Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’Appennino marchigiano (#1)

Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’appennino marchigiano
Di Luigi

Con questo articolo approfondiamo il tema delle proprietà collettive delle terre, presenti nelle zone montuose alpine e appenniniche con nomi e tradizioni diverse ma caratteristiche simili, conosciute nelle Marche come “comunanze”. L’articolo mette a fuoco il loro significato originario legato a un modello di vita comunitario e ne delinea il percorso storico dai tempi antichi ad oggi, in particolare per quello che hanno rappresentato nella costante lotta contro i poteri dominanti. Nei prossimi numeri ci proponiamo di ritornare sul discorso della proprietà collettiva, sul problema della riappropriazione e dell’accesso alla terra e sulle contraddizioni che nella società attuale pervadono un istituto come quello delle comunanze agrarie, fattosi spesso centro di potere clientelare, ormai ben lontano dall’antico e idealizzato spirito originario.

Cavalli al pascolo sui monti Sibillini
Cavalli al pascolo sui monti Sibillini

Di fronte ai disastri del liberismo da qualche tempo si fa un gran parlare di commons, di beni comuni e del loro governo. Tra questi rientrano quei territori di appartenenza collettiva, inalienabili e indivisibili, gestiti con modalità condivise e solidaristiche, che si presentano come espressione di autogoverno di una comunità. Né privata né pubblica, dunque, ma collettiva: un’altra forma di proprietà le cui origini risalgono a tempi antichi, largamente conosciuta nella storia e in una certa misura anche nel presente dell’appennino marchigiano. Il percorso storico della proprietà è infatti ben più accidentato di quanto possa apparire, disseminato di resistenze ed esperienze alternative e contrastanti il modello di proprietà privata come diritto soggettivo assoluto.

Queste esperienze si localizzano soprattutto nelle aree montane, su pascoli e boschi poco appetibili per l’avanzante agricoltura moderna, in zone impervie dove il mutuo appoggio è essenziale per fronteggiare le difficoltà della vita. La modalità di gestione collettiva delle terre non è solo un espediente tecnico o giuridico ma deriva dalle caratteristiche stesse della vita montana, in cui l’assetto comunitario è un valore preminente, superiore alle forme individualistiche. Questi terreni, come i beni collettivi in generale, non rispondono all’interesse esclusivo del dominus, del titolare della proprietà, sia esso una persona fisica o un ente, libero di sfruttarlo a suo vantaggio anche fino all’esaurimento della risorsa, ma vanno mantenuti per il bene della collettività, che comprende anche le future generazioni, e quindi salvaguardati.

La storia che vogliamo ripercorrere è quella della strenua difesa delle terre collettive e del modo di vivere comunitario contro le autorità succedutesi nei secoli. Forme che sono state spazzate via solo dal processo storico del capitalismo, che ha rotto i vincoli del vivere umano con la terra e in particolare con la montagna. Dal dopoguerra infatti, con lo svuotamento delle campagne in cambio di un salario garantito, di qualche aggeggio tecnologico con cui riempire la casa e del controllo poliziesco per le strade, si sono perse forme di autogestione e saperi millenari. Oggi, perciò, avvertiamo l’urgenza di recuperare una dimensione locale e comunitaria, la dimensione dell’autogoverno che pone in discussione ogni modalità di gestione verticistica e controllo statale. E, con essa, provare a ricostruire quei legami comunitari scardinati dalla società industriale, per ridare un senso autentico alla proprietà collettiva, senza ridurla ad un suo simulacro sottoposto a mire speculative o affidato a qualche ente di gestione.

I monti Sibillini
I monti Sibillini

Terre collettive e usi civici nelle Marche

Per cominciare vanno distinte due diverse situazioni: le “terre collettive” e le “terre gravate da usi civici”. Le prime possono essere in proprietà aperta, cioè appartenere a tutta la collettività stanziata su un determinato territorio, oppure in proprietà chiusa, cioè riservata solo a certi soggetti ovvero ai discendenti di sangue (in linea maschile fino a tempi recentissimi) degli antichi proprietari originari, con esclusione dei nuovi residenti. Negli usi civici invece la collettività può solo trarre delle specifiche utilità (pascolo, legna, prodotti del bosco, caccia e pesca, acqua) ma la proprietà del terreno è di qualcun altro, in tempi antichi del feudatario poi passata in genere al demanio comunale.

Mentre il dominio collettivo è un fatto sociale prima ancora che economico, l’uso civico non presuppone necessariamente una comunità, in quanto riferito ai singoli individui che possono soddisfare le proprie esigenze personali o familiari. Pur non sottovalutando l’importanza degli usi civici, con il loro corollario di lotte tra proprietari e titolari dei diritti, sono le terre collettive che ci possono suggerire una reale alternativa al modello economico dominante. Le forme più note e diffuse si trovano nell’arco alpino orientale, ma sono presenti anche nel resto della fascia alpina e in tutta la dorsale appenninica fino all’Abruzzo. Nonostante le similitudini, non sono assimilabili a un unico modello in quanto un grande peso hanno le specificità e le tradizioni locali. I nomi, poi, sono i più vari: regole (arco alpino orientale), favole e faole (Lombardia), vicinie e vicinanze (arco alpino centro orientale), consorterie (Val d’Aosta), partecipanze (Emilia e Romagna), comunaglie (Liguria), università agrarie (Lazio e appennino centrale), patriziati (Ticino).

Nelle Marche sono conosciute come comunanze: “le comunanze hanno un regime rappresentativo per le deliberazioni d’interesse generale e sono amministrate da due massari che fanno ricordare i due consoli dell’antichità; negli statuti è sempre una sapiente previdenza, affinché gli interessi dei singoli siano in armonia con quelli della collettività. Il dominio comune si tripartisce in bosco, pascolo e terra coltivabile. Nel bosco ognuno fa provvista del combustibile per consumo della famiglia e del legname da costruzione per usi domestici e agrari. Il pascolo si esercita nei boschi di alto fusto, nei cedui dopo il taglio, nei prati naturali dopo la falciatura, nei campi seminativi dopo il raccolto. Ogni famiglia ha in uso esclusivo, ma temporaneo, qualche appezzamento coltivabile. I prodotti dei tagli dei boschi e della falciatura dei prati si dividono tra i comunisti”[1].

Praticamente inesistenti lungo la fascia costiera fatta eccezione, là dove il monte arriva a picco sul mare, per quelle di Fiorenzuola di Focara e di Sirolo, le comunanze hanno avuto invece una notevole diffusione nelle zone altocollinari e nella montagna appenninica. Protette dall’inospitalità che la montagna riserva a chi non la sa vivere, queste forme di proprietà collettiva si sono mantenute e tramandate nei secoli, mentre laggiù, tra le fertili e accessibili pianure e in riva al mare, il progresso e la sua scienza economica modellavano un mondo di diseguaglianze. Nel 1884 l’Inchiesta Jacini registra nelle Marche 351 comunanze distribuite in 37 comuni, su una superficie di 22.000 ettari, oltre a 97 terreni con diritti d’uso. In buona parte erano localizzate nella zona montuosa dei Sibillini, tra le province di Macerata e Ascoli. Nell’anconetano vengono citate le comunanze di Arcevia, Fabriano, Genga e Sassoferrato, mentre in provincia di Pesaro si trovano concentrate nelle zone montuose meridionali, attorno ai monti Nerone e Catria (Apecchio, Cagli, Cantiano, Frontone, Pergola, Piobbico, Serra S. Abbondio, Urbania), occupando porzioni significative della superficie totale dei terreni, fino al 61% dei terreni comunali di Frontone e al 41,3% di Serra Sant’Abbondio (secondo una rilevazione di inizio anni ottanta del Novecento)[2]. Quasi assenti sono invece nel Montefeltro, per via di una differente storia politico-istituzionale.

Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d'Italia, 1898
Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia, 1898

Proprio questa differente distribuzione territoriale, nel confronto tra il Montefeltro e i Sibillini, ci consente di cogliere come la proprietà collettiva sia un fattore positivo sia per quanto riguarda il tenore di vita delle comunità locali, che anche in tempi difficili possono contare su una risorsa certa, sia per la salvaguardia dei suoli e dell’ambiente, sottratti per il bene comune alla dissipazione individualistica delle risorse: “nelle Marche esistono due montagne; una, particolarmente ed uniformemente povera e dissestata: quella montefeltrana, la quale, fra le altre sue specificità, fa registrare anche quella di essere priva di proprietà collettive; un’altra a discreta tenuta ambientale e con un tenore di vita per certi aspetti migliore di molte aree collinari ed urbane: e questa coincide con la montagna maceratese ed ascolana, fortemente connotata dalla presenza delle comunanze e dalla cultura ecosistemica delle comunità locali che le hanno difese e conservate”[3].

D’altra parte le proprietà collettive non rappresentano isole felici aliene dai mali di questo mondo. Avidità ed egoismo, laddove il vivere comune si degrada, portano alla necessità di regolamenti prescrittivi, forme di controllo, multe e guardie campestri. Oltre all’attacco dei notabili esterni che minano confini e diritti, le comunanze devono fronteggiare anche le conflittualità interne, con gli utenti più agiati che acquisiscono la forza per piegare a proprio vantaggio le regole tradizionali. Non che con questo si voglia avvalorare la tesi della “tragedia dei beni comuni”, sostenuta dall’economista Garrett Hardin e dai suoi epigoni, secondo la quale gli individui sarebbero incapaci di gestire beni comuni in quanto a prevalere è sempre l’interesse del singolo, con la conseguenza dell’inevitabile esaurimento delle risorse qualora non intervengano regole di buona amministrazione imposte dall’esterno[4]. Se non vogliamo chiamare in causa Elinor Ostrom, economista di ben altra levatura che ricevette il premio Nobel sostenendo tesi esattamente opposte, basta guardare le tante storie di autogestione dove la condivisione prevale sulla prevaricazione. E poi, in fondo, nell’improbabile ipotesi che avesse ragione Hardin, in confronto alla tragedia del tempo presente, non avremmo davvero nulla da perdere.

Il monte Acuto visto dal monte Catria
Il monte Acuto visto dal monte Catria

Breve storia di “un altro modo di possedere”

Le comunanze nascono in tempi antichi, certamente pre-romani: ab immemorabili si legge nei primi atti scritti. Per molti secoli hanno dovuto fare i conti con la permanente ostilità da parte dei poteri costituiti e dell’ordine giuridico dominante e resistere al variare degli ordinamenti politici e sociali, anche facendo dell’isolamento montanaro la propria forza.

I Romani tendevano a non sprecare denaro e legioni per imporre la loro legge in queste zone impervie, poco abitate, poco produttive: “col loro pragmatico buon senso – scrive Joyce Lussu – avevano capito che non conveniva spingere alla disperazione e alla guerriglia le comunità che vivevano nei fortilizi naturali della montagna, con una padronanza del terreno che avrebbe messo in difficoltà anche un esercito molto agguerrito. Per cui, nelle Marche e altrove, si contentavano di ghettizzarle circondandole a valle con solide e fedeli colonie, e spesso non si preoccupavano nemmeno di pretendere il versamento di tasse, che sarebbero state comunque assai scarse e faticose da riscuotere”[5].

In epoca medievale le proprietà collettive cominciano a perdere i primi pezzi. Non è facile per le comunità resistere alle mire di feudatari, principi, comuni e signorie e se in alcuni casi mantengono tenacemente la propria autonomia, in altri in cambio di protezione assoggettano se stesse e le proprie terre al signore, al comune o all’autorità ecclesiastica, rimanendo con in mano il solo diritto d’uso delle stesse. È d’altra parte in questo periodo che si iniziano a raccogliere in forma scritta le norme consuetudinarie poste a fondamento delle comunità locali. In età moderna gli Statuti tramandano le regole, spesso assai dettagliate, sull’uso dei beni comuni e ciò che si era salvato delle comunanze riesce a mantenere la propria specificità mentre il volto agricolo delle Marche viene modellato dal regime mezzadrile che pervade e disegna l’intero territorio regionale, con i suoi contadini sottomessi al proprietario terriero e al fattore, attaccati con la propria famiglia al podere, dediti al lavoro e, più tardi, perfino orgogliosi di star meno peggio del bracciante.

Più in generale, lungo il corso dei secoli il processo di affermazione del modello capitalista in agricoltura va privando la tradizionale economia contadina dei diritti comunitari sulle terre e troverà il suo compimento quando riuscirà a gettare sul mercato una classe di proletari senza terra, adatti al funzionamento della fabbrica moderna. Se fino al Seicento permane in larga parte l’antica autonomia e le comunanze godono ad esempio di totale franchigia fiscale, successivamente l’aumento delle imposte è una delle leve per intaccare l’uso collettivo delle risorse: per farvi fronte si affittano i pascoli, si vende la legna, si spartiscono tra privati le terre agricole più fertili, si compromettono porzioni di bosco pur di coltivare e monetizzare.

Comunanze in provincia di Pesaro e Urbino
Comunanze in provincia di Pesaro e Urbino
Comunanze in provincia di Ancona
Comunanze in provincia di Ancona

A livello organizzativo, fino a metà Settecento tutto il potere decisionale è nelle mani dell’assemblea degli utenti (solo in casi eccezionali le deliberazioni vengono fissate dal notaio) poi, nel secolo successivo, la fisionomia cambia: la parola d’ordine diventa razionalizzare, la gestione burocratica e fiscale si complica, necessitando di nuove figure, istruite, che verbalizzino le sedute, tengano i libri contabili, regolamentino gli affitti e che man mano acquisiscono potere a scapito degli organi di autogestione democratica. Ecco nascere un vero e proprio corpo burocratico presto egemonizzato dalla borghesia cittadina. D’ora in poi, di fatto, le assemblee si limiteranno a eleggere gli amministratori: “a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, alle assemblee degli utenti si sono sovrapposti organi ristretti con poteri di decisione e gestione, e gli affari relativi ai beni collettivi non si decidono più nelle adunanze plenarie sui prati e sotto i faggi di montagna, ma dai vertici amministrativi nelle residenze municipali e nelle case cittadine”[6].

La cultura giuridica ottocentesca affonda il colpo di grazia sulle proprietà collettive. Se la legge serve a codificare i rapporti di forza sociali, facendosi specchio di una società liberale e liberista, il destino della proprietà collettiva non può che essere l’emarginazione giuridica e ancor prima ideologica. Un’avversione verso comunanze e istituti simili, come ammette l’economista Ghino Valenti, dettata “dalla paura, diciamolo senz’ambagi, di fare una concessione, di cui il socialismo possa in avvenire giovarsi per raggiungere i suoi sconfinati ideali”[7].

La civiltà del diritto generata dalla Rivoluzione francese si incentra infatti sulla sacralità della proprietà privata individuale. La dimensione collettiva è respinta in quanto perturbatrice dell’ordine politico su cui si regge lo spirito del tempo e la presenza di consuetudini d’uso da parte della popolazione locale sui terreni viene vista come un retaggio di organizzazione feudale e un ostacolo alla moderna politica agricola. Lo smantellamento della proprietà collettiva prosegue con la legislazione civile napoleonica di inizio Ottocento, volta a ricondurre in proprietà comunale, amministrata dal Municipio, tutti i terreni fino allora goduti autonomamente dalle collettività. Per quanto riguarda i territori storicamente sottoposti allo Stato della Chiesa, come le Marche, grava nel 1801 il motu proprio di Pio VII per la demanializzazione e vendita dei beni collettivi, che però riesce solo marginalmente a intaccare i territori delle comunanze, anche per via della vigorosa resistenza messa in opera dalle comunità locali: “gran parte del brigantaggio attivo sulla montagna ascolana fra età napoleonica ed unificazione nazionale è motivato, fra l’altro, proprio dalla volontà di difendere comunanze o usi civici”[8].

Dal momento dell’unificazione italiana lo smantellamento prosegue inesorabile. Durante i lavori per l’Inchiesta Jacini (Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola) diverse rappresentanze comunali chiedono senza mezzi termini al regio commissario “di tagliare alle radici l’antica pianta e di far sparire le comunanze insieme coi diritti d’uso […] invocando dottrine di economia politica allora indiscusse, e l’interesse dei loro bilanci”[9]. Il concetto è ribadito dallo stesso Stefano Jacini nella relazione finale dell’Inchiesta in cui chiede al ministero “che venga affrettata la liberazione completa, non solo di nome ma anche di fatto, della proprietà rurale dai vincoli e gravami che la inceppano in più modi”[10]. Nella smania di abolire le collettività che permea la cultura giuridica del periodo va detto che si registra qualche eccezione tra giuristi, economisti e sociologi eterodossi, i quali riconoscono almeno il diritto di esistenza a queste forme alternative di proprietà, sempre, ben inteso, che non mettano in discussione il sistema generale della proprietà capitalista. Così ad esempio, viene fuori il provvedimento del 1894 sull’Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio, presto reso inefficace, che in sostanza riconosceva la legittima esistenza della proprietà collettiva riconducendola sotto la tutela dello Stato.

Si è ormai capito che il dominio totalitario dello Stato e del mercato avanza a grandi passi, non risparmiando neppure quelle terre appenniniche che l’isolamento aveva protetto nei secoli. La legge fascista del 1927 sul “riordinamento degli usi civici” pretende di uniformare in un unico calderone situazioni e tradizioni diverse per cancellare tutto con un solo colpo di mano, anche se nella pratica le nuove figure dei Commissari “per la liquidazione degli usi civici” riusciranno a liquidare ben poco. Più tardi, con le “leggi sulla montagna” del 1952, 1971 e 1994 e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, la strategia dei poteri dominanti si affina non puntando più alla brutale soppressione dell’anomalia ma al suo recupero all’interno dell’ordinamento, come istituti tradizionali da tutelare, salvaguardare e valorizzare economicamente.

Terreni sul Monte Catria
Terreni sul Monte Catria

Comunanze senza comunità

Ingabbiare quegli antichi assetti collettivi e comunitari nel costume troppo stretto del sistema politico moderno, facendo calare dall’alto forme giuridiche che appartengono a una cultura estranea e nemica, è un’operazione impossibile se non snaturandoli, ma necessaria all’autorità pubblica per esercitare forme di controllo.

Come dicevamo in apertura, la proprietà collettiva ha senso fintanto che esiste una comunità legata da un vincolo solidaristico e spontaneo, ma nel momento in cui viene a perdersi il legame con quegli specifici uomini e donne per fare riferimento a un cittadino in astratto, essa smarrisce il suo valore sociale. Nel mondo della merce la comunanza diventa un’azienda agro-silvo-pastorale che di valore conosce solo quello dei registratori di cassa, come se la sua giustificazione stesse nella produttività (ambientale, turistica, economica) che dimostra con una oculata gestione imprenditoriale. Le terre non più direttamente utilizzate vengono sfruttate magari affittandole a grandi allevatori o a industrie del legname ed ecco che la montagna casca dalla padella dell’abbandono alla brace dello sviluppo capitalista che ne fa mera appendice delle aree urbane. Quando, poi, si inizia a pensare alla valorizzazione dei territori come nicchie gastronomiche il cerchio si chiude: le loro tipicità le ritroveremo esposte sugli scaffali delle neomoderne boutique del gusto.

Il lago di Pilato sui monti Sibillini
Il lago di Pilato sui monti Sibillini

Bibliografia:

Atti del convegno nazionale sulle comunanze agrarie e le terre dei comuni, con particolare riferimento all’appennino centrale: situazione attuale e prospettive future: Macerata, 3 ottobre 1970, [S.l., s.n., 1970?].

Francesco Bonasera, Le “comunanze agrarie” nelle Marche: considerazioni geografiche, «Annali della Facoltà di Economia e commercio [dell’Università di Palermo]», 33(1979), n. 2-3, p. 217-232.

Carla Catolfi,  Le comunanze agrarie nella transizione al Novecento, in Nelle Marche centrali: territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, a cura di Sergio Anselmi, [S.l.], Cassa di Risparmio di Jesi, 1979, v. 2, p. 1428-1473.

Vittorio Danielli, Domini collettivi ed usi civici della provincia di Pesaro ed Urbino, Senigallia, Tip. Puccini e Massa, 1908.

Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia: storia legislazione e dottrina con raffronto alle origini e vicende delle comunanze agrarie della provincia di Pesaro e Urbino, Pesaro, Nobili, 1898.

Gaspare Finali, Le Marche: ricordanze, Ancona, Morelli, 1896 (rist.: [Pesaro], Istituto per la storia del Risorgimento italiano-Comitato di Pesaro e Urbino, 2010).

Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, «Science», 1968, n. 162, pp. 1243-8.

Fondazione Medit Silva, Studi e ricerche sugli ordinamenti statutari delle proprietà collettive presenti nella Regione Marche e nell’Appennino centrale, Ancona, Consiglio Regionale delle Marche, 2013.

Olimpia Gobbi, Le Comunanze dei Sibillini fra XVII e XIX secolo: uso delle risorse e conflitti d’interesse, «Proposte e ricerche», 1994, n. 32, p . 65.

Olimpia Gobbi, Le terre collettive nell’esperienza delle comunanze agrarie marchigiane, «Archivio Scialoja- Bolla», 2004, n. 2, p. 97-123.

Paolo Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977.

Massimo Guidetti, Paul H. Stahl, Un’Italia sconosciuta: comunità di villaggio e comunità familiari nell’Italia dell’800, Milano, Jaca Book, 1977.

Inchiesta Jacini. Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, v. 11: Relazione del commissario marchese Francesco Nobili-Vitelleschi, senatore del Regno, sulla V circoscrizione, t. 2: Provincie di Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata, e Pesaro, cap. 17: [Ghino Valenti], La proprietà collettiva nella zona montana, p. 487-516, Roma, Forzano, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1987); v. 15.1: Relazione finale sui risultati dell’Inchiesta, Roma, Forzani, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1988).

Indagine preliminare per lo studio delle comunanze agrarie dell’Appennino umbro-marchigiano, [a cura dell’Istituto Policattedra di Geografia], Rimini, Maggioli, 1983.

Corrado Leonardi, Ville e comunanze nella corte di Casteldurante nei sec. XIII-XVI, in Uomini, insediamenti, territorio nelle Marche dei secoli XIII-XVI, Ancona, Deputazione di storia patria per le Marche, 1981, p. 267-318.

Joyce Lussu, Le comunanze picene: appunti e immagini tra storia e attualità, Fermo, Andrea Livi, 1989.

Joyce Lussu, Tra comunità e comunanze all’ombra della Sibilla: divagazioni picene, «Proposte e ricerche», 1988, n. 20, p. 111-116.

Ghino Valenti, Il rimboschimento e la proprietà collettiva nell’Appennino, Macerata, Stab. tip. Mancini, 1887.

Comunanze agrarie tra Marche e Umbria
Comunanze agrarie tra Marche e Umbria

[1] G. Finali (1896), Le Marche, p. 162-163.

[2] Cfr. Inchiesta Jacini (1884), v. 11, t. 2, cap. 17; Indagine preliminare (1983).

[3] O. Gobbi (2004), Le terre collettive, p. 123.

[4] G. Hardin (1968), The Tragedy of the Commons.

[5] J. Lussu (1989), Le comunanze picene, p. 31.

[6] O. Gobbi (1994), Le Comunanze dei Sibillini, p . 65.

[7] G. Valenti, Il rimboschimento e la proprietà collettiva, p. 82.

[8] O. Gobbi (2004), Le terre collettive, p. 101.

[9] G. Finali (1896), Le Marche, p. 162.

[10] Inchiesta Jacini (1884), v. 15, t. 1, p. 100.

Della montagna e di altre sciocchezze (#10)

Della montagna e di altre sciocchezze
Di Cristiano Ceccucci

Castello di Frontone e Monti Catria e Acuto
Castello di Frontone e Monti Catria e Acuto. Foto di Cristiano Ceccucci

 

Inizio

Il primo ricordo che ho della montagna risale a oltre trent’anni fa. Con mio padre eravamo saliti dalla “strada delle Scalette” fin quasi a ridosso dei prati del Catria [montagna dell’Appennino umbro-marchigiano, ndr.] sovrastati dall’imponente croce di ferro. Avevamo percorso una delle tante carrozzabili che negli anni Sessanta e Settanta furono aperte in quello che fu uno sconsiderato assalto alla montagna nel nome del “progresso” e che oggi rimangono come vecchie cicatrici che il tempo e la natura faticano a rimarginare.
Fummo sorpresi dalla nebbia che arrivò rapida e silenziosa e avvolse tutto, isolandoci dal mondo. Per me, bimbo di dieci anni, fu quasi un gioco il fatto di ritrovarci avvolti in quella bambagia, ma mio padre si preoccupò e non poco. “La nebbia ammanta tutto di bianco e nasconde, all’occhio di chi guarda, il giallo e il bruno delle colline in lontananza, giù verso la costa. L’immaginazione e il pensiero sono liberi di vagare, in modo di attraversarla e scorgere al di là il sole”.
Fummo “salvati”, in fondo si trattò di un’avventura, dal seguire il suono delle campane al collo delle mucche che pascolavano più a valle, nei pressi della gloriosa 500.
Dopo quell’esperienza ho ricordi di notti passate in tenda, nella faggeta di Valpiana, assieme a mio padre, ai miei fratelli e sorelle attorno a un fuoco, in attesa che l’acqua nella pentola bollisse per un piatto di spaghetti che assomigliavano più a una “colla” che a un piatto di pasta.
Passano gli anni… Nel frattempo mio padre se n’è andato e la passione per le camminate, la montagna e gli spazi aperti che ci ha instillato si è radicata ed è cresciuta. Un’altra passione che aveva, quella della caccia, non è riuscita per fortuna a mettere radici… Non ho mai capito come una persona che ama la natura, e mio padre l’amava davvero, possa esercitare un’attività come la caccia. Ma questa è un’altra storia…

Faggi e antiche pietre
Faggi e antiche pietre. Foto di Cristiano Ceccucci

La percezione del tempo

Avete mai provato a pensare al tempo?
No, non al tempo meteorologico, ma a quello inventato dagli esseri umani per regolare e ordinare le loro occupazioni e attività.
Ecco, quassù in montagna, il tempo come lo intendiamo noi non esiste.
Quassù i problemi e i pensieri legati al materiale quotidiano non arrivano, tutto segue un altro ritmo cadenzato dai suoni, dai colori, dal vento e dal susseguirsi delle stagioni.
Ci troviamo in un altro spazio-tempo, uno spazio-tempo per così dire verticale, che richiede un’altra visione e altri modi di pensare.
L’esplorazione della montagna, con i suoi valichi, i suoi passi i sentieri i boschi e le pareti rocciose, è esplorazione di noi stessi, dei sentieri e dei nostri valichi e forre interiori.
Le montagne sono il nostro desiderio di Altrove, la ricerca della bellezza come cura e nutrimento dell’anima.
La concentrazione nel camminare, passo dopo passo, la fatica e il sudore, hanno una funzione rigenerante per il corpo e soprattutto per la mente.
Otto ore di camminata, di fatica e sudore, non sono la stessa fatica e sudore paragonabili a ore di lavoro “in pianura”, legate alle nostre materiali e terrene attività.
Sono fatica e sudore che portano a scoprire angoli di paesaggio che a volte neanche immaginiamo possano esistere in questo mondo totalmente asservito allo sfruttamento e al profitto.
Eppure certi scorci e certi panorami esistono ancora e basta poco e un minimo di curiosità per arrivare a goderne.
Una prateria d’alta quota, una forra, un bosco o la cima di una montagna.
Quando guardiamo un monte, anche quello che ci sembra di conoscere meglio, in realtà non osserviamo mai lo stesso monte.
Basta una luce diversa, il vento o una stagione differente; potremmo vivere diverse vite, ma la montagna che ci si presenterà davanti sarà sempre mutevole e sfuggente, seppur concreta e apparentemente immobile.
E si risveglierà di nuovo, mutevole e brulicante di vita, al tepore di una nuova stagione.

Fonte Cupaie, monte Catria.
Fonte Cupaie, monte Catria. Foto di Cristiano Ceccucci

I primi a sfruttare i boschi e le foreste a livello “industriale” furono i romani sia per le costruzioni civili e militari, che per usi agricoli.
Eppure anche i romani, i più moderni tra gli antichi, avevano per gli alberi e i boschi un certo rispetto e timore.
Si, timore, perché la “Selva” rappresentava un luogo ostile, sede di imboscate improvvise e violente, che scompaginavano l’assetto ordinato delle legioni e impedivano ai soldati di combattere, come erano soliti fare, in maniera ordinata.
Alcune selve erano considerate sacre in quanto collegate a località divine di per sé, come sepolcri, templi, sorgenti.
Questi luoghi prendevano il nome di Lucus (Luchi) e erano abitati da divinità, il Genius loci, che rappresentava l’entità soprannaturale che viveva in quel posto. Luco dei Marsi, per esempio, tradisce nel suo nome la presenza di un’antica e sacra presenza.
Dopo duemila anni di cosiddette “civilizzazione” e “modernità” non siamo stati capaci neanche di mantenere un po’ di sacralità per gli alberi e i boschi ma, anzi, abbiamo fatto di tutto per svilire e distruggere tali ambienti.
Nel secondo dopoguerra la superficie boschiva dell’Italia era attorno al 18% del territorio, oggi siamo al 35-36%, il doppio.
C’è stata una grande ripresa dovuta principalmente all’abbandono della montagna e all’inurbamento delle popolazioni, ma la maggior parte di questi boschi sono boschi “poveri” cioè cedui, legati a tagli pesantissimi che difficilmente riusciranno a raggiungere lo stato di boschi maturi ad alto fusto.
Per quanto riguarda le Aree protette e i Parchi Nazionali molto è stato fatto per garantire la salvaguardia degli ecosistemi naturali che hanno favorito la creazione di oasi e “corridoi ecologici” necessari alla fauna selvatica per spostarsi e riprodursi.
Ma la maggior parte di tali aree sono “protette” solo sulla carta in quanto attività venatoria e bracconaggio, il cui confine a volte è nebuloso, abusivismo edilizio, tagli indiscriminati, uso di mezzi motorizzati e altre attività umane, appunto sulla carta proibite, vi si svolgono comunque.
In un paese come il nostro nel quale tutto quello che va sotto il nome di cultura è visto con sospetto, se non con paura, da una classe politica sempre più avulsa dalla realtà e autoreferenziale, la natura e l’ambiente, che per me rientrano a pieno titolo nel concetto di beni culturali, sono beni non essenziali, che possono essere anche trascurati.

Castellaccio, resti di fortilizio medievale nei pressi di Fonte Avellana.
Castellaccio, resti di fortilizio medievale nei pressi di Fonte Avellana. Foto di Cristiano Ceccucci

La Memoria e la Montagna

La montagna per me è anche il luogo della Memoria.
Della Memoria e della Resistenza. Della Resistenza legata al passato e della mia Resistenza attuale.
I partigiani salirono in montagna per sfuggire ai rastrellamenti e per lasciare le città dominate da tedeschi e fascisti. Oggi si sale in montagna per ricordare e ancora una volta per resistere.
Resistere ai ritmi imposti dalla società attuale che tutto ha omologato e che ci vuole non più come cittadini con dei diritti e dei doveri, ma come consumatori solamente e che si ricorda di noi solo in occasione di quella sorta di farsa che sono diventate le elezioni!
Questa società che ci obbliga a dover produrre e consumare tutto e sempre di più per diventare schiavi di una sola cosa, il mercato e le multinazionali.
Resistenza, quindi, e Memoria. La montagna ha Memoria.
Molta gente invece ha rimosso i fatti del passato e sottovaluta i rischi del presente perché scomodi e ingombranti e perché di ostacolo al raggiungimento dei loro fini e delle loro misere esistenze.

Cascina in fazione Pretare, Monti Sibillini
Cascina in fazione Pretare, Monti Sibillini. Foto di Cristiano Ceccucci

 

Escursionismo come ecologia della mente e del corpo

Per avvicinarsi alla montagna non c’è bisogno di essere degli atleti o voler svolgere una pratica estrema, basta essere consapevoli dei propri limiti e capacità e osservare poche ma precise norme di comportamento. Il modo migliore per andare in montagna penso sia quello del trekking e dell’escursionismo.
Si tratta di un metodo lento, a “misura d’uomo”, che permette di cogliere tutti i diversi aspetti dell’ambiente, di osservare i colori e le forme, di cogliere i silenzi e i suoni e di vedere animali.
L’ecologia è la scienza che studia gli esseri viventi, l’ambiente in cui questi vivono e le interazioni che avvengono tra questi e l’ambiente stesso.
L’uomo, in quanto creatura vivente e abitante di questo pianeta, non fa eccezione, interagisce con gli altri esseri viventi e l’ambiente da millenni, modificando e condizionando la vita dei primi e l’assetto e l’equilibrio del secondo, spesso in maniera negativa e fortemente impattante.
La pratica del camminare è vecchia quanto l’uomo.
Basti pensare ai popoli del passato, e anche a molte popolazioni attuali, che fin dalla notte dei tempi si spostavano, e si spostano, alla ricerca di territori idonei prima al loro stile di vita legato alla caccia e alla raccolta, poi alle greggi e alle mandrie e alla ricerca di luoghi con climi più miti, quindi adatti all’agricoltura.
Oggi l’escursionismo, il recupero dei sentieri e delle vecchie mulattiere, può essere visto non solo come attività ricreativa e di approccio e ritorno al territorio, ma come vera e propria operazione di recupero culturale delle tradizioni e della memoria.
Nella nostra regione molti sono i sentieri percorribili durante tutte le stagioni dell’anno, da quelli del massiccio del Catria e del Nerone a quelli del Furlo e delle Cesane, da Frasassi e dall’area del pre-appennino fabrianese, al Montefeltro con i due “Sassi” e il monte Carpegna, al massiccio dell’Alpe della Luna, a cavallo tra le Marche, la Toscana e l’Umbria che funge da spartiacque tra l’alta valle del Tevere e quella del Metauro.
Semplici passeggiate o trekking impegnativi su notevoli distanze e con importanti dislivelli.
Boschi, ruscelli, gole e forre che si alternano a prati e pascoli di alta quota, ambienti diversi che costituiscono quell’unicum che rappresenta l’ecosistema montano della nostra regione e che deve essere tutelato e salvaguardato.
Il silenzio dei luoghi attraversati permette di concentrarsi sull’ambiente che si sta attraversando e di cogliere i suoni e gli scorci più belli, di osservare qualche timido animale che si può incontrare lungo il cammino o di vederne le tracce.
Per chi sa “cogliere” si tratta di una immedesimazione con la natura e con la vita che si muove attorno che ci permette di avere un contatto diretto con l’ambiente “primordiale” dal quale tutti veniamo.
In realtà un ambiente primordiale e puramente naturale è oggi pressoché impossibile da rinvenire nel nostro paese, se non in qualche località che si è salvata dalla rapacità dell’uomo e dal profitto a tutti i costi perché assolutamente impervia e difficilmente raggiungibile e quindi economicamente non conveniente, o perché trasformata in area protetta.

Muretto a secco nella faggeta alle pendici del monte Gorzano, monti della Laga
Muretto a secco nella faggeta alle pendici del monte Gorzano, monti della Laga. Foto di Cristiano Ceccucci

 

Finale

Questo breve excursus all’interno del mondo della montagna, dei miei pensieri e in fondo del mio modo di essere, vuole stimolare un invito alla riflessione.
Senza nessuna pretesa dal punto di vista didattico o del voler insegnare qualcosa a qualcuno e ben consapevole che le mie non sono verità assolute.
Sono semplicemente lo sforzo che cerco di compiere quotidianamente nell’approcciarmi agli argomenti che più mi stanno a cuore e nel cercare di avvicinare più gente possibile (se lo vorrà) a un ambiente, la montagna appunto, e alla natura in senso più ampio, che meritano sicuramente la nostra attenzione e il nostro rispetto.
Vorrei far capire che la natura basta a sé stessa.
E dovrebbe bastare così come è anche a noi.
Che non è un bene di consumo e non è nemmeno un contenitore vuoto da dover riempire a tutti i costi con qualcosa che sia “altro”.
Un’alba e un tramonto sono fenomeni naturali già splendidi ed emozionanti così come sono, senza bisogno d’altro.
Altrimenti si perde il senso profondo delle cose e la gente penserà che un tramonto, un bosco e un sentiero “sono fighi” perché c’è della bella musica rilassante, le candele che accompagnano il cammino ai lati del sentiero e il baracchino delle bibite al termine del percorso.
Come ho detto, il mio vuol essere un invito alla riflessione e ad abbandonare almeno per una volta, quando si sale in montagna, gli orpelli che quotidianamente ci portiamo dietro, ma anche dentro.

Scultura di ghiaccio
Scultura di ghiaccio. Foto di Cristiano Ceccucci