Diario di viaggio dall’Ucraina, luglio 2022

di Vittorio [QUI IL PDF]

Il Diario di viaggio dall’Ucraina, nella sua versione integrale, uscirà su Rivista Malamente #26 (settembre 2022): qui una breve ma significativa anticipazione.

Piazza principale di Bucha. Qui e seguenti: foto di Vittorio e BVE.

Durante la fine di febbraio 2022 molti avevano visto arrivare la tempesta, le centinaia di migliaia di soldati russi ammassati ai confini dell’Ucraina non potevano essere lì per un’esercitazione come recitavano le goffe veline dalla propaganda di Mosca. Purtroppo la comprensione del conflitto che andava avanti dal 2014 nel Donbass, e ancora prima quella delle tumultuose giornate di piazza Maidan a Kiev, era in Europa occidentale ristretta a un piccolo gruppo di cultori della geopolitica o di antifascisti convinti che avevano da tempo monitorato i preoccupanti sviluppi del neofascismo in quella zona del mondo. O, forse, lo strisciante senso di superiorità rispetto a una nazione ritenuta povera, patria di badanti e terra di nostalgie post-sovietiche ha impedito a molti di conoscerla e di capirla in tempo utile.

L’invasione del 24 febbraio 2022 ha portato la guerra in casa di tutti e tutte.

La rabbia e il sentimento di impotenza, ancora una volta, erano troppo forti per restare a guardare e così tra alcuni compagni e compagne della rete delle Brigate Volontarie per l’Emergenza ci siamo detti che dovevamo fare qualcosa. Intervenire in un conflitto è rischioso e complesso soprattutto dal punto di vista delle relazioni con gli attori sul territorio: con chi si può parlare? Di chi ci possiamo fidare? Come non essere immediatamente arruolati da una delle parti in conflitto?

A marzo e aprile abbiamo fatto tre viaggi dall’Italia, piccoli ma significativi, con beni di prima necessità raccolti grazie alla solidarietà popolare e siamo riusciti a portare in Italia una decina di rifugiati che avevano chiesto un passaggio sicuro

A luglio siamo tornati e ci siamo messi in ascolto delle voci e delle azioni, che parlano da sole, di numerosi compagni e compagne che sebbene siano una minoranza mantengono con coraggio posizioni visibili e attive in una società sempre più militarizzata. Operation Solidarity, Solidarity Collectives, Helping War Victims, Social Movement, Commons Ukraine, iniziative femministe, subculture LGBTQ o punk hardcore, sono solo alcune delle voci che abbiamo conosciuto e che raccontano un’opposizione sociale viva e creativa, anche se minoritaria in una società sconvolta dal neoliberismo e poi dalla guerra e dal nazionalismo.

Qui di seguito l’intervista a Sergey Movchan di Solidarity Collectives, attivista nel monitoraggio dell’estrema destra in Ucraina e Russia – Kiev, 9 luglio 2022.

Ragazze fanno la spesa a Irpin

VITTORIO      Cosa pensi della situazione dell’estrema destra in Ucraina? La percezione che abbiamo in Europa è che l’estrema destra stia alla testa della resistenza alla Russia. Qualche volta l’estrema destra è ben visibile, come nel caso della resistenza di Mariupol, e per questo motivo per i compagni in Europa è molto difficile dare un sostegno all’Ucraina contro l’invasione perché le cose sono complicate dalla pregiudiziale antifascista. Puoi dirci la tua opinione sul ruolo politico e sociale dei gruppi fascisti, prima e durante questa guerra?

SERGEY         Prima di tutto dobbiamo scavare un poco nella storia. Prima del 2014, prima della rivolta di piazza Maidan, l’estrema destra non era molto forte, era soltanto una delle tante forze nelle strade. Sebbene avessero alcuni membri in parlamento, cosa che non hanno ora, erano comunque marginali nella società. Dopo Maidan la situazione è cambiata. Quello è stato davvero un palcoscenico per loro e sebbene non fossero la maggioranza dentro Maidan erano però ben organizzati e preparati per la violenza ed è questo il motivo per cui le organizzazioni di estrema destra sono diventate molto popolari. Quando la guerra in Donbass è iniziata, e dopo l’occupazione della Crimea, i fascisti hanno formato i battaglioni volontari: Aidar, Donbass, Azov etc. e sono diventati i veri eroi della guerra, ricevendo molte attestazioni di popolarità perché erano stati anche i leader di Maidan.

L’esercito era debole e i battaglioni di volontari sono diventati presto gli eroi di quella guerra. I nazionalisti per anni hanno ripetuto che la Russia era il nemico e quando questa ha di fatto annesso la Crimea e poi il Donbass il loro discorso ha ricevuto una legittimazione. Il problema non riguarda solo questi partiti di estrema destra, ma il fatto che l’ideologia mainstream sia diventata una versione soft del nazionalismo. Questa è stata una vittoria della destra perché sono stati capaci di influenzare l’agenda pubblica verso il nazionalismo e hanno silenziato le voci che erano contro di esso. Queste contraddizioni naturalmente ancora esistono, così come esistono differenze tra l’Ovest e l’Est dell’Ucraina. Questa dunque è stata la loro vittoria ma allo stesso tempo anche una sconfitta.

Nei pressi dell’aeroporto internazionale Antonov di Kiev-Hostomel

VITTORIO      Come si relazionano gli antifascisti con le forze militanti della destra come Azov e Pravy Sector e con i valori del nazionalismo e patriottismo che si stanno diffondendo nella società?

SERGEY         Possiamo vedere un consenso verso questi valori nei media, ma non nel paese. Il battaglione Azov è diventato un eroe della guerra 2014-2015 in Donbass, ma in seguito è stato spostato dal fronte e prima di questa guerra c’erano rimaste solo due unità politicizzate nell’esercito ucraino. Una è Pravy Sector che come progetto politico è totalmente fallito ed è uno spazio vuoto. Di fatto non possono diventare un partito politico rispettabile e non possono nemmeno avere l’egemonia nelle strade perché Azov ha preso il loro posto. Così visto che hanno perso tutto si sono anche divisi, benché esistano ancora e abbiano un battaglione di volontari nell’esercito ucraino. Quando il battaglione Azov ha creato un partito politico, i suoi capi hanno lasciato l’esercito e hanno iniziato una carriera politica fondando il movimento Azov e il Corpo Nazionale. Il battaglione Azov negli anni è diventato sempre meno politicizzato e ha smesso di esprimere delle rivendicazioni politiche. Sebbene sia diventato un simbolo dell’estrema destra, ha arruolato molte persone ordinarie, cioè persone con idee nazionaliste e patriottiche ma non naziste. Questa è la mia analisi e su di essa c’è un certo consenso tra i ricercatori che si occupano di estrema destra in Ucraina, puoi trovare delle analisi simili anche nel libro di Michael Colborne su Azov[1].

VITTORIO      Come interagite con loro?

SERGEY         Non abbiamo punti di contatto con loro. Loro non agiscono nelle strade, hanno le loro basi e posti dove svolgono attività militare. Noi abbiamo conflitti con il Corpo Nazionale e con il movimento Azov, entrambi hanno collegamenti tra loro ma anche autonomia di azione. La più grande minaccia per il movimento LGBT e per le persone di sinistra sono queste organizzazioni. I membri del Corpo Nazionale attaccano gli avversari politici del momento, che oggi sono gli attivisti pro-russi. Oggi non sono così interessati alla violenza politica e al conflitto ideologico con noi semplicemente perché non vedono la sinistra come un avversario, siamo fin troppo piccoli per loro. Il problema è che loro hanno delle sedi in ogni regione dell’Ucraina e coinvolgono i giovani: se vai a una manifestazione del Corpo Nazionale troverai tanti giovani, persino dei bambini. Questo è appunto un problema. In alcune provincie i loro spazi sono gli unici posti dove puoi fare qualche attività sociale. Sono attraenti, organizzano allenamenti, corsi sportivi, tornei, club di lettura, ti portano a Kiev a fare gli scontri con la polizia e tutto questo è molto fico quando sei giovane.

Prima della guerra, quando c’era solo la minaccia del conflitto, molte persone non pensavano che la Russia ci avrebbe veramente attaccato, mentre Azov ha iniziato a costruire delle infrastrutture e ad addestrare i civili, organizzandosi, così ci siamo trovati con il battaglione Azov a Mariupol e il Corpo Nazionale nella Difesa Territoriale. Hanno organizzato le loro unità come ogni altra organizzazione politica ha provato a organizzare le proprie: noi abbiamo costituito il battaglione Anti-autoritario. Questo è uno dei motivi per cui ti ho detto che la guerra del 2014 è stata molto più vantaggiosa per la destra rispetto a questa. Oggi sono solo una forza tra tante altre e devono competere con molti altri su questo terreno, perché tutti hanno i propri combattenti: la sinistra, il movimento LGBT, le femministe, gli anarchici, i liberali, tutti. Azov è sicuramente più grande in termini di numeri ed equipaggiamento ma non è la stessa organizzazione di prima.

Nella Difesa Territoriale penso che invece Azov abbia molte persone. A Kharkiv dove sono sempre stati molto forti hanno due unità della Difesa Territoriale, un battaglione è formato da cento persone. Certo noi non abbiamo un battaglione femminista, ma abbiamo persone del movimento LGBT in qualche battaglione, magari sono dieci persone però sono presenti. Perché la destra è così visibile? Perché sanno promuovere la propria immagine.

Giochi di guerra a Irpin

VITTORIO      La resistenza di Mariupol è stata molto importante nello spazio mediatico, quale è stato il ruolo di Azov nello sforzo militare?

SERGEY         C’erano tante persone in più a Mariupol, prima di tutto i marines ucraini che erano la forza militare principale. Azov sicuramente era importante e molte persone lo sostenevano. Ho visto persone del movimento femminista o LGBT esporre la runa del wolfsangel nel proprio avatar su internet per mostrare sostegno alla resistenza di Mariupol, non perché sostengano l’ideologia che c’è dietro ma perché sostenevano chi si stava difendendo.

La situazione con l’eredità di Bandera[2] è la stessa che riguarda i simboli del nazionalismo. Bandera è diventato un simbolo della lotta anticoloniale Ucraina contro la Russia e un sacco di persone con idee progressiste dicono che se la Russia insiste a dire che siamo tutti “banderisti” beh allora… “siamo tutti banderisti!”. Per questo Bandera è diventato un’icona della lotta ucraina, ma questo non significa che le persone che lo prendono per un eroe conoscano o sostengano le sue idee. Questo tuttavia è un vero problema, non puoi ad esempio prendere Mussolini come simbolo e buttare via le sue idee, comunque ti porterai dietro qualcosa. Così pensare che Bandera sia un eroe è un errore. Adesso però è così e addirittura alcuni compagni usano la sua bandiera rossa e nera con le bande orizzontali. Attualmente non c’è una vita politica pubblica in Ucraina, nessuno ti chiede chi sei; se difendi lo Stato dall’invasione russa vai bene a tutti. Naturalmente la vita politica ricomincerà e già vedo i primi tentativi di fare politica, ma tutt’ora la principale differenza è se sei pro-Russia o pro-Ucraina e nessuno prende in considerazione la tua ideologia.

VITTORIO      Dopo aver ascoltato la tua spiegazione da un punto di vista antifascista vediamo una competizione militare che sta andando avanti sotto la guerra; c’è una guerra contro la Russia ma c’è anche un conflitto interno, quale dovrebbe essere la posizione degli antifascisti in Europa?

SERGEY         Avremo una vita politica in futuro, ma la maggior parte degli antifascisti pensa che se l’Ucraina vincerà la guerra l’estrema destra avrà ancora più potere. Dal mio punto di vista la situazione è davvero diversa. Se l’Ucraina vincerà la guerra, o comunque farà un buon negoziato, questa sarà la vittoria di Zelensky: lui non è un nazista, vuole vendere i suoi spettacoli anche in Russia (ride), vede l’Ucraina come un paese multiculturale, adesso si atteggia a patriota ma nella sua vita privata parla russo come la sua famiglia e tutti i suoi amici. In caso di vittoria avrà l’amore del popolo e diventerà di nuovo popolare per un po’. Aveva perso tutta la sua popolarità e solo grazie alla guerra l’ha recuperata. Diventerebbe un eroe. Ma se Zelensky e l’Ucraina perderanno la guerra o accetteranno un cattivo negoziato avremo la nascita di un revanscismo, di un movimento contro la capitolazione e ovviamente questo movimento verrà guidato dai fascisti. Ci sarà anche Poroschenko ma in prima linea ci saranno il Corpo Nazionale, Pravy Sektor, il partito Svoboda e l’estrema destra diventerà ancora più forte.

Graffiti nazisti su un posto di blocco a Kiev

VITTORIO      Come possono aiutare l’Ucraina gli antifascisti?

SERGEY         Secondo me, e io non sono affatto un patriota, la vittoria dell’Ucraina è una questione di vita o di morte. Vivere sotto l’occupazione russa è una follia, è il terrore. Parlo con i miei compagni che sono nei territori occupati, ho informazioni da compagni che sono nella regione di Kherson e di Zaporija: la vita sotto occupazione non significa pace, bensì morte, violenza, torture, disastro economico e naturalmente terrore politico. L’Ucraina è un paese molto più libero in confronto alla Russia, per quanto riguarda il diritto a manifestare, le leggi sul genere etc., e per noi questa è una questione esistenziale. Sotto il potere russo verremmo tutti repressi.

Se parliamo in generale, se parliamo di tattica, quello che stiamo facendo adesso è molto importante per la futura esistenza di un movimento di sinistra perché, come ho già detto, nel 2014 l’estrema destra è riuscita a presentarsi come l’unica capace di difendere l’Ucraina e ci dicevano «dove eravate quando stavamo lottando per voi?». Adesso non possono dirlo e ogni giorno che stiamo a combattere in prima linea o facciamo dei convogli umanitari e portiamo qualche aiuto – non soltanto ai nostri compagni ma anche alle unità della difesa territoriale, alle persone che hanno perso le loro case – stiamo dando il nostro contributo alla nostra esistenza. Senza questo sforzo non c’è nessun futuro per gli antifascisti in Ucraina.

Comunque non vedo un futuro luminoso per noi. Le idee di sinistra non sono molto popolari da queste parti, ma se non facessimo queste scelte non potremmo proprio esistere. Quindi vedo che il nostro lavoro di volontari e comunicatori è a volte più importante di quello dei combattenti; in questo modo riusciamo a diffondere le nostre idee e a essere visibili non solo tra la nostra gente di sinistra ma anche nella società più in generale. Molti hanno iniziato a conoscerci. Domani andremo a incontrare alcuni sindacalisti a Kryvyj Rih. Si tratta dei classici operai di fabbrica, maschi e rudi, che sono diventati nostri contatti solo grazie alle azioni di solidarietà. Naturalmente senza l’aiuto dei compagni europei tutto questo e persino l’esistenza di una Ucraina anti-autoritaria non sarebbero possibili. Potrei dire che grazie a voi abbiamo un futuro.

VITTORIO      Avete dei contatti con dei compagni in Russia in questo momento?

SERGEY         Sì abbiamo dei contatti, conosco però alcuni compagni che odiano i russi e non vogliono avere nessun contatto. Alcuni pensano di essere di sinistra ma nella realtà sono degli etno-nazionalisti. Io continuo a parlare con i compagni in Russia anche se alcuni sono emigrati. Ho buoni contatti con gli organizzatori del canale Telegram antifa.ru[3], con loro stiamo continuando a lavorare sul monitoraggio del movimento di estrema destra, perché molti fascisti russi che erano contro Putin sono venuti in Ucraina e si sono uniti ad Azov o ai Corpi Nazionali. C’è stata una rottura nell’estrema destra russa: i monarchici, i conservatori e i tradizionalisti sostengono le repubbliche separatiste, mentre i nazisti, per la maggior parte, sostengono l’Ucraina perché avevano dei collegamenti tramite le subculture musicali e calcistiche. Anche i russi hanno dei nazisti che combattono al loro fianco, ad esempio è molto attivo in Donbass il gruppo Rusich, fatto di fanatici assassini, avranno una consistenza di almeno trenta persone.[4]

Bucha, protesta dei residenti per la ricostruzione

VITTORIO      Cosa pensi dell’indipendentismo nel Donbass in termini di antifascismo? Ci sono veramente delle repubbliche socialiste laggiù?

SERGEY         Ovviamente non è vero, non hanno niente a che fare con il socialismo. Le repubbliche del Donbass sono dei governi fantoccio controllati totalmente dalla Russia. Fino al 2015 c’erano alcuni signori della guerra con delle idee, la Russia li ha uccisi e adesso ha il controllo totale. Il principale signore della guerra, Mozgovoy, e il battaglione Prizrak non sono affatto di sinistra; se pensi che il partito comunista in Ucraina o in Russia siano di sinistra ti sbagli. Sono dei conservatori con la nostalgia del socialismo e questo è l’unico ingrediente che li unisce alla sinistra.[5] La situazione economica da quelle parti è molto negativa. In questi otto anni abbiamo avuto il problema che l’Ucraina non ha dato informazioni sulle perdite nel conflitto, questo è un tabù e per gli indipendentisti il numero di vittime è l’elemento principale della loro mitologia, ma nel 2021 sai quante vittime ci sono state in Donbass? Quindici persone… il conflitto è iniziato con 5.000 morti nel 2014 ma poi c’è stato un decremento sostanziale.

All’inizio il movimento ha iniziato a chiedere la federalizzazione, in Ucraina molte persone pensano che conquistare il Donbass fosse il piano dei russi fin dal principio. Io non sono d’accordo. Il conflitto è stato iniziato dalle élite locali che avevano perso il potere e hanno cercato di sostenersi appoggiando le idee separatiste a favore della Russia. Abbiamo avuto più di un milione di sfollati che hanno lasciato il Donbass, persone pro-Ucraina, dunque non è stato come nel caso della Crimea dove effettivamente la maggior parte degli abitanti sostiene la Russia. Quando le forze speciali russe hanno catturato Sloviansk nel 2014 abbiamo assistito a una escalation nella guerra. La Russia ha agito sotto la pressione della situazione e ha iniziato a sostenere le richieste di indipendenza ma inizialmente, secondo me, mirava a creare e mantenere un’area di instabilità in Ucraina.

Centro commerciale

[1] Michael Colborne, From the fires of war: Ukraines Azov Movement and the global far right, Columbia University Press, 2022; il libro rappresenta a oggi lo studio più approfondito sulla destra neofascista in Ucraina.

[2] Stepan Bandera (1909-1959) è stato un politico ucraino di estrema destra fondatore dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini e dell’Esercito Insurrezionale Ucraino. Entrambe le organizzazioni erano basate su valori etno-nazionalisti e sostennero i nazisti tedeschi durante l’occupazione dell’Ucraina, in chiave anti-sovietica e anti-russa, collaborando anche al genocidio degli ebrei della regione.

[3] Link per il canale Telegram: t.me/antifaru.

[4] Per approfondire si può leggere l’articolo di Saverio Ferrari, Inchiesta “88”: Donbass, mercenari neonazisti e “rosso-bruni”, (2018), su http://www.osservatoriosulfascismoaroma.org.

[5] Per approfondire gli aspetti reazionari delle organizzazioni politico-militari del Donbass russo si rimanda a questo articolo, molto ben documentato: Saverio Ferrari, Miti e realtà: sui fascisti in Ucraina, nel Donbass, in Russia, e sulla strage di Odessa, su https://mps-ti.ch.

Letture per resistere – 2 (#19)

Recensione di: David Bernardini, Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Milano, Shake, 2020, pp. 176, 14 euro.

Di Archivio Antifascista

Il rosso e il bruno. Erano questi i colori dominanti del primo nazismo (contrazione lessicale di nazionalsocialismo): il rosso della bandiera con la svastica, ideata da Hitler per evocare il socialismo, e il bruno delle uniformi delle S.A. (Sturmabteilung), la prima organizzazione armata paramilitare del partito nazista. Le Squadre d’assalto, fondate e comandate da Ernst Röhm, furono infatti note anche come “camicie brune” o “armata bruna”, ma vennero pure soprannominate sezioni “bistecca”, ossia brune fuori e rosse dentro, non solo perché vi aderirono in maggioranza lavoratori industriali e agricoli [circa il 62%][1] – tra i quali numerosi ex comunisti o ex socialdemocratici – ma in quanto attraversate da una concezione marcatamente anti-borghese del nazionalsocialismo.

Oltre che tra gli squadristi della S.A., era infatti convinzione diffusa nella “sinistra” del nazionalsocialismo che fosse necessaria una “seconda rivoluzione” che portasse alla liquidazione dei privilegi dei ceti borghesi, dei banchieri e della dinastia imperiale, entrando in conflitto con Hitler per la sua politica subalterna al capitalismo industriale, tanto da essere accusato di tradimento.

Su posizioni ulteriormente estremiste, fin dagli inizi del movimento nazionalsocialista, era stata forte la tendenza definita come “nazionalboscevica” che faceva proprio il modello sovietico del socialismo da caserma, giungendo a una visione strategica in cui l’asse imperiale euro-asiatico – con Terzo Reich e Urss alleate – avrebbe conteso il dominio continentale alle nazioni liberaldemocratiche dell’Occidente.

Tale prospettiva, negli anni Trenta, in Germania poteva vantare diversi precedenti storici, risalenti a von Clausewitz, e anche riferimenti filosofici, tra i quali Jünger; ma l’aspetto più significativo è che nel cruciale primo dopoguerra tedesco il suggestivo incontro tra l’ideologia nazionalista e quella del “socialismo in un solo paese” portò al costituirsi di formazioni e correnti politiche ad esso ispirate, sia in campo nazionalista che in settori social-comunisti.

Tra i principali protagonisti di queste diverse esperienze troviamo i nomi dei comunisti Laufenberg e Wolffheim, dei socialisti Niekisch, Winnig e Paetel, dei nazionalsocialisti fratelli Strasser. Questi ultimi, dopo essere stati promotori e dirigenti del movimento nazionalsocialista nella Germania settentrionale, con forte seguito anche in contesti operai, entrarono in aperto conflitto con Hitler, sia per l’intransigente opposizione alla dinastia imperiale che per la loro concezione di “estrema sinistra” del partito[2].

Infatti, durante la Notte dei Lunghi coltelli – 30 giugno 1934 – Hitler ordinò alle S.S. e alla Gestapo di eliminare fisicamente i vertici delle S.A., a partire dall’ex camerata della prima ora Röhm, assieme a esponenti nazionalbolscevichi come Gregor Strasser, oltre a militari dissidenti e alcuni esponenti della destra conservatrice; ma appare evidente che i principali obiettivi del massacro furono le turbolente S.A. e la “sinistra” strasseriana, nonché una loro possibile convergenza per liquidare e sostituire Hitler[3]. La reazione nazista non risparmierà neppure i presunti fiancheggiatori di Röhm e Strasser negli ambienti artistici, bollati come «bolscevichi della cultura»[4]

Le relazioni intessute tra la Repubblica di Weimar e l’Urss continuarono anche dopo l’avvento del nazismo. Alcuni documenti del ministero degli Esteri tedesco, resi pubblici a Londra negli anni Cinquanta, provano che già nel 1933 vi erano state trattative segrete tra esponenti del governo di Mosca e quello di Berlino. Come è noto questo intenso lavoro diplomatico avrebbe portato a diverse intese russo-tedesche (agosto 1939: accordo commerciale; 23 agosto: patto Ribbentrop-Molotov di non-aggressione; settembre 1939: trattato di amicizia; febbraio 1940: nuovo accordo economico[5]) e, prima della sconfitta totale, alcuni gerarchi e settori nazisti avrebbero inseguito in extremis una pace separata con l’Unione Sovietica. Si trattò comunque di decisioni, dettate da convenienze economiche e dai rispettivi tatticismi, che non rispecchiavano assonanze sul piano ideologico o strategico, in quanto il nazionalbolscevismo era stato da tempo debellato, anche se la fazione “di sinistra” del complotto militare antihitleriano del 20 luglio 1943 – l’Operazione Valchiria orchestrata da von Stauffenberg – sarebbe stata favorevole a un armistizio con Mosca[6].

Questa sintetica premessa può essere utile per presentare il lavoro di ricerca storica da tempo svolto da David Bernardini che ha portato alla recente pubblicazione del libro Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa (Shake edizioni, Milano 2020).

Infatti, se a partire dai primi anni Novanta sono riemerse aree politiche e culturali richiamantesi all’esperienza storica del nazionalbolscevismo, d’altro canto il rosso-bruno è divenuto, paradossalmente, un’indistinta categoria post-ideologica che allude variamente alla presunta fine della contrapposizione tra destra e sinistra, con possibili sintesi o convergenze tra gli orizzonti del fascismo e del comunismo, ma anche al risibile superamento della critica della divisione in classi della società, a favore della riesumazione dell’identità – nazionalista o nazionalitaria – collegata al concetto, ambiguo, di comunità popolare[7].

John Heartfield, “Mimikry”, 1934. “Quando tutti i tentativi di trasmettere idee nazionalsocialiste alla classe operaia fallirono, Goebbels ebbe un’ultima disperata idea: persuase il Führer a indossare una barba di Karl Marx quando in futuro si sarebbe rivolto ai lavoratori”.

Le sinergie nazionalbolsceviche o nazionalcomuniste perseguono infatti una prospettiva rivoluzionaria, confidando che «si manifesterà la superiorità dell’appartenenza nazionale su quella di classe» mentre, nella futura «patria socialista», non sarà abolita la proprietà privata ma integrata in una sorta di capitalismo di Stato.

Per questo il comunismo di riferimento è la sua degenerazione staliniana, tra piani quinquennali e guerre patriottiche, non certo quello dell’internazionalismo delle classi sfruttate. D’altronde, l’ordine sociale a cui aspira non si discosta significativamente dalla dittatura nazista, condividendone la concezione totalitaria dello Stato, razzismo e sessismo inclusi.

Paradossalmente, negli ultimi decenni, queste teorie hanno visto una loro sconcertante rinascita soprattutto nella Russia post-sovietica, vedendo sorgere un’area politica ultranazionalista, comprendente organizzazioni diverse, in cui si mescolano sinistramente fascismo, stalinismo e nostalgie zariste, concretizzando quella fusione «di destra e sinistra contro le élite» teorizzata da Aleksandr Dughin.

Negli anni Sessanta e Settanta, oltre che in Francia con i movimenti promossi o legati al belga Jean Thiriart[8], l’Italia è stato il secondo paese europeo dove si formarono raggruppamenti e teorici variamente influenzati dalla corrente nazionalbolscevica, richiamandosi altresì al cosiddetto fascismo di sinistra, ossia alle dissidenze interne al regime mussoliniano che rivendicavano l’originario Programma dei Fasci del 1919 e alla corrente “socializzatrice” della Repubblica di Salò.

Dopo l’esperienza di Giovane Europa (filiazione italiana di Jeune Europe di Thiriart) fu, in particolare, l’Organizzazione Lotta di Popolo a tentare di accreditarsi come terza posizione, rivoluzionaria, secondo la nota formula di dannunziana memoria «aldilà della destra e della sinistra», sino a giungere a mettere sullo stesso piano antifascismo e anticomunismo, quali ideologie funzionali al «sistema». Lotta di Popolo, pur senza mai giungere alle posizioni nazionalbolsceviche, esprimeva una forte contrapposizione al capitalismo – a partire da quello statunitense – non nascondendo simpatie per la rivoluzione cinese, nella convinzione «che il comunismo ha trionfato solo quando si è identificato con la causa nazionale, proprio come ha fatto Stalin»[9].

Se queste erano le pur eterodosse coordinate teoriche di Lotta di Popolo, la sua effettiva attività risultò assai meno univoca, con evidenti risvolti di provocazione nei confronti del movimento studentesco e della sinistra extraparlamentare, mentre è accertata la collusione di alcuni suoi dirigenti e militanti con gli apparati statali durante la stagione dello stragismo, nonché i suoi collegamenti con gruppi dichiaratamente nazi-fascisti, a loro volta impegnati a compiere azioni dimostrative, danneggiamenti e attentati con falsa matrice anarchica o maoista[10].

Tali aspetti meriterebbero peraltro uno specifico approfondimento, non tanto per la – tutto sommato – breve stagione di Lotta di Popolo (1969 – ’73), ma per aver essa fornito i «quadri metapolitici» a successive formazioni armate dell’estrema destra (Anno Zero, Terza Posizione, Costruiamo l’azione…) che ne raccolsero il testimone, nonché per l’influenza nei percorsi avviati tra gli anni Ottanta e Novanta con la rielaborazione e la penetrazione culturale di elementi teorici di quell’area politica in ambiti sociali senza più un’identità di riferimento a sinistra.

L’epoca del post-ideologico ha inoltre aperto larghi spazi all’ideologia dell’obliquo, con accenti apparentemente antisistemici che in Italia attraversano partiti istituzionali come la Lega e il Movimento 5 Stelle e, fuori dal parlamento, gruppi sovranisti di destra e di sinistra che si rispecchiano nella retorica del complotto, ordito da oscure entità mondialiste ai danni dei popoli.

Nei confronti di questo sottofondo trasversale, nella polemica politica ritorna impropriamente il riferimento superficiale al rosso-brunismo, accreditando presunti intellettuali anticonformisti che, per aver rotto «il tabù dell’impurità» (come rivendicato da Costanzo Preve, passato dal marxismo al comunitarismo “moderno”), sono comodamente invitati nei salotti televisivi per screditare la “sinistra radical chic”[11].

Da parte sua, la controinformazione antifascista sovente ha intravisto l’ombra del nazionalbolscevismo pure in gruppi fascisti tricolorati, con appena qualche velleità di ribellismo, o nelle parole d’ordine demagogiche della “destra sociale”, senza invece avvedersi di quanto certe tematiche e posizioni abbiano da tempo travalicato i tradizionali territori del pensiero di destra, dopo decenni in cui l’equiparazione morale tra chi combatteva a fianco dei nazisti e chi era nella resistenza è stata favorita anche dalla sinistra democratica nel perseguire una pacificazione nazionale senza memoria.

Persino settori della sinistra antagonista mostrano talvolta scarsa consapevolezza nell’adottare slogan e analisi provenienti dal campo avverso e scelte di campo, nel segno dell’antiamericanismo, a fianco di cattive compagnie che, indirettamente, ricalcano il copione del superamento rosso-bruno dell’antitesi tra nazione e classe[12].

In realtà, come ben chiarisce storicamente David Bernardini, il nazionalbolscevismo tedesco fu un fenomeno tutt’altro che banale e i suoi protagonisti pagarono con l’annientamento la loro opposizione alla strategia geopolitica imposta al partito nazista da Hitler, affiancato da gerarchi come Himmler e Goebbels con rinnegati trascorsi “strasseriani”.

Nonostante che tale tendenza, interna al nazionalsocialismo, sia uscita sconfitta e il fatto che in Italia l’area politico-editoriale che si ispira con qualche coerenza al nazionalcomunismo o al comunitarismo risulti minoritaria nel panorama del radicalismo di destra, è molto interessante tornare a Weimar per comprendere come, in tempi di crisi e senza utopie, i nemici dell’emancipazione sociale giocano la carta del nazionalismo come alternativa rivoluzionaria al dominio del capitale e quindi, come conclude Bernardini, «la sfida è allora rifiutare la trappola identitaria».


[1] Il dato è riportato in Peppino Ortoleva e Marco Revelli, La società contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1986.

[2] Gregor Strasser, croce di ferro durante la Prima guerra mondiale, poteva vantare di avere la tessera n. 9 del partito nazista; già Gauleiter di Monaco di Baviera e Bayreuth, nonché deputato al Reichstag, per un certo tempo fu l’unico a poter contendere la leadership a Hitler. Il fratello Otto, su posizioni anticapitaliste ancora più avanzate, dopo aver rotto con Hitler nel 1930 avrebbe fondato il Fronte Nero. Cfr Max Gallo, La notte dei lunghi coltelli. 30 giugno 1934, Milano, Mondadori, 1999.

[3] Per tale sorte i nazionalbolscevichi sono stati definiti da Armin Mohler come i «trotzkisti» del nazionalsocialismo; ma, come il trotzkismo rimane storicamente una tendenza del movimento comunista internazionale, nonostante la liquidazione dei suoi dirigenti a opera di Stalin, così è innegabile che il nazionalbolscevismo appartiene alla storia del movimento nazista. Cfr. Marco Rossi, I fantasmi di Weimar. Origini e maschere della destra rivoluzionaria, Milano, Zero in Condotta, 2001.

[4] Cfr. Lionel Richard, Nazismo e cultura, Milano, Garzanti, 1982, pp. 122-125. In particolare, già nel luglio 1933, i pittori Otto Andreas Schreiber e Hans Weidemann – certo non marxisti – erano stati accusati da Alfred Rosenberg di «bolscevismo culturale» e il pittore Karl Hofer aveva pubblicamente replicato che tali epiteti non avevano senso in quanto nel campo dell’arte il bolscevismo portava avanti una politica identica a quella dei nazisti, perdendo così il suo posto d’insegnante di Belle Arti e ricevendo il divieto di dipingere.

[5] Cfr. Arturo Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia, Roma, Erre emme, 1989.

[6] Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein o Dell’ostinazione, Torino, Einaudi, 2008.

[7] Sull’argomento si rimanda a Pietro Stara, La comunità escludente. La nuova destra tra piccole patrie e Europa nazione, Milano, Zero in condotta, 2007 (disponibile gratuitamente: https://www.zeroincondotta.org/testi/ps_lacomunitaescludente.pdf).

[8] Jean Thiriart (1922-1992), già volontario nella divisione Wallonien delle Waffen-SS, dopo essere stato condannato per collaborazionismo durante l’occupazione nazista e aver fondato nel 1963 Jeune Europe, nel 1969 avrebbe abbandonato la militanza attiva sino al 1982, quando prese parte alla fondazione del Partito nazional-comunitarista, divenendone il teorico di riferimento sull’immutato filo rosso-bruno per cui «La nazione è l’involucro e il socialismo il suo contenuto».

[9] Tale fascinazione per Stalin non fu peraltro ricambiata in Unione Sovietica dove i due principali esponenti nazionalbolscevichi russi, Pëtr Savichij e Nikolaj Ustrjalov, furono rispettivamente condannati a dieci anni di gulag (1945) e alla fucilazione (1937). Cfr. Sergej Kulešov, Vittorio Strada, Il fascismo russo, Venezia, Marsilio, 1998.

[10] Si veda, ad esempio, il capitolo Nazisti in maschera in Luciano Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano, Eelèuthera, 1997.

[11] Dopo aver soppiantato Massimo Fini, fondatore del Movimento Zero, Diego Fusaro rappresenta senz’altro il caso più avanspettacolare. Adepto del filosofo post-marxista Costanzo Preve, ha da tempo precisato che «il mio pensiero non è marxista (con buona pace del coro di chi continua a darmi del marxista)… mi limito a dire che l’obiettivo è per me la ridialettizzazione dell’odierno capitalismo assoluto: e per fare ciò, occorre tornare agli Stati nazionali, al conflitto di classe, al welfare state e alla progettazione operativa di futuri alternativi, sottratti alla presa fatale della globalizzazione e dell’eurocrazia dilagante. Non sono marxista, né voglio esserlo». Sulla base di tale impostazione, in sintonia con Casapound e il Partito comunista di Marco Rizzo, propone un fronte comune contro il «neocolonialismo immigrazionista» e si è fatto promotore della fondazione di Vox Italia, «movimento politico che unisce valori di destra e idee di sinistra» (da notizie disponibili nel web).

[12] Emblematico il caso del Donbass dove, nelle milizie filorusse, si trovano assieme volontari o mercenari di opposto orientamento – dai veterocomunisti ai neonazisti – pagati in dollari dall’autoproclamata Repubblica popolare per combattere le bande ultranazionaliste ucraine, appoggiate dagli Usa, dove militano altri gruppi nazifascisti. La simpatia dell’estrema destra per il Donbass peraltro non deve meravigliare dato che nella Costituzione della Repubblica popolare di Donetsk si vietano l’omosessualità e l’aborto, viene imposta la religione cristiano-ortodossa come religione di Stato e si esaltano i valori tradizionali del «Mondo Russo». Su tale realtà, oltre ai numerosi articoli di stampa in merito all’inchiesta giudiziaria aperta a Genova nell’estate 2018 che vede coinvolto anche il Partito comunitarista europeo, si rimanda ai numerosi interventi di Saverio Ferrari (Osservatorio democratiche sulle destre) presenti in rete.

“Fellini è vivo e lotta insieme a noi”

8 settembre 2018

L’immensa ruota luminosa sul lungomare di Rimini improvvisamente si accende al rosso dei fumogeni nella notte del sabato sera. I lounge bar regalano, senza accorgersi, aperitivi ai dimostranti, mentre un pianista nel dehors di una piadineria intona Bella Ciao. E un corteo improvvisato alza i pugni e le bandiere, stretto a panino tra polizia e caramba. Questo il finale della giornata di sabato a Rimini.
Oggi siamo contenti, ma anche incazzati e vi spieghiamo perché.
Siamo contenti perché il presidio antifascista in piazza Fellini è stato una giusta intuizione tattica: l’antifascismo militante è anzitutto l’abilità di ridurre fino a eliminare la capacità operativa dei fascisti. Dunque, anche dimezzare il percorso della loro oscena sfilata con la nostra presenza fisica ha avuto un senso.
Siamo contenti anche perché abbiamo scoperto che i lacci di solidarietà e collaborazione tra generazioni e collettivi di diversa provenienza geografica funzionano. La quantità è purtroppo scarsa ma non la qualità.
Siamo contenti, infine, perché la determinazione paga sempre, anche se per una volta non si prendono le botte che ti regalano la copertina, ma si dimostra lo stesso coraggio.
Siamo però incazzati perché i fascisti di Forza Nuova hanno fatto comunque una mezza sfilata a Rimini cercando di ritagliarsi una fetta di spazio alla corte del sovranismo di governo. Il miliardario compare degli stragisti Fiore, in crisi di consensi, deve perfino scagliarsi sugli scudi degli amici sbirri per ravvivare la sua immagine di capo. Peccato che i suoi sappiano picchiare, possibilmente in gruppo, soltanto persone indifese: la sceneggiata degli “scontri” risulta patetica.
Siamo incazzati perché alla città di Rimini, tutta concentrata sul rituale preserale di un sabato di fine estate, non glien’è fregato nulla né degli uni né degli altri, tanto che il giorno dopo qualche giornalista di bassa lega è riuscito a fare notizia per due scritte sui muri, senza accorgersi dei quasi duecento fascisti che hanno tentato di fare la passerella in città.
Il finale è comunque una risata felliniana. La nostra fiducia nella spontanea passione del popolo è alla base dell’arte della rivolta.
Viviamo tempi difficili. Il peggio, forse, verrà. Ma gli antifascisti e le antifasciste saranno ancora in piazza con Fellini.

E alla faccia di chi ci vuole male, per sdrammatizzare, vi regaliamo anche il Pagellone Antifascista.

I fasci in fondo al viale: 0. Togliete le bandiere che non vi vediamo.
Elicottero della polizia in volo radente: 2. Ottimo bersaglio per i bengala; apriamo il crowdfunding per un RPG.
Le torce nautiche: 3. Come cazzo s’accendono?!
Cani poliziotto: 4. Nostalgia dei punkabbestia.
Quello dei petardi tra i piedi: 5. Non dategli mai una boccia in mano.
Il pianista di Bella Ciao: 6. Compagno bella vita.
L’umarello di Belluno in bicicletta: 7. Abbandona la comitiva di pensionati salviniani e finalmente trova i compagni, “che io ho fatto il Sessantotto!”.
Compagno con elmetto e maschera antigas: 8. Anche l’occhio vuole la sua parte.
La chiatta sul Rubicone: 9. Traghetta di soppiatto compagni e compagne su piazzale Fellini in barba alla digos.

Squadristi a Rimini (#8)

Di Chiara Fanelli e Eugenio Salvatori [QUI IL PDF]




Estratti dalla tesi di laurea “Il biennio rosso nel riminese”, A. A. 2014/15
Di Eugenio Salvatori

La sera del 19 maggio accade il fatto più grave e tragico per la cittadinanza riminese, 65
da cui presto conseguirà una sempre maggiore stretta repressiva dello squadrismo fascista:
il già famigerato Platania, ex anarchico interventista, poi nazionalista fra i fondatori del
Fascio riminese, viene ucciso nell’atrio della stazione di Rimini.
Vengono immediatamente arrestati un gruppo di ferrovieri, comunisti e anarchici, che
negli attigui locali della stazione stavano festeggiando il trasferimento di un loro compagno,
colpevoli solo di essere usciti, come tanti, nel piazzale antistante la stazione dopo
aver sentito gli spari provenire dalle sale interne. Alcuni resteranno in carcere per lungo
tempo con l’accusa di aver ordito un complotto sovversivo in seguito al ferimento, di
qualche giorno precedente, dell’anarchico Bracconi, a cui erano seguite delle minacce
rivolte al Platania.

Nei mesi seguenti Carlo “il Monco” Ciavatti, anarchico individualista già carcerato, si
auto accuserà dell’omicidio e faticherà non poco a provare la propria colpevolezza, avendo
egli agito in solitaria e affermando che si era trattato di un regolamento di conti con l’ex
anarchico, facendo quindi decadere la tesi del complotto assai cara al fascismo di regime,
che aveva legittimato la violenza contro i sovversivi con quel delitto e chiuso in prigione
per anni i presunti colpevoli.
La notte del giorno seguente, il 20 maggio, l’orda fascista proveniente dalle città emiliane
di Bologna e Ferrara colpisce senza pietà la città di Rimini. Una cinquantina di camice
nere si scatenano per le vie del centro cantando i loro inni e spaventando la cittadinanza.
Questo il racconto de «L’Ausa»:

“Alle 20.30 incominciarono in piazza Cavour i primi incidenti fra fascisti e alcuni cittadini
ritenuti per comunisti, ma fortunatamente senza tristi conseguenze. Alle 21.30 circa i fascisti
spararono qualche colpo di rivoltella per intimidazione e infatti riuscirono nello scopo perché
la città si spopolò in un attimo e, mentre i carabinieri usciti dalla limitrofa caserma stavano
perquisendo innocenti passanti, i fascisti [guidati dal riminese Odella] si recarono nel sobborgo di San Giuliano e qui giunti, dopo aver imposto con spari di rivoltella e petardi la chiusura di tutte le finestre e le porte di casa, cosa che ottennero senz’altro, si recarono al Circolo ricreativo 13 Ottobre, i cui soci hanno fama di essere in gran parte anarchici e comunisti. In breve i mobili e quant’altro si trovava nei locali fu distrutto, quindi vi fu appiccato fuoco.”

A nulla valgono gli sforzi dei pompieri, che vengono bloccati dalle rivoltelle dei
fascisti all’altezza della chiesa dei Servi, prima del ponte di Tiberio, e costretti con
la forza a ritirarsi.

I fascisti – prosegue la cronaca de «L’Ausa» – indisturbati proseguirono nella loro opera punitiva. Recatisi in via Clodia appiccarono il fuoco al Circolo dei ferrovieri. Pianciti, biliardo, biblioteca, tavoli, abitazione del custode, tutto andò distrutto.

Alla devastazione del Circolo Primo Maggio segue quella della Cooperativa dei pittori. I pompieri accorrono questa volta scortati dalle guardie regie e, nono­stante il sabotaggio dei fascisti che tagliano le gomme dell’autopompa, riescono a domare l’incendio. I fascisti, non contenti, si recano poi sotto casa di Arturo Clari in via Castelfidardo:

e qui, dopo aver sparato vari colpi alle finestre, andati fortunatamente a vuoto, gettarono anche un petardo che scoppiò con gran rumore ma senza procurare danni.

Il giorno del funerale del Platania viene fissato per il 22 maggio, giornata che segna l’apice delle violenze prodotte a Rimini dal fascismo d’importazione. Si af­fermerà, da questo momento in poi, la presenza in pianta stabile dello squadrismo emiliano, armato e organizzato, considerato necessario dallo stesso Mussolini per abbattere la resistenza riminese al fascismo, nei luoghi tipici di quel sovversivi­smo diffuso, finora impermeabile al nuovo partito nazionalista. I pochi cittadini incappati sul percorso della cerimonia vengono fascisticamente educati a schiaffi. Evidentemente questa lezione non trova diffusione, se l’onorevole fascista Silvio Gai di Ancona, in una lettera ai giornali scriverà:

“Vergogna! Rimini non è città italiana.”

Ma questi episodi sono solo il preambolo del peggio: di ritorno dalla cerimonia funebre condita di tali violenze, i due camion fascisti condotti da Italo Balbo percorrono la via Emilia in direzione Ferrara, dopo aver ricevuto il cambio dagli squadristi bolognesi della Disperata di Arpinati. Sopraggiunti nel piccolo borgo rurale di Santa Giustina,

“fermarono i camion, percorrendo a piedi la borgata sparando all’impazzata”.

I fascisti non volevano solo fare paura e, forse delusi dalla scarsa presenza della cittadinanza al funerale, sparano per uccidere. Sotto i loro colpi cadono tre co­loni, cattolici e padri di numerosi figli non iscritti a nessun partito politico. La colonna di fuoco proseguirà verso nord, assalendo la redazione di «Lotta di classe» a Cesenatico. Le devastazioni di quei giorni e il tragico eccidio di Santa Giustina gettano Rimini e il circondario nello sgomento.

Schegge di antifascismo militante (#2)

Schegge di antifascismo militante
Di Valerio

“Le forze per impedire il tentativo di rinascita del fascismo esistono purché agiscano e facciano sentire il loro peso. Non è sufficiente dire che la storia non si ripete. È vero, non si ripete mai nelle stesse forme, negli stessi modi, ma se si lasciasse fare e non si lottasse con la giustezza e la decisione necessarie, mirando a precisi obiettivi, potrebbe ripetersi anche in peggio”.
Pietro Secchia

Pesaro, 1975 circa
Pesaro, 1975 circa

 

Per noi che avevamo conosciuto i partigiani che operavano nella nostra zona, avevamo udito dalle loro voci i racconti della guerra ai nazifascisti, percorso le valli e i sentieri dove operavano le brigate leggendarie (la quinta Garibaldi e la Lugli), attraversato i luoghi delle grandi battaglie di Valpiano, Vilano e Monte dei Sospiri, per noi giovani comunisti, l’antifascismo non fu soltanto un valore ideale, fu anche un modello organizzativo.

In Italia, dopo la strage di piazza Fontana, vi furono anni di bombe e tentativi di colpi di stato a ripetizione. Per contrastare quella strategia, il Partito comunista mobilitò tutto il suo apparato, legale e non. Anche noi, seppur giovanissimi, collaborammo con l’apparato illegale del partito. Allora, nessuno immaginava che quell’esperienza avrebbe segnato in modo indelebile il nostro agire. Prima che il partito ci epurasse per estremismo e nell’attesa dell’arrivo dei carri armati, avevamo creato una sorta di struttura clandestina. Niente di straordinario per dei ragazzi di sedici anni: avevamo attrezzato la cantina della nonna di una nostra compagna che viveva altrove con una macchina per scrivere, un ciclostile, una cassetta per le medicazioni, lo schedario con le foto e le informazioni sui fascisti nostrani, le forze dell’ordine e le varie catene di comando. Infine vi avevamo nascosto l’immancabile piede di porco con cui regolarmente, quasi ogni notte, smontavamo la bacheca del Fronte della gioventù.

In quegli anni bui, si diceva che le Marche sotto il profilo dello squadrismo fascista erano tutto sommato una regione tranquilla. Si citavano gli episodi più clamorosi come casi isolati. I fascisti locali erano visti come incapaci di provocazioni di alto livello, perché erano pochi e non sufficientemente militarizzati. La nostra regione del resto, viste le amicizie, coperture e complicità, era spesso usata dai fascisti come retrovia, come un posto sicuro e tranquillo dove trascorrere la latitanza lontano da ricerche e sguardi indiscreti.

In realtà le provocazioni fasciste furono abbastanza numerose. Ad Ascoli, per esempio, nei primi anni ’70 vi fu tutta una serie di attentati al tritolo, vi fu poi l’incendio dell’Università di Urbino nel ’72, in quello stesso anno il ritrovamento di un arsenale Gladio a Camerino e l’anno successivo spedizioni punitive contro sindacalisti e operai di Ancona. Vi fu poi, sempre ad Ancona, l’attentato al plastico firmato Ordine Nero contro gli uffici dell’esattoria comunale, per finire con il ritrovamento nel gennaio 1974 dell’ordigno inesploso che avrebbe dovuto far saltare il treno di pendolari sulla linea Ancona-Pescara. L’imprevisto transito di un treno merci straordinario fece saltare i detonatori che per fortuna non riuscirono a innescare l’esplosione.

Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975
Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975

 

Nella provincia di Pesaro, l’impegno principale dei fascisti locali erano l’organizzazione di campi paramilitari durante l’addestramento estivo della brigata Folgore sul monte Carpegna, oltre alla gestione dell’aeroporto di Fano dove venivano insegnati ai camerati i rudimenti del paracadutismo. Gli episodi di provocazione più rilevanti furono senza dubbio il già ricordato incendio dell’Università di Urbino (anche se non fu mai chiarito se a provocare l’incendio furono i fascisti assediati o i compagni assedianti) e il lancio di un ordigno incendiario all’interno del Circolo ARCI di Fano situato nel seminterrato sotto la sede del PCI, in via De Petrucci 18.

Dal 1975, dopo l’assassino del compagno Claudio Varalli a Milano, l’aria cambiò: l’agibilità politica ai fascisti fu impedita con la “forza”. Gli episodi che più di altri contraddistinsero quel periodo di antifascismo militante furono il tentativo d’impedire il comizio del missino Rubinacci a Pesaro, da cui scaturirono scontri e tafferugli con la polizia e, nella primavera del 1976, l’occupazione di una televisione privata fanese (Tele Fano), quando un pugno di giovani compagni armati di sassi e manici di piccone impedì la registrazione dell’appello elettorale del segretario del MSI locale, che in quell’occasione si era presentato scortato da un gruppo di giovani camerati e dai celerini del battaglione Senigallia. A Fano, dove operava il gruppo di fascisti più numeroso e aggressivo dell’intera provincia, scontri e aggressioni furono numerosi. L’episodio principale rimane l’assalto da parte dei compagni al bar Beaurivage in zona Lido, abituale ritrovo estivo dei fascisti locali i quali, durante una festa studentesca, avevano violentato una giovane ragazza. Dopo quest’ultimo episodio di antifascismo militante, i camerati nostrani sparirono definitivamente dalla scena politica della città…

Oggi per essere antifascisti non basta avere in tasca la tessera dell’ANPI o andare con la memoria al ventennio del secolo scorso. L’orrore del fascismo non furono solo le leggi razziali e l’entrata in guerra come sembra indicare un devastante senso comune. Occorre per esempio avere ben chiaro l’obiettivo delle stragi degli anni ’70 e ’80, la strategia della tensione e la guerra a bassa intensità scatenata allora contro i partiti di sinistra, i sindacati e soprattutto i movimenti. Lo dimostra il filo nero che lega quegli anni ad oggi, ai “fascisti del terzo millennio” che ritroviamo sistematicamente connessi con le reti della criminalità organizzata. Oggi i fascisti sono spesso utilizzati come forza d’urto, lasciata pascolare in pace nel mondo degli affari sporchi, dai quartieri alle curve, utilizzando la leva del razzismo e della xenofobia per la penetrazione e il controllo del territorio.

In una situazione di crisi economica, sociale, morale, politica come quella in corso, la funzione dei fascisti può trovare delle accelerazioni improvvise ma non casuali. Se c’è il vuoto politico e ideologico nella società e il conflitto sociale stenta a delinearsi come fattore di emancipazione, aggregazione e indicazione di alternative, questo vuoto può essere riempito da chi ha più soldi, uomini svelti a menare le mani e slogan semplici ed efficaci. È per questo motivo che occorre, soprattutto oggi, concentrare l’intervento politico sul territorio, nelle scuole, nei quartieri, nelle pieghe più incattivite dell’esclusione sociale. Questo vuoto è uno spazio che deve assolutamente essere riempito dall’antagonismo sociale, per sottrarlo ai fascisti e trasformarlo in un progetto di emancipazione.

Pistacoppi antifascisti (#10)

Pistacoppi antifascisti
Intervista di Vittorio a Claudio Sopranzetti

Il 10 febbraio Macerata è stata attraversata da una manifestazione storica.
30.000 persone provenienti da tutte le Marche e da molte città d’Italia hanno rifiutato con chiarezza fascismo e razzismo, che sono tornate ad essere ideologie accettate o tollerate da buona parte della classe politica italiana. La rappresaglia razzista del fascista Luca Traini dopo il brutale omicidio di Pamela Mastrogiacomo, di cui sono accusati dei piccoli spacciatori nigeriani, ha scoperchiato le contraddizioni profonde della provincia marchigiana. La pace e la tranquillità pubblicizzate dagli spot idioti delle campagne turistiche nascondono un rancore marcio, la teppa fascista armata, la criminalità nigeriana che sguazza tra proibizionismo e corruzione sociale. Di fronte a questa serie di tragedie la classe politica locale e nazionale ha iniziato a balbettare, l’antifascismo ufficiale ha aderito alla retorica repressiva di Minniti e Renzi. L’antifascismo militante e popolare ha risposto.
Antifa Macerata è una realtà recente, nata da una palestra popolare e dalla strada. Quel sabato era in piazza con uno spezzone combattivo e giovane. Nonostante la durezza della giornata, sono riusciti a strapparci un sorriso verso il futuro quando dietro alla cappa dei fumogeni è spuntato il logo “Pistacoppi antifascisti”(“pistacoppi” è il nome dialettale con cui vengono chiamati i numerosi piccioni presenti a Macerata e quindi, per analogia, anche gli abitanti della città).

Macerata, 10 febbraio, pistacoppi antifascisti, foto di Giovanni Martone.

Macerata. Prima e dopo la lunga settimana dall’omicidio di Pamela alla manifestazione antifascista del 10 febbraio. Che cos’è diventata la vostra città? Esiste una particolarità territoriale oppure è lo specchio della “provincia” italiana?

Questa è una riflessione complessa, che stiamo facendo anche noi. Per certi versi ovviamente Macerata ha le sue caratteristiche, che riflettono quelle della classica cittadina italiana tranquilla: non stiamo parlando di un territorio di grosso conflitto sociale, qui ci sono decenti tassi di occupazione, un livello economico e culturale medio alto e forse proprio queste caratteristiche rendono tutta la situazione della settimana appena trascorsa ancora più inquietante. Stiamo comunque parlando di una realtà in cui la gente sta bene. Non siamo in una città come Roma con un sacco di problematiche e una radicata presenza storica fascista, né in territori con una intensa immigrazione. Inoltre siamo in uno dei fulcri nevralgici storici del PD, della sinistra parlamentare italiana, con una presenza di associazionismo fortissima, una presenza della Chiesa cattolica fortissima, un territorio che è stato usato come modello di integrazione. Tra l’altro ho letto che le Marche sono una delle regioni con il più alto tasso di moschee per abitanti musulmani. Insomma, all’apparenza non ci sarebbero i presupposti per vedere accadere questo tipo di cose e, soprattutto, per vedere certe reazioni popolari. E invece quando senti certi commenti al bar ti chiedi se per caso siamo finiti in una cittadina della Baviera nazista nel 1936. Ma proprio perché non è dove te l’aspetti, la situazione diventa particolarmente significativa e richiede un’analisi un po’ più approfondita di quelle che sono le forme del fascismo oggi.

Mi viene in mente il romanzo di Ballard, “Regno a venire”, dove c’è una folla normale che esce dalla sua zona di comfort e comincia a esercitare violenza, prima verbale e simbolica poi anche fisica contro l’immigrato. Sembra un po’ questa storia…

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.

L’impressione è questa. O anche quella del film Dogville. Una realtà collinare, benestante, di provincia, dove il PD ha dominato e continua a dominare, ma dove trovi queste contraddizioni mostruose che secondo me sono lo specchio dell’imbruttimento, della rincorsa della sinistra parlamentare italiana verso la destra. E parlo di un’ideologia di destra pesante, neanche sociale, dentro il guscio vuoto di un’apparente realtà di sinistra.

Quando parli di imbruttimento io penso anche al delitto da cui è partita la concatenazione di eventi, cioè alla brutalità dell’omicidio di Pamela con tutto il corollario di violenze maschili che l’hanno favorita e causata. Tutta questa storia sembra un corpo estraneo a Macerata e invece da quanto mi dici è una specie di specchio, di doppio, di questa città benpensante.

La sensazione è questa ed è una sensazione che si lega molto alla vecchia analisi del fascismo in Italia come di un cancro dentro un corpo sano, per cui eliminato quel cancro il corpo va avanti in salute. In questa settimana ci siamo accorti che non è così. Ci sono forme radicate di de-umanizzazio¬ne della diversità. Sia come è stato trattato il delitto di Pamela, sia la mancanza totale di dimensione umana delle vittime di Traini sono un’evidenza chiara: i loro nomi quasi non li conosce nessuno, non abbiamo vissuto quello che i media ci hanno proposto dopo gli attentati degli ultimi anni, cioè la faccia delle vittime, la loro storia come centro della discussione. Qui le vittime sono state completamente abbandonate a loro stesse, senza la presenza delle istituzioni, senza nessuno che le andasse a trovare. Sono state cancellate dall’immaginario collettivo, proprio de-umanizzate. Questo è il meccanismo che ha portato Traini alla caccia all’immigrato indiscriminata, perché non è la persona X che ha fatto l’atto Y, ma è questa forma senza faccia dell’immigrato che diventa colpevole di tutti gli atti degli immigrati. Di conseguenza non può neanche essere vittima, rimane sempre un immigrato informe.

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.

Un altro aspetto interessante è il ruolo della stampa locale e della narrazione delirante che è stata costruita prima attorno al delitto di Pamela, poi attorno alla sparatoria di Traini e infine alla manifestazione. Qual è il ruolo di questo tipo di comunicazione locale, anche dei social network, e voi, come antifascisti, come avete cercato di intervenire?

In effetti, come dici, c’è stata una sequenza molto serrata di rappresentazioni deliranti. Per prima cosa il tentativo di tribalizzare il crimine dell’uccisione di Pamela e del trattamento del suo corpo, con un tentativo da parte della stampa di rimandarlo a pratiche tribali, nigeriane, al vudù: cose completamente campate in aria. Poi, almeno per le prime tre o quattro ore dall’inizio della sparatoria, tutti i giornali locali hanno scritto di regolamento di conti interno alla mafia nigeriana senza avere alcun tipo di fonte, basandosi assolutamente sul niente.
In realtà le forme di giornalismo cittadino come “Picchio news” e “Cronache maceratesi” sono nate in maniera molto aperta e, potenzialmente, estremamente democratica. Da parte nostra, rispetto a questo, dobbiamo anche cominciare a puntare il dito davanti allo specchio perché non ci siamo sporcati le mani, nessuno di noi ha forse compreso pienamente che lì si sarebbe fatta l’opinione pubblica locale, abbiamo completamente trascurato questo aspetto lasciandolo in mano a tutt’altro tipo di forze e discorsi. Invece forme di fascismo più o meno organizzate e dichiarate sono entrate in questa dinamica e l’hanno fatta loro. “Macerata ai maceratesi”, ad esempio, è una realtà insignificante sul territorio ma ha un’esposizione mediatica mostruosa, proprio perché hanno fatto questo lavoro di comunicazione pubblica, che per loro è anche più semplice dal momento che quella comunicazione coincide o si allinea a tutta una serie di egemonie culturali che si stanno formando anche al di fuori di quello che è il fascismo organizzato. Se Renzi dice “aiutiamoli a casa loro”, allora si apre uno spazio di attenzione per cui chiunque si allinei su quel discorso ha una facilità comunicativa spicciola fortissima. Poi ci sono anche le varie pagine sui social network, del tipo “Sei di Macerata se…”, con un identitarismo fortissimo e dibattiti spesso grossolani, pieni di insulti, pieni di notizie false e di false foto che vengono fatte circolare. In questi giorni, almeno, si nota molta più presenza di gente che si è accorta di quanto sia basso il livello e che cerca di mettere in discussione certi tipi di rappresentazione.
Per me la cosa impressionante è come questi discorsi beceri si riproducano in città. È evidente che non fanno che solidificare una certa forma di analisi: tanta gente ha sempre pensato “immigrati merda, che se ne stiano a casa loro”, però dieci anni fa al bar aveva vergogna di dirlo a voce alta, mentre ora c’è un allargamento delle maglie per cui questi discorsi sono possibili e accettabili e quindi si riproducono. Un po’ come quello che ho visto in Inghilterra dopo la Brexit: una volta che la Brexit ha vinto, tutta una serie di forme di xenofobia, anche contro gli italiani e i migranti bianchi, sono state rese accettabili. O penso a quello che è successo negli Stati Uniti con Trump: il limite di quello che ieri era inaccettabile si allarga fino a diventare all’ordine del giorno. Come dicevo, la componente mediatica in tutto questo, anche dei piccoli giornalini locali, è fondamentale e da non sottovalutare.

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti [2].
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.
Tu hai seguito la situazione dal punto di vista di Antifa Macerata, ci racconti come si è formato questo gruppo?

La storia di Antifa Macerata è ancora l’infanzia di un movimento che si è trovato ad avere un ruolo da adulto in questa situazione e se l’è preso con i limiti ma anche con la bellezza di questo passaggio. Antifa Macerata muove i primi passi dentro una palestra popolare di Macerata, nata cinque anni fa come molte palestre popolari da gente che non si sentiva pienamente rappresentata dai centri sociali e voleva fare un intervento territoriale, che inizialmente è stato molto forte sulla lotta alla tossicodipendenza, problema storicamente molto sentito a Macerata. L’idea era: meglio stare a rota di palestra che di roba. Sin dall’inizio si erano definiti toni antifascisti e antirazzisti, ma in maniera abbastanza blanda e generica. In seguito alcune delle persone fondatrici della palestra popolare hanno cominciato a prendere parte a momenti più spiccatamente politici, di protesta, hanno partecipato a diverse manifestazioni in Italia e all’estero. Ma, in definitiva, si sono ritrovati un po’ insoddisfatti delle manifestazioni di massa senza un lavoro territoriale e, in particolare dopo l’uccisione del ragazzo nigeriano a Fermo l’anno scorso, hanno sentito la necessità di una presenza antifascista militante e hanno deciso di mettere su questo Antifa Macerata. La dinamica è un po’ complessa, anche perché nella palestra c’è chi ha accolto questa scelta a braccia aperte, ma anche chi l’ha sentita come una cosa troppo politica. Anche la composizione di classe sociale è molto interessante, molto variegata, trasversale, molto meno studentesca di quella dei centri sociali, anche nelle sue forme e nei suoi linguaggi. La sua forza è anche questa, cioè di non essere ancorati a un linguaggio vecchio, di movimento, che non ha troppa presa in questo momento.

Dall’omicidio di Pamela alla manifestazione non c’è stata pace nelle strade di Macerata, sappiamo di almeno un paio di momenti forti di contestazione antifascista in città. Come si è sviluppato questo percorso?

C’è da dire che i nuclei dichiaratamente fascisti in città sono pochi e piccoli, ma dopo gli eventi di questi giorni è evidente a tutti che sotto covava qualcosa di molto più dilagante. Va bene che eravamo tutti distratti dalla manifestazione del 10 febbraio ma è proprio quando si è distratti che queste cose succedono e quindi si è deciso di agire su due dimensioni.
Da una parte mettere pressione, alzare la tensione nei confronti di bar e realtà locali che lasciano spazio di azione ai movimenti neofascisti, dall’altra portare la presenza popolare in piazza ed è quello che è successo domenica 4 febbraio con un presidio spontaneo, molto più allargato, molto meno aggressivo, per dire che le piazze sono nostre. In una situazione del genere, nei giorni immediatamente successivi non poteva essere fatta passare nel silenzio la presenza in città di Casapound [mercoledì 7, ndr.] e il giorno dopo quella di Forza Nuova caratterizzata da un discreto gruppetto di persone estremamente violente presenti nel territorio.
In realtà in città è come se non ci si fosse resi conto del livello di violenza dell’atto di Traini. Far manifestare Forza Nuova, che è stata l’unica forza politica a rivendicare l’atto, lo possiamo paragonare a dare uno spazio di manifestazione all’Isis a Nizza dopo l’attacco, anche se tutto in forma più casareccia. Noi abbiamo avuto pesanti litigate con i giornalisti, anche nazionali, perché era davvero allucinante che su tutti i giornali del mondo qualsiasi articolo sugli eventi di Macerata, tutti, dal primo all’ultimo, parlasse di terrorismo neofascista e invece sui giornali italiani si parlava di un matto. La distanza tra il tipo di dibattito politico che c’è su questi eventi in Italia e la loro rappresentazione internazionale è devastante.
Così siamo arrivati alla manifestazione di sabato 10 febbraio. Bisognerà fare un’analisi approfondita sul tentativo del ministro dell’interno Minniti di creare una “strategia della tensione” rispetto alla presenza in piazza. E anche interpretare la dinamica che parte da un attentato dichiaratamente fascista e dalla sua rivendicazione da parte di un movimento che ha delle relazioni per lo meno ideali con l’esecutore dell’attentato, seguita dall’equiparazione degli atti di una parte e dell’altra, per cui a chi va a contestare un bar che offre spazio ai fascisti si dice “siete come Traini”, e termina con una violazione molto pesante del diritto di manifestare e, appunto, una “strategia della tensione”: si mette paura alla popolazione e si allestiscono tutti i presupposti per una manifestazione violenta, poi quando la manifestazione violenta avviene parte la stretta di repressione e di controllo statale sui territori. Pensiamo che tutto questo sia un dispositivo che si sta attuando e una modalità che verrà probabilmente riprodotta altrove.

Macerata, 4 febbraio 2018, presidio spontaneo.
Macerata, 4 febbraio 2018, presidio spontaneo.

In questo senso però è andata bene, c’è stata una capacità di rompere questo schema.

Benissimo. Speriamo che questa analisi che ha contribuito alla riuscita della manifestazione sia un messaggio chiaro al tentativo di Minniti. Dobbiamo ricordare che in primis c’è stato l’invito a non manifestare da parte del sindaco di Macerata, che va bene lascia il tempo che trova, poi una nota della prefettura che non avrebbe nessun ruolo nella gestione delle piazze, che spetta direttamente alle questure. Si è riprodotto un tentativo che negli ultimi anni avevamo visto a Ventimiglia, classico esempio di come si sperimentino disposizioni ai margini e poi si applichino anche fuori dai margini, in questo caso non in una grande città ma a livello intermedio di una cittadina di provincia. La prefettura ha fatto una nota ai giornali e poi una nota pubblica usando di nuovo la parola “invito” ma di fatto, essendo passata da quei media di cui parlavamo prima, è stata presa come una proibizione della manifestazione senza alcun sostegno giuridico.

In effetti questa notizia è girata per un paio di giorni, con tutte le caratteristiche di una fake news…

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti [3].
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.
Esatto. E ha generato una serie di conseguenze profonde. Il ritiro di Anpi, Arci e Cgil ha poco a che fare con questo perché riguarda più delle dinamiche loro interne, ma quello che ci interessa è l’evidenza di realtà nazionali che tentano di arginare e le corrispondenti realtà locali che non le stanno a sentire. Comunque, se volevano proibire la manifestazione avrebbero di fatto dovuto dichiarare un micro stato di emergenza, che però ha tutta una serie di conseguenze legali profonde a partire dal fatto che le autorità locali sono esautorate dal controllo del territorio e interviene il Ministero dell’interno. Questo, chiaramente, in piena campagna elettorale era impensabile e quindi il trucchetto di Minniti è stato quello di mettere pressione, in forme completamente anticostituzionali, per tentare di spingere la questura ad agire. La questura ha lungamente atteso, fino a che venerdì sera alle 9.00 c’è stato un incontro tra prefettura, questura, sindaco, rappresentanti dei centri sociali, Anpi, Arci e Cgil, in cui essendo chiaro che non si poteva proibire la manifestazione, andava deciso che percorso fare. A noi il percorso definitivo c’è stato comunicato solo verso le 11.00 di venerdì sera.
Certo che hanno tentato in tutti i modi di renderla ingestibile. Non c’erano bagni chimici, hanno fatto chiudere tutti i bar, hanno tolto tutti i cassonetti, ci hanno messo in una situazione in cui era facilissimo lasciare la popolazione scontenta per il comportamento dei manifestanti. In tutto questo abbiamo notato una frattura abbastanza chiara tra le istituzioni. Chi sul territorio ci vive e lavora, anche dalla parte delle istituzioni, ha capito che non aveva proprio alcun senso questo attacco frontale e l’ha pagato perdendo il proprio posto… il compagno questore… [ride].

Che persone c’erano in corteo? Che composizione sociale hai visto, legata alla città, alle Marche?

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.

Anche se noi siamo stati abbastanza stabili nel corteo, non abbiamo girato tantissimo, posso dire di aver visto gente che non vedevo da una vita, di movimenti diversissimi, gente che dai movimenti era uscita, associazionismo, persone in realtà non abituate, in un territorio come il nostro, a stare in piazza. Una sorta di riemersione, che speriamo di riuscire a mantenere, di tutta una serie di forze sociali diversissime nei loro metodi e linguaggi. Ovviamente ho visto una grossissima presenza nazionale, unita a una timida presenza dei maceratesi. Timida nel senso che c’erano tantissime persone che guardavano la manifestazione dall’alto, qualcuna piano piano è poi scesa, ma c’erano anche forze e persone che hanno deciso comunque di starci, nonostante siano state impaurite dal clima di tensione costruito nella settimana. Non ci illudiamo, non era una grandissima presenza locale; il valore della manifestazione penso sia stato su una scala più ampia di quella locale. Su Macerata ha avuto una funzione come di distensione: venerdì le strade erano deserte, si avvertiva la paura di stare in strada, domenica era un’altra Macerata, più quotidiana, più viva. Anche questo è importante. Insomma, possiamo dire di aver vinto una battaglia giocata contro il mastro dello scacchiere, Minniti, ma adesso c’è una battaglia più quotidiana da portare avanti, di quelle coi pedoni che, però, forse sono pure più arcigni…

Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.

Ringraziamo Giovanni Martone, Valeria Tinti, Yara Nardi e Martina Romano per le foto concesse.

JIHADISTI CON LA CROCE. Una scuola di fascismo clericale ad Ancona

Il 17 Marzo 2018 inizierà ad Ancona una serie di seminari dal titolo “Dio Patria e Famiglia”, con il patrocinio della Regione Marche, che porterà alla ribalta alcune delle figure più significative del pensiero cristiano neofascista e reazionario.

Questa iniziativa segue un altro ciclo di incontri dal tenore simile che si è tenuta sempre ad Ancona con l’inspiegabile patrocinio di Comune e Regione a settembre 2017.

La rassegna sarà inaugurata dalla nota figura di Diego Fusaro, “uomo d’ordine” e propagandista di idee culturalmente disoneste e politicamente repressive, xenofobe, omofobe e integraliste. I principali relatori rappresentano intellettuali di punta delle posizioni più radicali del neofascismo italiano in ambito teologico, filosofico e revisionista in campo storico. I temi in programma spaziano dalla santificazione delle crociate ad argomentazioni islamofobe contro i migranti fino a discorsi contro il femminismo e la libertà di orientamento sessuale.

Ecco i profili dei principali relatori
• Diego Fusaro: grottesco filosofo auto-definitosi “antisistema” ma perfetto uomo d’ordine, principale esponente italiano del sovranismo neofascista, poltronaro televisivo e ospite fisso in numerose sedi di Casapound in giro per l’Italia, è da qualche mese promotore dei circoli del suo sito “interessenazionale . net”

• Matteo d’Amico: professore di Filosofia al Liceo Rinaldini di Ancona, intellettuale organico a Forza Nuova, nel 2014 contestato dagli studenti di Osimo per le sue posizioni omofobe.

• Massimo Viglione: coordinatore del periodico “Radici Cristiane” esponente del cattolicesimo omofobo e maschilista che contesta le aperture del Concilio Vaticano II e il pontificato di Bergoglio. Autore di riferimento di Forza Nuova.

• Marco Tarchi: docente universitario ideologo della “nuova destra” negli anni 2000, intellettuale di riferimento del centro sociale di estrema destra “Casaggi” di Firenze.

• Stefano Fontana: teologo integralista cattolico anti-Concilio Vaticano II

• Marcello Stanzione: prete esorcista noto per quelle discutibilissime pratiche superstiziose chiamate “esorcismi”.

Questo tipo di iniziative sono da rifiutare perché alimentano un clima culturale di revisionismo, intolleranza e violenza contro le minoranze e le categorie oppresse della società. Rappresentano il volto rispettabile di una cultura dell’odio e dell’esclusione che si sta sviluppando in perfetta simmetria con l’integralismo religioso jihadista islamico.

Non possiamo tacere di fronte a chi vuole riscrivere la storia e negare libertà sociali conquistate con secoli di lotte.

Ad Ancona come nelle altre città delle Marche, dopo aver subito un attentato neofascista come quello di Traini a Macerata, abbiamo bisogno di aria pulita, di idee e parole di tolleranza e di apertura e non del tanfo delle sacrestie e dei sostenitori dei roghi e delle crociate.

Per questo pensiamo che sia giusto boicottare e contestare questo tipo di iniziative.

Invitiamo a contattare il prete gestore della sala conferenze della Chiesa San Carlo Borromeo in via Vincenzo Gentiloni 4 Ancona – tel 071 202565 email: moriconipierluigi@libero.it
anche sul suo profilo facebook
https://www.facebook.com/pierluigi.moriconi.5

oppure alla email della Curia di Ancona cancelleria@diocesi.ancona.it
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Riportiamo la locandina dell’evento per dare un’idea del carattere clerico fascista dell’iniziativa a partire dai titoli degli interventi ( “angeli del bene contro quelli del male”, “il matriarcato e la distruzione della civiltà”, “il buonismo che piega e deforma il vangelo” etc).

 

Fascisti al Furlo (#2)

Fascisti al Furlo
Di Luigi

Il profilo di Mussolini sul monte Pietralata in una vecchia cartolina

La gola del Furlo è un luogo di straordinaria bellezza naturalistica. Le pareti a strapiombo dei monti Pietralata e Paganuccio, scavate dalla forza del fiume Candigliano, si aprono inaspettate nel paesaggio dolcemente collinare dell’entroterra pesarese, proteggendo un piccolo ecosistema dal fascino unico, suggestivo e selvaggio (se non fosse violentato da un’orribile diga dell’Enel). Sul lato destro per chi proviene dal mare si snoda il percorso dell’antica via Flaminia che attraversa il “forulus” da cui la gola prende il nome, cioè le due antiche gallerie scavate in uno sperone di roccia, scheggia dopo scheggia, dagli scalpelli degli schiavi romani un paio di millenni fa.

Eppure questo scenario nasconde qualcosa di strano, come un’oscura presenza incombente. Se ci si ferma nel bar proprio sopra al parco fluviale, l’occhio cade sulla bacheca esterna dove tra immagini di fossili e inni al tartufo locale campeggia una vecchia foto, anni trenta, di un’autoblu antelitteram parcheggiata lì davanti. Il passeggero è sceso e sta guadagnando la porta, sopra la foto si legge: “entrata di Mussolini nella saletta”. Ah, ecco, è proprio Lui!

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