Di Joyce Lussu [QUI IL PDF]
Con questo testo di Joyce Lussu (da Malamente #25) facciamo un salto nella storia antica dei nostri territori. Lo abbiamo ripreso, riducendolo e adattandolo, dalla sua “Storia del Fermano”, pubblicata nel 1970 (prima da Lerici, poi da Marsilio editore): un libro che Joyce Lussu aveva pensato per le scuole superiori e che era stato accolto quasi come una provocazione verso il modo comunemente accettato di “fare storia”. È un racconto che ci parla dei nostri antenati sovrapponendo alla freddezza delle fonti la passione della ricerca, con il cuore dalla parte giusta, quella ostile ai potenti di ogni epoca.
Chi erano i piceni?
Non si sa bene quando arrivarono (le ipotesi variano dal X al VI secolo avanti Cristo) né da dove. Sembra però, da quanto è lecito ricostruire dai reperti archeologici e dagli scarsi documenti, che i piceni venissero dalla Sabina, probabilmente dalla zona di Rieti, in cerca di terre fertili da coltivare. Era usanza normale che gruppi si staccassero dalle tribù originarie per cercare nuovi insediamenti, quando nei vecchi la terra era troppo sfruttata o troppo aumentato il numero delle persone. Queste emigrazioni avvenivano in primavera, per avere il tempo di seminare i cereali nella nuova sede e non erano spedizioni militari conquistatrici, ma pacifiche trasmigrazioni di contadini, che si muovevano in lunghi cortei con le donne, i bambini, le mandrie e le greggi, con i carri colmi di suppellettili e di attrezzi, con i simboli degli dei protettori e le insegne che indicavano l’identità della tribù. Giovani armati proteggevano il corteo da eventuali ostilità della natura e degli uomini; ma si preferivano le terre non contestate e la trattativa e l’accordo con le tribù incontrate lungo il cammino. Quello che appare certo, è che l’immigrazione dei piceni non avvenne estromettendo con la violenza le popolazioni che abitavano la zona in precedenza, ma mescolandosi ad esse e allargando l’area delle coltivazioni.
La zona abitata dai piceni andava all’incirca dal fiume Esino, confine col territorio occupato dai Galli Senoni discesi dalla Francia, al grosso centro di Hadria, l’odierna Atri in provincia di Teramo, a sud del fiume Vomano. Più a sud, c’era il territorio dei vestini, popolo affine ai sabini; affini a questi erano anche i marsi e gli equi, che con i sabini veri e propri abitavano in territori a ovest del Piceno verso l’Appennino; più a nord, vi erano gli umbri. Su una carta geografica attuale, il Piceno di allora comprenderebbe buona parte delle province di Ancona e di Macerata, e quelle di Ascoli e Teramo.
Produzione e organizzazione sociale
Si coltivavano orzo miglio e spelta, con cui si facevano farinate, viti e fichi, pere e mele, legumi, rape e verdura, più tardi olivi e grano. Gli animali addomesticati erano quelli di oggi: cavalli, asini e buoi, pecore, capre e maiali, oche e galline. Le galline e le pecore dei piceni godevano di molta fama, per la buona qualità della lana, della carne e delle uova. In generale i prodotti agricoli, assai abbondanti, servivano ai piceni come merce di scambio per ottenere manufatti di ferro (i greci avevano le migliori fonderie dell’epoca), ceramiche bellissime dalla Puglia (quelle dei piceni, poco provvisti di talenti artistici, erano rozze e irregolari), colori per tingere i tessuti, pasta di vetro, ambra in grandissima quantità (l’ambra era molto apprezzata e usata nel Piceno). I piceni esportavano anche legno lavorato per l’edilizia e la costruzione di navi; i loro falegnami erano molto abili e di buona qualità era il legno di noce e di quercia che cresceva sulle colline.
L’organizzazione sociale dei piceni era stata all’inizio, come per gli altri popoli italici, comunitaria. Ossia il suolo, dal quale traeva sostentamento l’agglomerato di famiglie che formava la comunità, non veniva suddiviso in proprietà private. I boschi e i pascoli servivano per tutti, la terra era coltivata in comune e il prodotto ripartito tra tutti. Non era consentito al singolo appropriarsi di una parte maggiore di terra togliendola a un altro e goderne i frutti senza partecipare al lavoro produttivo; l’arricchimento o l’impoverimento della comunità riguardava tutti, solidalmente. Non vi erano schiavi e non si era ancora scoperto che la donna fosse inferiore all’uomo; per cui partecipava alla ripartizione dei beni e alle pubbliche assemblee come gli altri. Più sedentaria, si dedicava soprattutto all’industria: la filatura e la tessitura, la concia delle pelli, le terrecotte, la macinazione e cottura dei frumenti; mentre l’uomo, più agile, si dedicava alla caccia e alla pastorizia; alla coltivazione della terra collaboravano entrambi, dividendosi poi i prodotti.
Come per gli altri popoli di questa primitiva età del ferro, la “proprietà” (usiamo, per intenderci, una parola e un concetto introdotti più tardi dal diritto romano) era un rapporto oggettivo fra la comunità e il territorio, con tutti i suoi beni e mezzi di sostentamento; per cui un certo territorio era “proprio” a una certa comunità e viceversa. Questa “comunità” veniva ovviamente difesa (anche con la forza, se occorreva) dagli sconfinamenti di altre comunità, vicine e lontane; e anche la difesa era un fatto collettivo. Un consiglio di anziani si riuniva per stabilire e far osservare le regole della convivenza, i rapporti interni di solidarietà e quelli esterni, di scambi pacifici o di ostilità, con le comunità vicine.
L’accentramento del potere
Con l’età del ferro la civiltà avanza per alcuni col miglioramento della produzione e delle comunicazioni, con la moneta e il commercio, con la scrittura e le arti, con le leggi e l’accentramento del potere politico e militare. Per altri regredisce: la donna viene sottomessa e reclusa, si istituisce la schiavitù, le guerre condotte con mezzi razionalizzati legalizzano la strage, il saccheggio e il lavoro forzato. La figura del guerriero acquista prestigio sempre maggiore, poiché per allargarsi bisogna aggredire il vicino, imporsi con la violenza, uccidere e appropriarsi dei beni altrui. L’uomo abituato da millenni alla caccia, è più adatto della donna alla guerra, nella quale ci si abitua a veder un normale ramo di produzione, una funzione regolare della vita associata. L’età del ferro ha portato l’aratro, ma anche la spada a doppia lama. Il soldato, che arricchisce la comunità con la rapina e la distruzione di vite, viene esaltato come più stimabile e glorioso del contadino e dell’artigiano, che producono e costruiscono pacificamente. Tanto più che il lavoratore manuale è ora sempre più frequentemente il vinto di un altro popolo, il prigioniero di guerra che il vincitore considera sua proprietà privata non diversamente da una bestia da soma.
L’organizzazione militare non serve soltanto all’aggressione esterna, ma anche alla repressione interna della massa di lavoratori e di donne senza diritti politici. I piceni organizzarono la loro vita sociale secondo le linee di sviluppo di tutti gli altri popoli italici. Le società italiche si erano venute configurando verso la metà del primo millennio a. C. come democrazie militari dei proprietari-guerrieri, i cui organi erano l’assemblea, il consiglio degli anziani o senato, e supremi magistrati investiti di poteri militari, civili e religiosi, scelti per elezione. Al di sotto di questa democrazia per pochi viveva in forma subordinata, senza nessuna partecipazione al governo, la massa delle donne, dei plebei, dei clienti, dei forestieri, degli schiavi.
L’espansione dei romani
Intanto i romani estendendo il loro dominio, si avvicinavano al Piceno. Il loro successo non era dovuto a una particolare inventiva: il loro patrimonio di idee e di strutture era analogo a quello degli altri italici. Tuttavia erano in anticipo per alcuni aspetti: l’aggressività espansionistica come funzione permanente della vita associata e la rottura totale con le tradizioni comunitarie.
Partendo dal principio che la guerra è un normale mezzo di produzione per la ricchezza dello Stato, una funzione regolare e indispensabile della società, i romani la razionalizzarono con coerenza implacabile; la capacità militare fu per essi il valore di massimo prestigio, cui ogni altro veniva subordinato. Ma non si ha un buon esercito senza un’economia fiorente, che garantisca, dove la guerra ha portato ingente consumo di beni, stragi di mano d’opera e devastazioni, la ripresa della produzione nelle condizioni più vantaggiose per il conquistatore. I romani non arretravano di fronte a nessuna efferatezza, e la storia della loro espansione è una storia di macelli di milioni di esseri umani, di distruzioni di biblioteche, di opere d’arte, d’architettura, di pensiero. Tuttavia, dopo la strage, erano gli stessi soldati che fondavano colonie agricole e incoraggiavano i vinti sopravvissuti a lavorare e ad arricchirsi. Si bonificavano terre, si costruivano strade e ponti, mercati, terme e teatri.
Anche gli altri popoli italici avevano dato alla guerra il valore di una normale funzione della comunità, e non arretravano di fronte alle stragi e alle devastazioni; ma il perdurare di alcuni aspetti delle antiche tradizioni comunitarie rendeva più lento il processo che aveva portato i romani all’inesorabile realizzazione di uno Stato militarista.
I piceni non erano un popolo particolarmente bellicoso. La dolcezza e l’alta produttività della loro terra fornivano loro mille motivi per preferire la pace alla guerra. Da secoli abitavano entro gli stessi confini, senza risentire dei movimenti di espansione e di regressione degli altri popoli italici, dai siculi agli etruschi. Mantenevano buoni rapporti con i loro vicini, anche con i Galli insediati a nord di Ancona.
Nel 299 a.C. ci fu in Italia una ulteriore invasione di Galli provenienti dalla Francia. Etruschi, sabini e sanniti simpatizzavano con i Galli, nei quali vedevano un argine all’espansionismo romano che li minacciava. E Roma si preoccupò innanzitutto di scoraggiare i possibili alleati italici dei suoi temibili avversari. Mandò subito un esercito contro i sanniti, e distrusse col ferro e col fuoco i loro villaggi montani; nel 290 fece altrettanto con i sabini: il loro tentativo di resistenza fu annegato nel sangue, e il loro territorio annesso a Roma.
Guerra e alleanza con Roma
I piceni tremavano. Un appoggio ai Galli poteva attirare su di loro la stessa sorte. Perciò quando il console romano Publio Cornelio Dolabella scese per la Salaria nel 282 e chiese ai maggiorenti piceni di allearsi con Roma nella guerra contro i Galli senoni, e di rifornire il suo esercito di viveri di denaro e di reclute, essi non osarono dire di no; contadini e artigiani piceni dovettero lavorare per i romani, e i giovani di buona famiglia furono convogliati verso Ancona con le loro armi e i loro cavalli per combattere. I Galli senoni furono sconfitti e macellati, i superstiti fuggirono verso il nord. In premio della alleanza, ai piceni fu concesso in usufrutto il territorio dei Galli lungo l’Adriatico, da Sena (l’odierna Senigallia, da Sena Gallica) a Ariminum, l’odierna Rimini. Essi potevano coltivare quelle terre e tenersi parte del prodotto, versandone una pesante percentuale a Roma. Ma senza ombra di diritti politici. E la pace durò poco.
Per mantenere i piceni sotto controllo, il senato romano ordinò al console Levino, che comandava le legioni sconfitte da Pirro, di andare a svernare a Fermo. Erano circa 12.000 soldati, che si attendarono tra Fermo e il mare; si rifornivano di denaro dai ricchi e di vettovaglie dai contadini dei villaggi; i giovani piceni figli di proprietari venivano reclutati forzosamente per riempire i vuoti creatisi nelle legioni, i poveri erano obbligati a servire i romani come schiavi. La popolazione tutta guardava i romani con odio, e cominciava a organizzarsi la ribellione. Nel 269 a.C., in un’assemblea di delegati delle varie comunità riunita al tempio di Cupra, i piceni decisero di prendere le armi contro Roma. I romani che si erano stabiliti nel Piceno vennero uccisi o costretti a fuggire e la guerra fu dichiarata.
Questa volta fu mandato contro di loro il console Publio Sempronio, con forze ancora più consistenti, e la battaglia campale ebbe luogo alle foci del Tronto. Sempronio non infierì sui piceni dopo la vittoria; non ordinò saccheggi e massacri e non vendette i piceni come schiavi. Il motivo di questa generosità non era di ordine sentimentale, ma pratico: i patrizi piceni avevano subito mandato una delegazione a cercare accordi col vincitore, giurandogli che sarebbero diventati, se gliene avesse lasciata la possibilità, i più fedeli difensori degli interessi di Roma, assicurando l’ordine pubblico, l’obbedienza forzata dei lavoratori, la continuazione della produzione, l’esazione dei pesantissimi tributi. I romani erano sempre pronti ad accettare la collaborazione della classe dirigente locale per lo sfruttamento di un altro popolo, purché questa classe dirigente desse garanzie di sottomettersi alla supremazia politica e militare di Roma.
Nel fermano, come nel resto del piceno, per la maggior parte della popolazione le cose rimasero suppergiù come prima. Il potere economico e politico era stato nelle mani di troppo poche persone perché la maggioranza potesse risentirsi molto del cambiamento. I nuovi padroni somigliavano ai vecchi, e i ricchi non furono disturbati, anzi Roma fece di tutto per accattivarseli. È vero che le terre migliori erano state assegnate alla colonia romana, ma ce n’erano abbastanza anche per i proprietari piceni, che le ebbero in enfiteusi, ossia in usufrutto per più generazioni, con l’obbligo di versare la decima parte del prodotto a Roma.
La dominazione romana
La storia del Piceno, durante la dominazione romana, è la storia delle conquiste di Roma e dei suoi istituti giuridici in continuo movimento, ma sempre fedeli al loro principio informatore: assicurare un assetto che garantisca l’esercizio del potere e la gestione delle ricchezze alla minoranza dirigente.
La produzione-base, colture agricole e allevamento di bestiame, originariamente era stata portata avanti da contadini liberi o semiliberi e da piccoli affittuari; ma ora alla piccola azienda famigliare e all’uso collettivo delle terre demaniali incamerate dallo Stato via via che si espandeva, si sostituiva il latifondo, la grande proprietà agraria lavorata esclusivamente dagli schiavi. Il commercio degli schiavi divenne il più importante di tutti, perché da essi dipendeva l’intera produzione. I comandanti militari tornavano dalle loro spedizioni trascinandosi dietro stuoli di prigionieri di guerra fatti schiavi, greggi e armenti di bestiame vario, e naturalmente oro argento e monete; e diventavano tutti grandi agrari, poiché lo Stato concedeva loro larghe fette dell’ager publicus, delle terre demaniali, sottraendole all’uso dei contadini e pastori poveri. Il che non deve stupire, poiché lo Stato erano quegli stessi comandanti militari, i quali, conclusa una guerra, diventavano funzionari e magistrati civili, e formavano i governi.
Il Piceno, ormai integrato nello Stato romano, ne seguiva le sorti. Tuttavia l’introduzione del latifondo veniva ritardata dalle sue caratteristiche geografiche: frastagliato da colline, fiumi, piccole valli, ricco di piccoli centri urbani, lontano dalla grande viabilità che dal nord al sud traversava la Toscana e non scendeva per le coste adriatiche, il Piceno conservò più a lungo una categoria di piccoli possidenti e agricoltori liberi, e di artigiani non controllati dalle grandi organizzazioni monopolistiche dei mercanti. Ma il peso delle guerre imposte da Roma, l’insediamento di romani accaparratori sul suo territorio, il sistema di esazioni e di tributi l’avevano impoverito di prodotti e di uomini. La vecchia classe dirigente si batteva per ottenere gli stessi diritti giuridici dei romani e un’autonomia amministrativa almeno municipale. La cittadinanza romana non era facile da acquisire e vi era un gran traffico di raccomandazioni, di carte false e di esorbitanti mance ai funzionari romani per ottenerla a titolo individuale.
L’insurrezione di Ascoli e le guerre degli italici contro Roma
La scintilla dell’insurrezione scoppiò in Ascoli. Il proconsole Caio Servilio era arrivato da Roma col suo legato Fronteio e i suoi littori, per imporre qualche nuova angheria. La città era in festa, e il popolo radunato nel teatro. Quando entrò Servilio, seguito dai suoi che portavano alte le insegne porporine di Roma e i fasci con la scure, la vista di quei simboli dell’oppressione romana incendiò la folla. Servilio e Fronteio furono fatti a pezzi, e così tutti i romani che si trovavano in Ascoli. Il popolo corse alle carceri a liberare i prigionieri, tra i quali era il pirata siculo Agamennone, un audace e intelligente avventuriero, nutrito di cultura ellenistica e memore delle grandi insurrezioni di schiavi nella sua isola; la sua esperienza fu assai utile agli insorti.
La ribellione ascolana incitò i popoli vicini a ribellarsi anch’essi. I marsi, guidati da Quinto Silone, furono i primi a staccarsi formalmente da Roma. Altrettanto fecero i vestini, i peligni, i marrucini, i frentani, gl’irpini, i sanniti, i bruzi, gli apuli. Tutta l’Italia meridionale e parte della centrale insorse contro Roma. Erano popolazioni costituite ancora in parte da contadini liberi e da una vasta categoria di pastori, i quali, se pure giuridicamente servi, conservavano una loro fierezza montanara: la loro attività li isolava nelle montagne ma consentiva loro l’uso delle armi per proteggersi e proteggere i loro greggi, e una più larga autonomia personale, non potendo essere controllati di continuo come gli schiavi e i braccianti delle pianure.
Invece l’Umbria e l’Etruria dove già da tempo era impiantato il latifondo schiavistico mortificando ogni dignità umana nei lavoratori forzati, avevano una classe dirigente i cui interessi coincidevano con quelli di Roma; per cui si schierarono dalla sua parte e così fece il nord del Piceno, più direttamente influenzato da loro. Fermo divenne la roccaforte avanzata per la difesa del potere romano.
Nel Piceno, i romani rafforzarono le guarnigioni che proteggevano le colonie rimaste loro fedeli, e in particolare Fermo. Le navi romane si raccolsero davanti al porto di Fermo (il Navale alle foci dell’Ete, detto allora Castrum Firmarum), continuamente molestate dalle piccole e veloci navi italiche comandate da Agamennone. Il generale Pompeo Strabone si avviò da Roma con due legioni per raggiungere Fermo dall’interno. Passò per Spoleto e Camerino e giunto a Faleria, l’attuale Piane di Falerone, fu assalito dalle forze picene; riuscì ad evitare l’accerchiamento e fuggì verso Fermo, inseguito dai suoi avversari, con la spada alle reni; i fermani gli aprirono le porte e poté rifugiarsi con i suoi legionari all’interno delle mura, in condizioni quanto mai precarie per la mancanza di collegamenti e di rifornimenti. Roma mandò in suo aiuto un altro esercito, comandato da Servio Sulpicio, che poco prima aveva sconfitto le tribù dei peligni. Sulpicio attaccò i piceni, comandati da Afranio, che si erano attendati nella valle del Tenna; contemporaneamente Strabone fece una sortita da Fermo, attaccandoli dalla parte opposta. Presi in mezzo, i piceni fuggirono verso Ascoli passando per la montagna e Strabone fece non poca fatica a seguirli. Li aveva persi di vista da un pezzo quando giunse sotto le mura di Ascoli. La città sembrava del tutto indifesa. Dall’alto degli spalti si affacciavano solo vecchi e bambini a rimirare il bell’ordine dei legionari, i quali, anche nei momenti più critici, si spostavano e manovravano con la compostezza di un’esercitazione in piazza d’armi. Non si vedeva nemmeno una sentinella e i romani si avvicinarono alle porte per sfondarle; ma queste si spalancarono di colpo e stuoli di armati si riversarono sugli invasori respingendoli.
Strabone dovette accamparsi a qualche distanza dalla città e organizzarsi per un lungo assedio. Judacilio, il più prestigioso dei comandanti piceni, per evitare che la città venisse isolata, andò sulle montagne sopra Ascoli e addestrò le sue formazioni a una guerriglia di disturbo contro l’esercito romano e le sue vie di comunicazione. A lui si unì presto il valoroso Scatone, capo dei marsi.
I combattenti piceni e marsi raccolti sull’Appennino sopra Ascoli erano ormai sessantamila circa e si sentivano abbastanza forti per attaccare Strabone. Era l’inverno dell’88-87 a.C., particolarmente rigido. Scesero dai monti e si buttarono sull’accampamento romano, fortificato, come i legionari non mancavano mai di fare, con alte palizzate di legno e profonde trincee: gli assalti si infransero contro l’ordine compatto delle legioni. Furono sconfitti. Lasciarono nella valle del Tronto diciottomila morti e nelle mani dei romani quattromila prigionieri tra cui Scatone; mentre questi veniva sospinto in catene verso la tenda del generale romano, di cui doveva ornare il trionfo, uno schiavo che gli era amico e lo aveva seguito di nascosto lo uccise, come egli desiderava, e poi si uccise a sua volta. I superstiti ritornarono sui monti, tra la neve, decimati dalla fame e dal freddo. Anche gli ascolani, nella città assediata, danno segni di cedimento.
Strabone entrò in Ascoli e la mise a ferro e fuoco, distruggendo la biblioteca e le opere pubbliche, facendo schiavi i sopravvissuti, accumulando per se stesso immense ricchezze, monete, schiavi, bestiame, terre. Suo figlio Pompeo, durante la guerra civile tra Silla e Mario, era con il primo. Pompeo reclutò e addestrò un suo esercito personale, di clienti dipendenti e liberti piceni e romani che lavoravano nelle sue proprietà del fermano; e nell’83 a.C. andò a conquistare Osimo fortezza degli amici di Mario. La guerra civile fu vinta da Silla, il quale assicurò allo Stato romano alcuni anni di non-guerra distruggendo fisicamente tutti gli avversari in grado di nuocergli. Il Piceno conobbe una relativa tranquillità fino alla rivolta di Spartaco, scoppiata nel 73 a.C.
La rivolta degli schiavi
Spartaco era originario della Tracia e, ridotto in schiavitù dai romani, era stato costretto a fare il gladiatore nel centro di addestramento di Capua. Più civile e intelligente dei suoi padroni, aveva acquistato un grande ascendente sui suoi compagni di sventura, gladiatori destinati al circo e schiavi di ogni categoria. Riuscì, nel corso dell’insurrezione, a mettere insieme un esercito di novantamila uomini, che riempì di terrore la classe dirigente romana e soprattutto i proprietari terrieri. Vi erano state in Italia, con massime punte in Sicilia, ricorrenti rivolte di schiavi, sempre soffocate con atroci repressioni. Ma Spartaco e i suoi gladiatori avevano qualcosa che era mancato alle insurrezioni precedenti: un allenamento alle armi e una disciplina militare che permetteva loro di tener testa alle legioni romane. Vi era tuttavia, ed era impossibile che non vi fosse in quei tempi, una carenza di obiettivi politici concreti e possibili, e di proposte per uno sbocco razionale della rivolta. Sembra che Spartaco avesse la prospettiva, veramente rivoluzionaria, di un ritorno alle terre di origine, per portare avanti, luogo per luogo, una lotta popolare contro il colonialismo di Roma. Ma i suoi collaboratori non vedevano così lontano; le sofferenze e le umiliazioni subite per anni, le deformazioni imposte loro dalla condizione di schiavi, li portavano a desiderare soltanto una vendetta immediata sui loro padroni: volevano distruggere Roma.
Spartaco marciava sull’Appennino, evitando le coste e le battaglie campali. Il console Lentulo scese per la Salaria con due legioni e tentò di fermarlo all’inizio della valle del Tronto. Ma Spartaco forzò il passo. Un altro scontro ebbe luogo tra Matelica e Fabriano, e Spartaco ne uscì ancora vittorioso. Ma giunto nella pianura padana, vicino a Modena, i suoi si rifiutarono di seguirlo oltre e reclamarono l’assalto a Roma. Attaccare la città di Roma era chiaramente follia. Dopo molte discussioni, Spartaco ottenne un compromesso: sarebbe tornato indietro, ma lungo l’Adriatico, per poi raggiungere la Sicilia e impossessarsene stabilmente.
Il Piceno non reagì al suo passaggio. Quelli che avrebbero voluto unirsi a Spartaco, indebolito dalla secessione del suo collaboratore Crasso, le cui forze erano state prontamente massacrate dai romani, non lo facevano per il terrore che incutevano le legioni di Roma. Spartaco giunse allo stretto di Messina, ma i romani avevano già distrutto o comprato i pirati che dovevano fornirgli le navi per la traversata; quindi arriva in Lucania e poi in Puglia. Lì trovò Pompeo che era sceso col suo esercito dal Piceno. Nella primavera del 71 a.C. ebbe luogo l’ultima battaglia. Sessantamila schiavi caddero sul campo, combattendo con estremo coraggio. Anche Spartaco. Seimila schiavi presi prigionieri furono crocifissi lungo la via Appia, da Roma a Capua. Gruppi di superstiti si rifugiarono presso i pirati illirici o africani, o si nascosero nelle montagne continuando la lotta contro i padroni romani nell’unica forma possibile, il brigantaggio.
Conoscevo superficialmente la storia dei Piceni nelle Marche. Apprezzo molto questo approfondimento che mi invita a visitare quei luoghi e in particolare i relativi siti archeologici e i musei dove sono presenti le testimonianze di questa civiltà.