto sugli OGM in Francia, [Torino], Quattrocentoquindici, 2004.

[2] Sovrasocializzazione: “Gli psicologi usano il termine socializzazione per designare il processo con il quale i bambini sono addestrati a pensare e agire come la società richiede. Si dice che una persona sia ben socializzata se crede e obbedisce al codice morale della sua società e se vi si inserisce bene come parte funzionante di essa. […] Alcune persone sono così altamente socializzate che il tentativo di pensare, sentire e agire moralmente impone loro un pesante aggravio. Per evitare sensazioni di colpa devono continuamente illudersi sulle proprie motivazioni e trovare spiegazioni morali per sentimenti e azioni che in realtà non hanno una origine morale. Noi usiamo il termine sovrasocializzato per descrivere tali persone”. Théodore Kaczinsky, Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997, p. 17 [punti 24 e 25].

[3] Cittadinismo: Il termine cittadinismo, di derivazione francese, “indica un movimento composto da un vasto e multiforme arcipelago di associazioni, sindacati, collettivi, organi di stampa e correnti politiche, il cui scopo è battersi per il ripristino della «democrazia tradita». Il fatto che il nostro pianeta si trovi allo stremo, dal punto di vista sociale, politico, economico ed ecologico, oggi non è un mistero per nessuno. La causa di questa situazione viene fatta risalire dai cittadinisti al mancato rispetto della «volontà popolare» la quale – una volta caduta nelle mani di politici assetati solo di potere in combutta con affaristi avidi solo di profitto – si ritroverebbe disattesa, manipolata, rinnegata. Nemici di quei politici e di quegli affaristi (più che del sistema sociale di cui costoro sono espressione), i cittadinisti sono persuasi che la democrazia – nella sua forma più genuina, più rustica – sia effettivamente il migliore dei mondi possibili e che sia possibile migliorare e moralizzare il capitalismo e lo Stato, opponendosi con efficacia alle loro più palesi nocività ed abusi. A due condizioni però: che questa democrazia si esprima attraverso una rinata politica che abbia come modello più l’Atene di Pericle che la Firenze di Machiavelli, ovvero con una maggiore partecipazione diretta dei cittadini, i quali non solo devono eleggere i loro rappresentanti ma devono altresì agire costantemente per fare pressione su di essi affinché applichino davvero ciò per cui sono stati eletti. Questa pressione può venire esercitata nelle maniere più disparate, senza escludere quegli atti di «disobbedienza civica» che tanto fiele fanno sbavare ai reazionari più beceri e tanta ammirazione suscitano all’interno del movimento. […] Sentendosi trascurati, i cittadinisti si vedono costretti a scendere in piazza per difendere i propri «diritti». Le loro lotte hanno sempre obiettivi precisi, si limitano a dire un secco NO a un determinato progetto statale che mette in pericolo la propria salute, senza minimamente voler mettere in discussione l’organizzazione sociale che l’ha prodotto. Le istanze radicali, le tensioni sovversive, non li riguardano minimamente.”. Individui o cittadini?, «Machete», n. 1, gen. 2008, p. 6.

[4] Nel testo originale: troupeau aveugle, dal titolo del libro di fantascienza di John Brunner, Le troupeau aveugle (1972), tradotto in italiano: Il gregge alza la testa (Milano, Nord, 1975).

[5] Moderantismo: posizione dei moderati, termine introdotto durante la Rivoluzione francese.

[6] Sull’insurrezione in Cabilia (regione dell’Algeria) del 2001-2002 si vedano: Groupe Communiste Internationaliste, Ulach smah! Nessun perdono! Notizie dall’insubordinazione algerina, Porfido, Torino, 2002 e Jaime Semprun, Apologia per l’insurrezione algerina, Alcuni amici italiani degli Aarch, Bologna, 2002. Sulle rivolte nell’Argentina travolta dalla crisi economica si veda: Raccolta di materiale sull’Argentina: dicembre 2001-gennaio 2002, [S.l., s.n., 2002].

Le maschere in foto sono realizzate da  Fa Maschere
www.facebook.com/famaschere
Serie fotografica di Laura Rapone

Tutto va malamente

malamente vanno le cose, in provincia e nelle metropoli
malamente si dice che andranno domani
malamente si sparla e malamente si ama
malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione
malamente si lotta e si torna spesso conciati
malamente ma si continua ad andare avanti
malamente vorremmo vedere girare il vento
malamente colpire nel segno
malamente è un avverbio resistente
per chi lo sa apprezzare.

 Ancona, 14 novembre 2012 - Uova di vernice contro la sede della Banca d Italia

Ancona, 14 novembre 2012

Tutto va malamente, si direbbe in questi tempi, ma a ben guardare non sempre la cose vanno male per noi, a volte una lotta riesce a colpire malamente, ad aprire crepe nei muri e nelle catene che tengono imprigionate le vite e i desideri di chi è oppresso e sfruttato. L’incertezza e la crisi di questi tempi sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano.

Vogliamo realizzare una rivista che nasce e intende mantenersi trasversale a diverse sensibilità e percorsi politico-culturali. Non sarà, quindi, diretta espressione di nessuna area politica, ma raccoglierà contributi dei vari gruppi, comitati, associazioni e individualità che vivono e operano sul territorio delle Marche, tra l’Appennino e la costa.

«Malamente» terrà insieme l’approfondimento e l’informazione, ma sarà anche uno strumento di comunicazione e di collaborazione. Le uscite periodiche potranno infatti dare continuità agli interventi politici, sociali e culturali espressi sul territorio, aggregando attorno al progetto editoriale diversi soggetti i cui percorsi si sono spesso incrociati rimanendo però a livello di convergenza episodica, anche perché privi di un canale strutturato quale la rivista intende appunto essere.

Le sue pagine, d’altra parte, non temeranno il confronto delle posizioni e il dibattito interno che potrà svilupparsi.

La rivista deve nascere dal basso, da quella buona parte della società che rifiuta il modello di sviluppo vorace, oppressivo e umiliante in cui viviamo, per cercare di aprire in ogni ambito del quotidiano nuovi spazi in cui sperimentare una trasformazione rivoluzionaria della società. Ciò che non vogliamo è replicare l’ennesimo spazio identitario legato ad una sub-cultura rivolta su se stessa. Inoltre, siamo consapevoli che una visione emancipatrice e rivoluzionaria delle lotte sociali non può essere calata dall’alto in basso come criterio di descrizione ideologica della realtà. Lo spirito del camminare domandando zapatista ci spinge a osservare, ascoltare, dialogare con gli individui e le collettività e con le loro contraddizioni. Una prospettiva rivoluzionaria non può vivere nell’isolamento di una minoranza ma deve provare a leggere la realtà con un senso comune maggioritario e plurale. La rivista vuole dunque promuovere fin dalla scelta del linguaggio, della grafica e delle relazioni che può costruire, una lettura delle possibilità di trasformazione a partire dalla “normalità”. Uno stile vivo e interessante, inteso come il colore e il ritmo della comunicazione e del linguaggio, è un veicolo potente di comunicazione e di incontro.

È nostra intenzione partire da una descrizione territoriale dei fatti che vogliamo raccontare, senza ridurci ad essere un raccoglitore sporadico di notizie e comunicati ma diventando uno spazio di approfondimento e discussione. Spesso infatti, chi vive in provincia corre il rischio di non riuscire a cogliere quanto la dimensione locale delle contraddizioni e delle lotte sia immediatamente collegata ad una dimensione più ampia. Assumere come naturali i confini e le gerarchie costruite dagli Stati e dal sistema economico significa accettare il campo di relazioni costruito dal potere. Le lotte, invece, possono e devono costruire le proprie nuove geografie.

Come si è detto, le porte saranno aperte alla collaborazione di molti soggetti che si dovranno relazionare in modalità antiautoritarie e libertarie, mantenendo alcuni punti fermi imprescindibili: anticapitalismo, antirazzismo, antisessismo, antifascismo, rifiuto della politica intesa come gestione del potere e arte di scegliere il male minore. Non ci interessa dare spazio a partiti politici istituzionali, specialisti nella gestione delle nocività e nell’amministrazione del disastro sociale e ambientale, indaffarati in finte riforme affinché nulla cambi.

Il progetto editoriale intende rivolgersi a un pubblico allargato residente nell’area territoriale di riferimento, anche con l’auspicio di trovare nuovi complici lungo la strada. Ma il desiderio è quello di non rimanere chiusi negli stretti limiti del localismo, pertanto saranno sollecitati e accolti contributi provenienti dall’esterno e ospitati articoli che sappiano guardare oltre le problematiche strettamente locali.

Il timone della rivista sarà rivolto a proporre uno sguardo sul presente che abbia a cuore la libertà. Orientato, quindi, alla necessaria critica sociale, dal momento che quello che non manca, anche qui nella periferica provincia, sono le buone ragioni per opporci a un’organizzazione sociale che mostra sempre più, se ancor ce ne fosse bisogno, la propria insensatezza prima ancora che insostenibilità. Sotto traccia, vi è il desiderio di rompere l’accerchiamento del progresso a tutti i costi e della mercificazione dell’esistente, per recuperare le capacità di saper agire nel mondo.

Ai lettori verranno proposti spunti per analizzare e criticare un sistema di potere fondato sulla più sfacciata arroganza del vantaggio dei pochi a spese dei tanti. Le problematiche da affrontare riguarderanno una vasta area di argomenti, come il mondo del lavoro e del precariato, la difesa dell’ambiente, la sanità pubblica, il diritto alla casa, l’antimilitarismo, la pedagogia, la questione femminile, le migrazioni, l’economia solidale, l’autodeterminazione alimentare, il contrasto alle derive securitarie e xenofobe e tanti altri aspetti della realtà sociale contemporanea.

La rivista ospiterà report delle iniziative, corrispondenze e aggiornamenti dalle realtà locali, inchieste, interviste, riflessioni sull’attualità e sulle lotte in corso, articoli di analisi politica e culturale, recensioni, brani del passato che valga la pena rileggere ecc. In particolare, la rivista vuole dare spazio ai soggetti che agiscono sul territorio, per mettere in comune attraverso le sue pagine quegli spunti di critica/alternativa sociale che portano boccate d’aria fresca in un presente che ne ha quantomai bisogno.

Malamente uscirà in formato cartaceo: scelta dettata dalla volontà di riappropriarci di un mezzo di comunicazione stabile e che induce alla lettura piana e riflessiva. Riteniamo infatti che troppo spesso molti contenuti vengano oggi veicolati esclusivamente online e finiscano per perdersi dentro il frettoloso consumo quotidiano della rete, tra un controllo alla casella mail, un commento sul forum e un like sul social network. Nell’ottica della libera circolazione dei saperi, alla rivista cartacea verrà comunque affiancato un sito internet dove scaricarla gratuitamente. Il sito darà la possibilità ai lettori di commentare ogni articolo e conterrà gli aggiornamenti del profilo twitter della rivista: un mezzo, ma non l’unico, con cui intendiamo costruire una rete di relazioni e contatti e attraverso il quale ricevere stimoli e spunti da approfondire numero dopo numero.

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