Di Joyce Lussu
[da Rivista Malamente n. 34, ottobre 2024. QUI IL PDF]
Nell’aprile del 1808, giunto alla rottura con papa Pio VII, Napoleone incorporò le Marche nel Regno d’Italia. Con decreto del 20 aprile firmato da Eugenio Beauharnais viceré d’Italia, il territorio marchigiano è diviso in tre dipartimenti: quello del Metauro, con capitale Pesaro, quello del Musone, con Ancona, quello del Tronto, con Fermo. L’assetto definitivo del dipartimento del Tronto fu stabilito da un decreto del 25 luglio, che lo divideva in due distretti: quello di Ascoli, con tre cantoni, e quello di Fermo, con sette. […]
Le novità introdotte dall’amministrazione napoleonica cadevano dall’alto su una società ancora fondamentalmente feudale, con una classe dirigente di proprietari terrieri, una grandissima maggioranza di lavoratori agricoli mezzadri, braccianti, fittavoli e una esigua minoranza di piccola e media borghesia urbana, in parte favorevole alla Rivoluzione francese, dall’artigiano politicizzato al nobile illuminista. Il mondo contadino rimaneva estraneo e ostile, perché l’amministrazione francese, puntando sui proprietari, non aveva fatto nulla per alleviare la sua soggezione economica, e spesso l’agrario liberale, razionalizzando la produzione, imponeva al lavoratore uno sfruttamento più metodico del vecchio padrone assenteista; e il peso delle requisizioni e delle carestie era caduto tutto sulle sue spalle. […]
Sotto la superficie di rapporti sociali monchi e servili, il mondo contadino coltivava la sua cultura autonoma e segreta, fatta di simboli ma soprattutto di solide esperienze e conoscenze, tramandate attraverso le generazioni. Le malattie le avevano sempre curate a modo loro: i medici dei signori non si erano mai occupati dei loro malanni. Le strolaghe, le conciaossi, le sfasciafatture, le anziane che presiedevano ai parti o procuravano gli aborti, disprezzate e perseguitate dagli illuministi non meno che dai preti, erano in realtà medichesse contadine che avevano elaborato, attraverso esperimenti millenari e osservazioni sui cicli vitali degli animali e delle piante e sulle qualità specifiche delle erbe e dei frutti, una scienza curativa per i mali del corpo e della psiche. Queste “fattucchiere-erboriste” erano per i poveri la sola difesa contro le malattie; le espressioni simbolico-poetiche usate per creare un rapporto di suggestione con l’ammalato non erano più stravaganti delle oscure formulazioni in lingue morte di accademici e universitari.
Le streghe erano presenti da millenni nel mondo contadino: la mattina facevano trovare il cavallo tutto sudato nella stalla, con la criniera ordinata in trecce parallele, perché si erano divertite a cavalcarlo tutta la notte – immagini fantasiose di vecchie donne che, pensando e pensando, avevano capito qualcosa di più dell’universo e dei suoi meccanismi misteriosi. Erano loro che avevano consigliato l’uso del soprannome, perché rivelare il proprio vero nome a un nemico significa mettersi in suo potere; il padrone lo conosceva, e per questo li teneva in servitù. Le ribellioni latenti erano ridotte ad allusioni magiche: chi fosse riuscito a mettere nel letto del nemico un nastro rosso con una penna infilzata (simbolo del sangue e dell’arma) l’avrebbe fatto morire in pochi giorni. Ma come arrivare a metterlo nel letto del padrone?
Il livello culturale di una donna contadina era di molto superiore a quello della moglie del padrone, la quale non sapeva far nulla, nemmeno allevare i figli, che affidava prima alla balia, poi alla governante, poi a qualche lontano collegio. Come il suo corpo, coperto, quando usciva, dal collo ai polsi, con gonne che spazzavano il pavimento, non conosceva aria e sole, così la sua mente era un alveare di meschinità, di pregiudizi e d’ignoranza, coltivati con cura dal prete, dal padre e dal marito. Invece la donna contadina conosceva il corpo e la natura, l’arco delle energie vitali e delle stagioni, le ordinate simmetrie dei campi e la trasformazione della materia, aveva gambe e braccia muscolose e pelle abbronzata e sapeva fare cose utili e belle con le sue mani intelligenti.
Nell’amministrazione francese e tra i liberali locali portati al potere durante il Regno d’Italia, c’era chi sentiva con preoccupazione il distacco tra le autorità e il mondo contadino, che costituiva la grandissima maggioranza della popolazione; e si rendeva conto che l’incapacità d’impostare provvedimenti corretti derivava innanzitutto dalla profonda ignoranza storico-etnologica della nuova classe dirigente nei confronti della realtà delle masse. La proposta di un’inchiesta sugli usi e costumi della popolazione fu accettata dalla prefettura e affidata a professionisti liberali nei vari comuni, generalmente medici, avvocati o insegnanti. Nella Val di Tenna, sulla quale ho fissato h mia attenzione perché ci vivo, l’incarico fu assegnato nell’estate del 1811 al professor Gian Luigi Simonetti di Falerone, che presentò una relazione ritrovata e pubblicata nella rivista “Studia picena” un secolo e mezzo più tardi (Fano, 1962).
Il professor Simonetti svolse la sua indagine soprattutto tra i mezzadri, con la sprezzante superiorità universitaria tipica dei liberali dell’epoca. Una parte è dedicata alla medicina popolare: «Non sono i nostri campagnoli, scrive nella sua relazione, molto premurosi delle malattie umane. Qualora sia l’individuo della loro famiglia malato, non se ne prendono troppo pensiero. D’ordinario non si chiama il medico che quando l’infelice non mangia più. Nei professori non confidano troppo. Sono più presto portati a porre in esecuzione le ordinazioni di qualche donna medichessa, e di queste se ne ha almeno una per contrada […]. In ispecie nei malati di fegato sono costoro i chiamati alla cura. Salassano il malato, a guisa di pecora o di maiale, nell’orecchio, ove dicono di scorgervi una crocetta, e lo pongono a un vitto assai tonico. Tutto che questo genere di vitto sia veramente il risanatore, pur essi non lo credono che un dippiù, e ne attribuiscono esclusivamente al salasso la guarigione, che bene spesso accade. Sono essi (di solito donne) i professori curanti in certe affezioni stomacali, che i campagnoli chiamano il male della forcella (in dialetto furculetta). Si getta il malato ciecamente nelle mani degli operatori e, soffrendo che uno di questi gli introduca il dito medio nella bocca dello stomaco con gran forza sino a sollevargli la cartilagine ensiforme, si pone al rischio di essere soffocato».
Polemico e denigratorio, il professor Simonetti non analizza le ricette farmaceutiche e le cure della medicina popolare che effettivamente servivano a prevenire e guarire le malattie, ma punta sulle pratiche magiche e sugli aspetti degenerativi della cultura subalterna: «Nel male della lombaggine, si chiama in casa una donna, che abbia dato alla luce due figli ad un parto. Il malato si sdraia bocconi per terra ed ella gli passa sopra tre volte dicendo alcune parole di augurio per la guarigione». E conclude con la cura dello streppu per il bambino che non cresce regolarmente o ha degli arresti di crescita. Lo streppu è lo sterpo, ossia il giovane albero, querciola, olmo o robinia, stroncato dalla scure poco sopra la terra: e il rito consiste nel chiamare una donna e un uomo del vicinato, sicuramente ben disposti verso il bambino, che se lo passano, nudo, al di sopra del tronco mutilato, tra le fronde tenere che sono cresciute attorno alla cicatrice raschiata e rinnovata; lo passano da tre a dodici volte, poi lo rivestono con un abito nuovo, prima sterilizzato nell’acqua bollente, e infine bruciano il vestito che portava prima della cerimonia, insieme alle frasche che ha toccato nei vari passaggi; e le ceneri vengono sotterrate in un luogo dove il bambino non avrà più occasione di camminare. È un confronto simbolico tra l’essere umano e la pianta, non più stravagante di altri riti largamente accettati e ufficialmente riconosciuti.
Leggendo questa relazione del 1811, il professor Pompilio Bonvicini, attualmente insegnante a Fermo, ha pensato di aggiungerci quello che l’illuminista Simonetti aveva trascurato: le ricette e le cure effettivamente utili e scientificamente controllabili elaborate dalla lunga esperienza della medicina contadina in Val di Tenna, in uso nel secolo scorso, e ha condotto un’inchiesta tra i vecchi contadini nati alla fine dell’800 e di memoria sveglia, che ricordavano quello che raccontavano i loro nonni del periodo napoleonico ancora fresco nelle loro menti, e come, sotto i grandi trambusti politici e istituzionali, la cultura contadina aveva seguito il suo corso inalterato e le malattie si erano curate secondo abitudini secolari.
Ecco alcune delle ricette che il professor Bonvicini ha presentato in un suo intervento alla VII Biennale dello Studio Firmano per la storia dell’arte medica, 1967, a Fermo.
Contro l’infiammazione degli occhi: fare applicazioni, con tela, di decotto ottenuto facendo bollire in un litro d’acqua finocchio selvatico (foeniculum officinale), malva (malva silvestris), e piantaggine (plantago maior); colato con telo fitto e lasciato intiepidire.
Contro i disturbi della vista: pestare su lastra marmorea o in mortaio metallico, foglie e caule del millefoglio (achilea millefolium), raccogliere e far bollire in acqua; colare con telo fitto e fare intiepidire, indi fare le applicazioni direttamente sul bulbo oculare.
Nelle affezioni cutanee
1) La tintura di celidonia: somiglia nel colore e un po’ anche nell’odore alla tintura di iodio. Si ottiene pestando in un mortaio di metallo o di pietra la celidonia maggiore (chelidonium maius); si raccoglie il lattice giallo, che l’erba emana in abbondanza, in una bottiglia e ancor prima che si ossidi e si rapprenda, si mescola nella proporzione di 1:10 con alcool etilico. Serve per uso esterno in sostituzione della tintura di iodio.
2) Cura delle ferite da taglio: anche se il taglio è profondo, fatto uscire un po’ di sangue a scopo di lavaggio, si fascia subito l’arto o il dito infortunato con corteccia d’olmo, ponendo la parte interna della scorza a contatto col taglio; naturalmente si tratta di corteccia nastriforme, distaccata da un giovane virgulto o ramicello. Il ristagno del sangue è immediato e la cicatrizzazione sicura.
3) Scottatura da fuoco: si monda una patata (solanum tuberosum), si grattugia e si pone la poltiglia fresca sulla parte ustionata; nei casi più gravi si stende sulla ferita olio di oliva emulsionato, in parti uguali, con acqua di calce.
4) Scottature da sole: si applica sulla parte affetta uno strato di chiara di uovo montata e mescolata con olio d’oliva.
5) Pomata per ulcerazioni: si pestano, su lastra marmorea o in un mortaio metallico, le foglie fresche d’edera (hedera helix); si raccoglie e mescola la poltiglia con sugna non salata di suino maschio (creduto più sano, perché scevro dalle turbe dell’estro); si applica tiepida sulle ferite lente a risanare.
6) Gonfiori da contusione: si applica sulla parte dolente o enfiata, ma non lacera, la raschiatura della corteccia giovane di sambuco (sambucus nigra); la scorza dev’essere liberata, prima di minutarla, dalla epidermide e dalle nodosità.
7) Contro verruche e calli: per far cadere i porri (verruche epidermiche) ben sviluppati o far regredire quelli insorgenti, come pure per atrofizzare i calli, si applica su di essi il lattice fresco, ossia colante direttamente dalle foglie e dalle caule dell’euforbia, particolarmente della cuphorbia cyparissias ed hilioscopia
8) Cataplasmi per lividi o ecchimosi: pestare su lastra marmorea dell’erba vetriola fresca (parietaria officinalis); raccogliere e mescolare con distrutto (sugna non salata) q.b.; applicare in loco. Entro poco tempo inizia l’effetto, sciogliendosi l’ematoma, che scompare completamente in 2-3 giorni.
9) Ascessi e suppurazioni: nei casi più gravi si usano cataplasmi di lino e altea, nei casi meno gravi (per es. suppurazione per una spina o per una scheggetta di ferro entrate nella carne), si applicano quelli di miele e lievito di pane, impastati a caldo, oppure impiastri di foglie di lapazio (rumex crispus); nei casi leggeri basta applicare una o due foglie di rovo (rubus fruttcosus), tenute bene aderenti da una fascia.
10) Foruncoli: i primi cataplasmi da applicarsi sono quelli di semi di lino (linum usitatissimum) e foglie di malva (malva sylvestris), mescolati immersi in un sacchettino di tela; in un secondo tempo si applicano cataplasmi di miele impastato a caldo con farina di grano, oppure di miele ed erba vetriola, ovvero di miele e malve cotte, a seconda della disponibilità del componente vegetale, e sempre contenuti in sacchettini di tela.
11) Pomata per la scabbia: si mescolano in parti uguali sugna pura (non salata) e zolfo depurato; si applica a freddo.
Affezioni dell’apparato digerente
1) Lassativo: si cuociono in acqua le foglie e il picciolo di malva comune; si colano e si condiscono con olio di oliva e sale (cloruro di sodio); si mangiano col pane se si usano come lassativo blando, senza pane per lassativo più energico.
2) Purgante: si fanno bollire in acqua le foglie e le radici della pianta giovane o le sole foglie col caule (se bienni) del tasso verbasco (verbascum thapsus); si cola e si fa intiepidire, si addolcisce con un po’ di miele. La pozione, in piccola dose, è un ottimo espettorante, in dose maggiore è un purgante energico per la rilevante presenza di mucillagine (3,5%) e di peluria.
3) Clistere: in caso di costipazione intestinale, usavano fare dei clisteri con decotto di mercorella (mercurialis annua): gr. 125 di foghe secche in un litro d’acqua, filtrato con panno, aggiunta di miele sino a raggiungere la densità del latte. Per un adulto se ne usava circa due once (gr. 54) in una libra d’acqua tiepida (gr. 330 circa).
4) Astringenti e antidiarroici: nei casi meno gravi si usava l’infuso della centinodia (polygonum aviculare): un cucchiaio di foglioline in una tazza di acqua. Nei casi più gravi, si preferiva il decotto di foglie e steli della medesima centinodia. Nelle diarree emorragiche o semplicemente con striature ematiche, sbucciavano e trituravano alcune mandorle amare e le lasciavano a macero per alcune ore (quattro circa) nell’acqua a temperatura ambiente, quindi passavano e bevevano una tazzina di quell’acqua due o tre volte in una giornata.
5) Contro gli ascaridi: facevano ripetutamente annusare ai fanciulli le foglie soffregate di ruta (ruta graveolens); oppure somministravano loro delle zollette di zucchero intrise con alcune gocce di petrolio, di solito tante gocce quanti erano gli anni del paziente; oppure facevano deglutire due cucchiai di olio d’oliva tiepido, in cui era stato soffritto dell’aglio spappolato (allium sativum).
6) Contro la tenia: usavano mangiare molti semi freschi di zucca (cucurbita pepo); oppure gli stessi semi secchi pestati e mescolati con miele; questa seconda formula era preferita per i bambini.
7) Nelle infiammazioni delle vie urinarie: sceglievano gli stoloni della gramigna (agropyrum repens), li mondavano dai cauli e dalle radici, li tenevano per alcune ore a bagno in acqua tiepida per togliere loro il sapore nauseante, poi li facevano bollire (gr. 50 in un litro d’acqua) per circa mezz’ora; colavano e lasciavano intiepidire, poi, con o senza dolcificazione, ne bevevano una tazzina 2-3 volte al giorno.
8) Nelle emorroidi: facevano bollire in acqua le foglie, sia radicali che cauline, del verbasco ondulato (verbascum sinuatum); colavano in un vaso idoneo e vi sedevano sopra; facevano anche, a seconda dei casi, i fomenti con lo stesso decotto.
Affezioni delle vie respiratorie
1) Contro il catarro: bollitura di orzo mondato (hordeum vulgare), colata, edulcorata con miele abbondante; oppure, nei casi meno gravi (come semplice irritazione della gola), infuso di rose rosse e particolarmente di rosa gallica.
2) Contro la tosse asmatica: facevano bollire in due litri d’acqua gr. 600 di carrube (ceratonia siliqua), gr. 50 c. di foglie di ceraso (prunus avium), sino a ridurre il liquido a metà; indi colavano e dolcificavano con gr. 500 di zucchero (preferito in questo caso al miele) e portavano lo sciroppo a ebollizione, poi lo lasciavano intiepidire e lo sorbivano a tazzine più volte il giorno, ai primi sintomi di accesso.
Affezioni varie
1) Lozione antireumatica: facevano un decotto in un litro di vino (ottenuto da mosto concentrato) con 10-15 infiorescenze di spigo (lavandula spica), un ramoscello di rosmarino (rosmarinus officinalis), 10 foglie di alloro (laurus nobilis). Facevano impacchi caldi e massaggi tre volte al dì per tre giorni consecutivi.
2) Contro i dolori di testa: facevano bollire in acqua foglie e ramicini di strega gialla (stachys annua) e di fanciullaccia (nigella damascena); colavano e lasciavano intiepidire; intanto però ne respiravano le esalazioni, indi con quell’acqua si lavavano mani, polsi e faccia; ne facevano anche impacchi caldi alle tempie.