Baldoni Romolo o Remolo, detto Remo. Muratore. Anarchico (#4)

Baldoni Romolo o Remolo, detto Remo. Muratore. Anarchico.
Di Federico Sora [QUI IL PDF]

Fano ha una lunga tradizione sovversiva e ribelle. La locale sezione dell’Internazionale, su posizioni antiautoritarie e antimarxiste, è una delle prima fondate nelle Marche, nel febbraio 1872, e da allora gli anarchici hanno messo radici in città. Questo articolo ci racconta la storia di uno di loro, a cavallo tra Ottocento e Novecento. È la storia antica di un “militante di base”, come si sarebbe detto in altri tempi, di uno di quelli che solitamente non finiscono nelle pagine dei libri di storia, ma la cui biografia è parte integrante e attiva dei percorsi collettivi “verso la vera giustizia sociale” (così recitava il sottotitolo di un giornale anarchico fanese dell’epoca). Pensiamo che gettare uno sguardo sulle grandi e piccole vicende delle generazioni che ci hanno preceduto, da quelle dei più noti rivoluzionari fino alle teste calde come Remo Baldoni, sia utile per affrontare con maggiore consapevolezza il nostro presente.

Baldoni Romolo - Foto segnaletica nel Casellario politico centrale
Baldoni Romolo – Foto segnaletica nel Casellario politico centrale

Remo Baldoni nasce a Fano il 2 luglio 1878 da Giuseppe e Teresa Gasperini. La scheda personale del Casellario politico centrale, compilata dal prefetto di Pesaro e Urbino nel 1898, lo descrive “di carattere vivace, con educazione limitata alle prime classi elementari; Baldoni si professa anarchico ed è uno tra i più attivi esponenti dell’anarchismo fanese, ma non ha grande influenza, non ha contatti con altri compagni al di fuori di Fano né mai ha collaborato con stampa e periodici…”.

Ancora diciottenne, nella notte tra il 31 luglio e il 1 agosto del 1897, viene sorpreso insieme a Romolo Casabianca, anch’esso muratore e anarchico, mentre disturbano la quiete pubblica cantando e gridando frasi sediziose per le vie della città. Baldoni si rifiuta in quell’occasione di fornire le proprie generalità agli agenti di pubblica sicurezza; al conseguente processo conferma tranquillamente il fatto senza dare alcun tipo di giustificazione e viene condannato a cinque giorni di detenzione.

Molto più rilevante la vicenda a cui partecipa la sera del 5 settembre 1897. Baldoni fa parte di una comitiva di una trentina di giovani tra i quali diversi noti esponenti anarchici che vanno schiamazzando per le vie di Fano, al suono delle chitarre suonate da Arturo Pensieri e Antonio Gennari. Giunta in piazza XX settembre, la comitiva disturba il concerto tenuto dalla banda cittadina, tanto da rendere necessario l’intervento di carabinieri e guardie. Probabilmente l’episodio non era casuale ma organizzato per creare disordini; il giorno precedente, infatti, il prefetto aveva inviato una comunicazione che preannunciava la possibilità di un’iniziativa contro il progetto di legge sul domicilio coatto, proibendo qualsiasi manifestazione. Il delegato di PS Achille Riello redarguisce quindi i giovani e ordina loro di sciogliere l’assembramento. Ma il gruppo oppone resistenza e l’anarchico Domenico Saltarelli, in particolare, invece di obbedire all’ordine prende a contestare platealmente l’operato del delegato, accusandolo di compiere un sopruso.

Vecchia Fano - Via San Francesco
Vecchia Fano – Via San Francesco

Mentre Saltarelli viene tratto in arresto, il gruppo si fa più minaccioso e altre persone accorrono sul luogo dell’assembramento. I carabinieri iniziano a tradurre l’arrestato verso la caserma che si trova all’inizio di via Cavour, seguiti a distanza ravvicinata da una piccola folla che inveisce contro i militari e cerca di liberare il compagno. Raggiunto l’incrocio con via Garibaldi, a poca distanza dalla caserma inizia lo scontro più cruento. Qualcuno afferra le sedie di un locale e le scaglia contro i carabinieri, fatti oggetto anche di calci e pugni da parte di alcuni anarchici, fino all’arrivo di una pattuglia di rinforzo con le spade sguainate. Sopraggiunge infine il delegato Riello, che si era momentaneamente attardato, il quale tenta di pacificare gli animi promettendo di intervenire il giorno seguente per la liberazione di Saltarelli, che era stato nel frattempo rinchiuso in caserma. Il suo tentativo di mediazione risulta vano e quando cambia tono e ammonisce la folla di non compiere sciocchezze, per tutta risposta viene strattonato, gettato a terra, malmenato e colpito con diverse coltellate senza dargli modo di estrarre la pistola, mentre dalla folla diverse persone incitano “dategli forte!”, “dalli, dalli!” o l’apostrofano ironicamente “Ah, Riello, le prende tutte?”. Poi i carabinieri, che avevano lasciato il prigioniero in caserma, riescono revolver alla mano mettendo in fuga il gruppo che aggrediva il delegato. Riello è portato all’ospedale dove rimane per una trentina di giorni e, una volta guarite le ferite, gli viene fatta cambiare aria con il trasferimento a Grosseto.

Pochi giorni dopo l’episodio, Remo Baldoni viene arrestato presso la sua abitazione di via Tomassini 11, sulla base della testimonianza di Riello che, dal letto dell’ospedale, affermava di averlo riconosciuto tra gli aggressori. Baldoni ammette che la sera del 5 settembre si trovava in piazza XX settembre, ma era in compagnia della sorella per ascoltare il concerto della banda, al termine del quale se ne era andato senza essersi reso conto di nessun incidente. Dev’essere stato convincente… visto che il tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove, mentre condanna buona parte degli altri imputati.

L’anno successivo Baldoni è protagonista di un nuovo episodio davanti alla caserma dei carabinieri di via Cavour, dove si presenta con un coltello in pugno verso le ore 19.00 del 14 ottobre 1898, urlando ripetutamente: “evviva l’anarchia! Evviva la rivoluzione sociale! È ora di finirla, abbasso i preti e la borghesia!”, aggiungendo “se vengono avanti questi vigliacchi dei carabinieri, dei quali non ho paura, gli darò un colpo sul muso!”. I militari assistono alla scena dalle finestre, ma appena escono dalla caserma Baldoni si è già dileguato. Questo episodio suscita un certo clamore, anche perché non si era ancora spenta l’eco dei moti popolari che in quell’anno avevano scosso l’intero paese e ogni scintilla avrebbe potuto accendere nuovamente le piazze. Baldoni viene poi arrestato ma anche questa volta riesce a cavarsela. Al processo dichiara che quel giorno era al lavoro presso il cantiere della Pretura a palazzo Marcolini sotto la direzione di Alessandro Verna, al termine della giornata si era recato in compagnia di altri all’osteria dell’Antonia di porta Cavour e da allora di non ricordare più nulla. Il pretore di Fano, che nelle cause discusse immediatamente prima aveva condannato gli anarchici Bruto Giovannini e Amedeo Calamandrei per contravvenzione alla vigilanza speciale, derubrica il reato da oltraggio e grida sediziose a ubriachezza molesta, con una pena di venti giorni di reclusione.

Vecchia Fano - Rocca Malatestiana
Vecchia Fano – Rocca Malatestiana

La frequentazione delle aule di giustizia non gli fa evidentemente mettere la testa a posto. Sempre nel 1898 Baldoni risulta denunciato per reato di danneggiamento, ma il giudice istruttore del tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove. Nuova imputazione nel 1900, quando insieme ai compagni Giulio Tebaldi, Duilio Diambrini e Fortunato Dori è accusato di ingiurie, offese e lesioni ad alcuni soldati. Il fatto accade la sera del 13 maggio: in via Nolfi il sergente Francesco Achille è beffeggiato da alcuni giovani e seguito fin sotto la porta della caserma, all’uscita di altri militari il gruppo incrementa le offese e lancia dei sassi, uno dei quali colpisce alla testa un soldato. I giovani vengono quindi inseguiti e quasi raggiunti, ma alle loro grida di aiuto accorrono almeno una decina di persone, alcune armate di pistole, che a loro volta mettono in fuga i militari. Baldoni per l’ennesima volta viene identificato, ma i soldati non procedono con la querela e tutti gli imputati vanno prosciolti. Un anno dopo, il 4 febbraio 1901, si presenta in maschera presso il Teatro comunale di Fano, in occasione del veglione carnevalesco della Società dei barbieri, ma alcune solerti guardie municipali tentano di cacciarlo perché “indecentemente vestito”; Baldoni oppone resistenza e all’arrivo dei carabinieri grida “sono socialista anarchico rivoluzionario! Evviva l’anarchia! Io non ho paura!”: condanna a 4 mesi e 15 giorni di carcere (poi ridotta dalla corte d’assise di Ancona).

Nel giugno 1901 si reca a Roma in cerca di lavoro, dopo pochi giorni viene però rispedito a Fano perché rimasto senza mezzi e occupazione. Qualche mese più tardi, il 7 ottobre 1901, insieme ai calzolai Mario Chiari, Carlo Falconieri, Romolo Falcioni, al pescivendolo Dalmazio Falcioni, al decoratore Augusto Guidi e al cameriere Giuseppe Selvetti è accusato di oltraggio ai carabinieri: in piazza XX settembre, nella tarda serata, i carabinieri intervengono per il disturbo alla quiete pubblica arrecato da una ventina di giovani, che a quanto pare stavano invece solo discutendo animatamente di questioni politiche socialiste-anarchiche. Uno dei denunciati, Mario Chiari, aveva risposto: “sono anarchico e non rispetto le vostre leggi attuali ed è meglio che ve ne andate sennò succede qualcosa”.

Baldoni, a 23 anni, capisce che è il caso di lasciare Fano per cercar fortuna altrove. Nel 1902 prende residenza in Svizzera, a Vallorbe, nel 1903 è segnalato per l’opportuna vigilanza a Varzo in Piemonte, nei pressi del confine svizzero, impiegato presso la Società Mediterranea a posare le rotaie della linea verso il Sempione. Nel 1904 è di nuovo in Svizzera dove si fa arrestare ed espellere per mancanza di residenza; le autorità italiane lo fermano alla frontiera in quanto anarchico e pregiudicato e procedono al rimpatrio disposto per motivi di pubblica sicurezza. Successivamente, munito di regolare passaporto, parte alla volta di Trieste imbarcandosi sul piroscafo a Ravenna, ma nell’aprile del 1905 è di nuovo di ritorno a Fano; riparte verso Trieste nel successivo mese di maggio e da allora si perdono, almeno momentaneamente, le sue tracce. Nel 1908 il delegato di PS di Fano lo indica come emigrato negli Stati Uniti, senza però precisare la località. Nel 1911 è segnalato quale sottoscrittore del periodico anarchico «Cronaca Sovversiva» di Barre. Negli Stati Uniti risulta essere residente prima a Logansport (Indiana), poi a Woonsocket (Rhode Island) e dal 1907 a New Haven (Connecticut).

Vecchia Fano - Corso V. Emanuele
Vecchia Fano – Corso V. Emanuele

Rientra a Fano nel 1913 dove, per i suoi precedenti, viene attentamente vigilato. Non senza ragione, visto che Baldoni riprende il suo posto tra i più attivi anarchici fanesi. In agosto, durante lo sciopero proclamato dall’Unione sindacale italiana in solidarietà con le agitazioni operaie milanesi e senza l’appoggio della Confederazione generale del lavoro, è accusato di aver impedito insieme ad altri, con minacce e violenze, la libertà di commercio. Fano è l’unica località della provincia dove si tengono due giornate di agitazione, mentre altrove i dirigenti riformisti ignorano lo sciopero. Gruppi di dimostranti iniziano nelle prime ore del mattino il giro delle officine, dei cantieri, delle filande, del porto e degli stabilimenti annunciando lo sciopero che ben presto diventa completo. Durante la mattinata si verificano degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e un operaio è ferito gravemente alla testa da una sciabolata. Alcuni dimostranti sono arrestati, tra questi Baldoni con l’accusa di aver bloccato le vetture pubbliche. Nella relazione della polizia si legge che Baldoni esercitava un certo ascendente sugli altri, marciando in testa al gruppo di dimostranti e usando un contegno irriverente nei confronti della forza pubblica. Viene anche riportata la sua dichiarazione di “non riconoscere né legge né si crede obbligato a rispettarla”, aggiungendo con ironia che “alla promulgazione di essa non era stato chiesto il suo assenso”.

Non poteva mancare per Baldoni un ruolo attivo durante le manifestazioni della Settimana Rossa. Anche Fano, come gran parte delle Marche e della Romagna, tra il 7 e il 14 giugno 1914 è scossa da manifestazioni, picchetti e da uno sciopero che blocca interamente la città per diversi giorni, anche dopo la cessazione proclamata dalla CGdL. Tra i principali agitatori, oltre a Casimiro Accini, figurano tutti i principali esponenti anarchici. Con loro il nostro Romolo Baldoni, chiamato poi a rispondere del reato di inosservanza delle disposizioni di PS. Mentre lo sciopero minacciava di assumere caratteri pre-insurrezionali, il commissario di PS aveva infatti invitato nel suo ufficio Baldoni e Alfredo Armanni, ritenendoli i due “caporioni” dell’agitazione. Avrebbe voluto diffidarli dal continuare a fomentare gli animi consigliando di cessare i disordini che da alcuni giorni disturbavano i cittadini e impedivano ai negozianti di aprire i loro esercizi. I due, ovviamente, si guardarono bene dal presentarsi, continuando a “passeggiare spavaldamente” in città.

Spenti gli entusiasmi della Settimana Rossa, il 19 luglio 1914 Baldoni parte alla volta di Parigi, da dove passa a Londra e, stando ai rapporti di polizia, si incontra più volte con il “noto anarchico” Errico Malatesta. Poco dopo ritorna negli Stati Uniti e nel 1918 è dichiarato disertore per non essersi presentato alla chiamata alle armi. Nel 1921 sbarca a Genova proveniente da Philadelphia, subito viene fermato ma nell’agosto dello stesso anno il tribunale pronuncia il “non luogo a procedere” in quanto il reato di diserzione era già stato amnistiato. Trova occupazione come cameriere a bordo dei piroscafi che viaggiano tra l’Italia e l’America e, più tardi, come muratore alle dipendenze di un’impresa di impianti elettrici. Viene segnalato a Genova ancora nel 1933 ma su di lui cessa la vigilanza poliziesca. Si ignorano data e luogo di morte.

Baldoni Romolo - Fascicolo del Casellario politico centrale
Baldoni Romolo – Fascicolo del Casellario politico centrale

FONTI: Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 281, fascicolo ad nomen; «Il Gazzettino» 13/9/1897, 5/12/1897 e 31/12/1897; «Piccolo Corriere» 23/12/1897; «L’Agitazione» 16/9/1897; «Il Gazzettino» 13/11/1898, 20/5/1900, 10/2/1901 e 3/3/1901; «In Marcia», 1/3/1913, 6/4/1913 e 24/8/1913; «La Frusta» 15/4/1920; Pretura di Fano, Sentenze penali, 1897, n. 137 contro Baldoni Romolo e Casabianca Romolo; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314 contro Baldoni Romolo; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1899, b. 753, n. 274 contro Saltarelli Domenico muratore 37 a., Falcioni Adolfo pescivendolo 22 a., Ferretti Gustavo muratore 20 a., Tarini Riccardo mediatore-facchino 29 a., Panzieri Arturo muratore 18 a., Gennari Antonio fabbro 17 a., Zandri Napoleone detto Bastia muratore 25 a., Verna Antonio falegname 20 a., Biscottini Vincenzo arrotino 23 a., Baldoni Romolo muratore 19 a., Valentini Alessandro tintore 20 a., Dori Fortunato scalpellino 17 a., Casabianca Romolo muratore 19 a., Montebelli Riccardo marinaio 16 a., Spallacci Augusto scalpellino 26 a., Biagioni Alberigo scalpellino 24 a., Simoncini Leandro muratore 17 a., Paci Luigi calzolaio 27 a., Lombardi Romolo tintore 23 a., Montebelli Erminio muratore 36 a., Falcioni Dalmazio 17 a., Talevi (o Tallevi) Giuseppe muratore 20 a.; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 113 contro Tebaldi Giulio, Baldoni Romolo, Diambrini Duilio, Dori Fortunato; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 112; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1901, b. 784, n. 320; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1902, n. 32 contro Chiari Mario; Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe, Accini Casimiro, Falcioni Adolfo, Pigalarga Alfredo, Marini Augusto, Chiari Guglielmo, Dionisi Costantino, Apolloni Fortunato, Baldoni Romolo, Francolini Ugo, Libretti Alessio; Pretura di Fano, Atti penali, 1914, n. 269 contro Armanni Alfredo e Baldoni Romolo.

Fascicolo del Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe et al
Fascicolo del Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe et al.

Un posto a sedere su tutte le corriere! (#1)

Un posto a sedere su tutte le corriere!
Di Valerio

Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973
Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973

 

Nel novembre del 1973, dopo l’ennesimo incidente verificatosi a causa del soprannumero di studenti che per andare a scuola prendeva la corriera, il Coordinamento Cittadino Studenti Medi di Fano lanciò la mobilitazione generale. Sciopero ad oltranza in tutte le scuole e blocco totale dei mezzi pubblici che transitavano per il Pincio.

La proposta della mobilitazione passò per pochi voti, gli studenti dei partiti della sinistra istituzionale tentarono in tutti i modi di bloccare la mobilitazione ma, purtroppo per loro, il tempo della mediazione, delle petizioni, degli appelli era abbondantemente scaduto. Era invece giunto il momento della lotta, dell’azione di forza.

Quello che non si sapeva, era come avrebbero reagito gli studenti fuori sede di fronte a tale iniziativa: avrebbero partecipato allo sciopero o si sarebbero recati a scuola? E gli altri studenti, quelli che a scuola ci andavano in bicicletta, avrebbero solidarizzato con i loro compagni seguendoli in una lotta che si preannunciava lunga e dura? Dopo le varie assemblee studentesche, molti dubbi assalirono i giovani compagni della sinistra…

Fortunatamente, a fugare tali e tanti dubbi arrivò il giorno dei blocchi. L’appuntamento per i compagni dei collettivi era fissato per le sei della mattina, si dovevano bloccare le prime corriere che da Fano partivano alla volta di Urbino (ITIS e Scuola d’arte), poi sarebbe toccato ai mezzi che portavano i geometri a Pesaro e le maestre a Fossombrone. Si immaginava che quella mattina sarebbe potuto accadere qualche tafferuglio, ma credevamo che parte degli studenti fuori sede fosse decisa a entrare a scuola e quindi bloccare le corriere sarebbe stato molto difficile e l’azione si sarebbe forse trasformata in un atto puramente dimostrativo, invece…

Mercoledì 14 novembre.
Appena arrivati alla stazione delle corriere ci raggiunsero decine e decine di studenti, le cosiddette “sardine”, quelli che ogni mattina erano obbligati a salire su quei mezzi sgangherati e stracarichi. Nessuno di loro salì sui pullman, anzi tutti parteciparono al blocco, più il tempo passava, più la massa degli studenti aumentava, decine, centinaia, migliaia di studenti bloccarono il Pincio sdraiandosi davanti a quei mezzi antiquati. Oltre alle corriere anche i tram furono bloccati. Verso le dieci di quella mattina un corteo spontaneo si mosse dalla stazione delle corriere per andare a manifestare sotto il deposito di Vitali. Il traffico andò in tilt e la città impazzì. Il pomeriggio i compagni dei collettivi si ritrovarono in assemblea, bisognava scrivere un nuovo manifesto, stampare altri volantini e soprattutto coordinare il blocco del giorno dopo.

Giovedì 15 novembre.
Quel giorno la mobilitazione fu grandiosa: tutte le scuole vuote con gli studenti al Pincio a bloccare le corriere. Non solo, ma anche a Urbino, Pesaro e Fossombrone gli studenti scioperarono e si misero a bloccare il traffico.

Venerdì 16 novembre.
Terzo giorno di mobilitazione generale. La lotta dal Pincio era dilagata in tutta la provincia. La mobilitazione però cominciava a mostrare i volti dei molti nemici, primi fra tutti quelli delle ditte private che lucravano su questa situazione, poi i politici perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, infine i presidi che non solo avevano le aule completamente vuote, ma vedevano nascere agguerriti collettivi che ne mettevano in discussione il potere e oltre al posto su cui sedere chiedevano la mensa gratuita per chi era costretto a rimanere il pomeriggio, il rimborso del materiale didattico (libri e quaderni) per chi non poteva permetterselo, criticavano la didattica (cosa studiare, per chi studiare) e infine ritenevano di giudicare l’idoneità dei professori preposti all’insegnamento.

Alle nove circa di quel venerdì mattina, oltre agli studenti e alle corriere comparvero, d’un tratto, le verdi camionette del battaglione Senigallia.

Una, due, tre, quattro… dieci, venti!

I celerini, dopo essere scesi dai mezzi, si schierarono più o meno all’incrocio tra viale Gramsci e via Roma, si avvicinarono agli studenti convinti che con qualche spinta e qualche manganellata avrebbero risolto velocemente la faccenda.

Invece gli studenti resistettero! Si disperdevano durante le cariche ma poi tornavano a contrastare i poliziotti e tenere bloccate le corriere. Quella mattina si sviluppò una tale baraonda che si concluse solo verso mezzogiorno. A quel punto tutte le corriere e i tram bloccati rientrarono vuoti nei rispettivi depositi. Così fece la celere che se ne tornò in caserma.

Con parecchie contusioni e qualche bernoccolo, gli studenti avevano vinto la loro battaglia. Difatti, qualche giorno dopo, arrivarono al Pincio mezzi nuovi fiammanti e tutti gli studenti fuori sede ebbero a disposizione il posto su cui sedere.

Grazie a quella mobilitazione e agli scontri del Pincio si formarono collettivi politici in tutti gli istituti superiori. Contemporaneamente i compagni della Federazione giovanile comunista furono quasi tutti espulsi dal partito. Fu proprio dall’epurazione di quel gruppo che nacque Lotta continua, e fu così che Fano da tranquilla città di provincia si ritrovò in prima linea nel conflitto politico e sociale che, di lì a poco, avrebbe attraversato l’Europa.

Schegge di antifascismo militante (#2)

Schegge di antifascismo militante
Di Valerio

“Le forze per impedire il tentativo di rinascita del fascismo esistono purché agiscano e facciano sentire il loro peso. Non è sufficiente dire che la storia non si ripete. È vero, non si ripete mai nelle stesse forme, negli stessi modi, ma se si lasciasse fare e non si lottasse con la giustezza e la decisione necessarie, mirando a precisi obiettivi, potrebbe ripetersi anche in peggio”.
Pietro Secchia

Pesaro, 1975 circa
Pesaro, 1975 circa

 

Per noi che avevamo conosciuto i partigiani che operavano nella nostra zona, avevamo udito dalle loro voci i racconti della guerra ai nazifascisti, percorso le valli e i sentieri dove operavano le brigate leggendarie (la quinta Garibaldi e la Lugli), attraversato i luoghi delle grandi battaglie di Valpiano, Vilano e Monte dei Sospiri, per noi giovani comunisti, l’antifascismo non fu soltanto un valore ideale, fu anche un modello organizzativo.

In Italia, dopo la strage di piazza Fontana, vi furono anni di bombe e tentativi di colpi di stato a ripetizione. Per contrastare quella strategia, il Partito comunista mobilitò tutto il suo apparato, legale e non. Anche noi, seppur giovanissimi, collaborammo con l’apparato illegale del partito. Allora, nessuno immaginava che quell’esperienza avrebbe segnato in modo indelebile il nostro agire. Prima che il partito ci epurasse per estremismo e nell’attesa dell’arrivo dei carri armati, avevamo creato una sorta di struttura clandestina. Niente di straordinario per dei ragazzi di sedici anni: avevamo attrezzato la cantina della nonna di una nostra compagna che viveva altrove con una macchina per scrivere, un ciclostile, una cassetta per le medicazioni, lo schedario con le foto e le informazioni sui fascisti nostrani, le forze dell’ordine e le varie catene di comando. Infine vi avevamo nascosto l’immancabile piede di porco con cui regolarmente, quasi ogni notte, smontavamo la bacheca del Fronte della gioventù.

In quegli anni bui, si diceva che le Marche sotto il profilo dello squadrismo fascista erano tutto sommato una regione tranquilla. Si citavano gli episodi più clamorosi come casi isolati. I fascisti locali erano visti come incapaci di provocazioni di alto livello, perché erano pochi e non sufficientemente militarizzati. La nostra regione del resto, viste le amicizie, coperture e complicità, era spesso usata dai fascisti come retrovia, come un posto sicuro e tranquillo dove trascorrere la latitanza lontano da ricerche e sguardi indiscreti.

In realtà le provocazioni fasciste furono abbastanza numerose. Ad Ascoli, per esempio, nei primi anni ’70 vi fu tutta una serie di attentati al tritolo, vi fu poi l’incendio dell’Università di Urbino nel ’72, in quello stesso anno il ritrovamento di un arsenale Gladio a Camerino e l’anno successivo spedizioni punitive contro sindacalisti e operai di Ancona. Vi fu poi, sempre ad Ancona, l’attentato al plastico firmato Ordine Nero contro gli uffici dell’esattoria comunale, per finire con il ritrovamento nel gennaio 1974 dell’ordigno inesploso che avrebbe dovuto far saltare il treno di pendolari sulla linea Ancona-Pescara. L’imprevisto transito di un treno merci straordinario fece saltare i detonatori che per fortuna non riuscirono a innescare l’esplosione.

Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975
Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975

 

Nella provincia di Pesaro, l’impegno principale dei fascisti locali erano l’organizzazione di campi paramilitari durante l’addestramento estivo della brigata Folgore sul monte Carpegna, oltre alla gestione dell’aeroporto di Fano dove venivano insegnati ai camerati i rudimenti del paracadutismo. Gli episodi di provocazione più rilevanti furono senza dubbio il già ricordato incendio dell’Università di Urbino (anche se non fu mai chiarito se a provocare l’incendio furono i fascisti assediati o i compagni assedianti) e il lancio di un ordigno incendiario all’interno del Circolo ARCI di Fano situato nel seminterrato sotto la sede del PCI, in via De Petrucci 18.

Dal 1975, dopo l’assassino del compagno Claudio Varalli a Milano, l’aria cambiò: l’agibilità politica ai fascisti fu impedita con la “forza”. Gli episodi che più di altri contraddistinsero quel periodo di antifascismo militante furono il tentativo d’impedire il comizio del missino Rubinacci a Pesaro, da cui scaturirono scontri e tafferugli con la polizia e, nella primavera del 1976, l’occupazione di una televisione privata fanese (Tele Fano), quando un pugno di giovani compagni armati di sassi e manici di piccone impedì la registrazione dell’appello elettorale del segretario del MSI locale, che in quell’occasione si era presentato scortato da un gruppo di giovani camerati e dai celerini del battaglione Senigallia. A Fano, dove operava il gruppo di fascisti più numeroso e aggressivo dell’intera provincia, scontri e aggressioni furono numerosi. L’episodio principale rimane l’assalto da parte dei compagni al bar Beaurivage in zona Lido, abituale ritrovo estivo dei fascisti locali i quali, durante una festa studentesca, avevano violentato una giovane ragazza. Dopo quest’ultimo episodio di antifascismo militante, i camerati nostrani sparirono definitivamente dalla scena politica della città…

Oggi per essere antifascisti non basta avere in tasca la tessera dell’ANPI o andare con la memoria al ventennio del secolo scorso. L’orrore del fascismo non furono solo le leggi razziali e l’entrata in guerra come sembra indicare un devastante senso comune. Occorre per esempio avere ben chiaro l’obiettivo delle stragi degli anni ’70 e ’80, la strategia della tensione e la guerra a bassa intensità scatenata allora contro i partiti di sinistra, i sindacati e soprattutto i movimenti. Lo dimostra il filo nero che lega quegli anni ad oggi, ai “fascisti del terzo millennio” che ritroviamo sistematicamente connessi con le reti della criminalità organizzata. Oggi i fascisti sono spesso utilizzati come forza d’urto, lasciata pascolare in pace nel mondo degli affari sporchi, dai quartieri alle curve, utilizzando la leva del razzismo e della xenofobia per la penetrazione e il controllo del territorio.

In una situazione di crisi economica, sociale, morale, politica come quella in corso, la funzione dei fascisti può trovare delle accelerazioni improvvise ma non casuali. Se c’è il vuoto politico e ideologico nella società e il conflitto sociale stenta a delinearsi come fattore di emancipazione, aggregazione e indicazione di alternative, questo vuoto può essere riempito da chi ha più soldi, uomini svelti a menare le mani e slogan semplici ed efficaci. È per questo motivo che occorre, soprattutto oggi, concentrare l’intervento politico sul territorio, nelle scuole, nei quartieri, nelle pieghe più incattivite dell’esclusione sociale. Questo vuoto è uno spazio che deve assolutamente essere riempito dall’antagonismo sociale, per sottrarlo ai fascisti e trasformarlo in un progetto di emancipazione.

Storia di Gaetano Lombardozzi, anarchico, marinaio e fabbro (#5)

Storia di Gaetano Lombardozzi, anarchico, marinaio e fabbro
Di Federico Sora

Gaetano Lombardozzi era solito organizzare scherzi agli amici. Ma quella volta fu lui la vittima e a quanto pare non la prese troppo bene. A fine Ottocento era emigrato come tanti negli Stati Uniti in cerca di una vita più dignitosa, per rendersi conto che anche lì gli sfruttati rimanevano tali. Era quindi rientrato in Italia, subito dopo la Prima guerra mondiale, per “fare la rivoluzione” nel grande fermento sovversivo del Biennio rosso. Ma le speranze sfumano e s’impone il fascismo. Lombardozzi ormai anziano, pieno di acciacchi e privo di mezzi di sostentamento riceve ogni tanto il sostegno di qualche dollaro inviatogli dai compagni rimasti oltreoceano. Per ricambiare decide di inviare loro una foto e così prende appuntamento con un amico fotografo. Dopo il primo scatto il fotografo dice che la foto non era venuta granché bene e invita Lombardozzi a rifarla con indosso una giacca che si trovava nello studio. Nella giacca, per uno scherzo architettato dai suoi amici, era stato appuntato il distintivo fascista! Il fotografo quindi, ricevuti gli indirizzi americani, assicura che lui stesso avrebbe provveduto a spedire la foto. Qualche sera dopo, in osteria davanti a una numerosa compagnia accorsa per l’occasione, il fotografo comunica a Lombardozzi di aver effettuato le spedizioni e gli mostra la seconda foto, quella col distintivo… Tutti i presenti ebbero parecchio da fare per trattenere Gaetano dall’ammazzare l’amico fotografo e per assicurargli che la foto spedita non era quella col distintivo fascista! (L’episodio è tratto da: Gigin Sperandini, “Gent sa la grasia: aneddoti fanesi”, Fano, 1976).

Gaetano Lombardozzi - Foto segnaletica

Gaetano Lombardozzi – Foto segnaletica 

Gaetano Lombardozzi nasce a Loreto, in provincia di Ancona, il 24 maggio 1860 da Pietro e Michela Trebbi; coniugato e poi vedovo di Elvira Bartolini; marinaio e fabbro; anarchico.

La famiglia si trasferisce a Fano quando Gaetano ha due anni. Quasi tutti i Lombardozzi residenti a Fano provenienti dall’anconetano sono schedati come sovversivi nel Casellario politico centrale. Anche due figli di Gaetano diventeranno attivi militanti di sinistra: dopo la Prima guerra mondiale trovano lavoro nelle grandi fabbriche di Torino e aderiscono al Partito comunista; perseguitati dal fascismo emigrano in Francia, tra il 1936 ed il 1939 partecipano entrambi come volontari alle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola e successivamente alla resistenza, Alipio in Francia e Sante in Italia.

Per Gaetano i guai con la giustizia iniziano già a quattordici anni, quando nel settembre del 1874 insieme ad alcuni compagni è coinvolto in un furto di grappoli d’uva, per il quale viene condannato a due giorni di arresto. Dieci anni dopo, nel 1884, insieme ad altri marinai di due imbarcazioni (il trabaccolo Guerino e il Ricardo) è accusato di oltraggio alla forza pubblica e contravvenzione alle leggi sulla sanità marittima. Il gruppo di tredici marinai era infatti giunti in porto la notte del 7 settembre dopo quattordici giorni di pesca, ma nonostante le disposizioni sanitarie prevedessero prima dello sbarco una visita preventiva, non volendo i marinai rimanere in attesa tutta la notte sulla barca se ne erano tranquillamente tornati alle loro case, oltraggiando le guardie doganali.

Il carattere irruento di Lombardozzi gli causa una discreta frequentazione delle aule dei tribunali: il 31 dicembre 1887 è accusato di aver ferito il marinaio Antonio Montanari durante un diverbio scoppiato presso l’osteria Piccinetti; viene però dichiarato non luogo a procedere. Nel novembre dell’anno successivo viene fermato mentre cerca di entrare all’interno della cinta daziaria della città con dieci litri di vino presi all’osteria di Filomena Biagioni senza pagare il dazio; spalleggiato da altri anarchici si oppone alle pretese delle guardia daziarie e toltosi uno zoccolo dai piedi ne colpisce una in testa. Sarà poi condannato a un mese di prigione.

Numeri unici anarchici stampati a Fano nel 1906
Numeri unici anarchici stampati a Fano nel 1906

 

Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento Lombardozzi alterna periodi in Italia e negli Stati Uniti. Secondo i registri dell’emigrazione di Ellis Island risulta approdato negli Stati Uniti l’11 maggio 1896 (motonave Spaarndam partita da Boulogne-sur-Mer, Francia), il 15 maggio 1901 (motonave Hohenzollern partita da Genova, insieme ad altri fanesi) e, seppur registrato con un dato di residenza inesatto, il 21 agosto 1904 (piroscafo New York partito da Southampton, Inghilterra).

Durante uno dei suoi rientri in Italia, nel giugno del 1894 partecipa a una manifestazione antimilitarista che termina con un duro scontro con le forze di polizia: la sera del 3 giugno mentre in piazza suonava la banda militare un gruppo di una ventina di giovani aveva inneggiato alla rivoluzione e gridato le frasi sovversive “abbasso Crispi!” e “viva De Felice!” (De Felice era stato condannato e incarcerato come promotore dei Fasci siciliani). Era quindi intervenuto il colonnello comandante del presidio militare, il quale era riuscito a bloccare Romolo Falcioni detto Pece e a consegnarlo a una guardia comunale. Grazie al pronto intervento dei compagni e alla colluttazione che ne era seguita, Falcioni era poi riuscito a divincolarsi. In quest’occasione le guardie segnalano Lombardozzi come il più attivo dei dimostranti, ma il procedimento penale non avrà esiti.

Dal 1904 risiede a New Haven (Connecticut), al 108 di Bank Street; in città esercita un piccolo commercio di generi alimentari mentre la famiglia, con cui rimane in corrispondenza, era restata a Fano. Dagli Stati Uniti, insieme ad altri compagni emigrati, non fa mancare le sue sottoscrizioni alla stampa anarchica fanese, in particolare per la nuova serie del periodico «In marcia» e per il numero unico «Largo alla verità». Quando nel 1907 muore (in Italia) sua moglie Elvira lasciando quattro figli piccoli lontani dal padre, i compagni fanesi si stringono a lui offrendo la loro solidarietà. Nel frattempo la polizia apre la scheda personale nel Casellario politico centrale, dichiarando che pur godendo di “buon nome” è un pericoloso ed esaltato propagandista delle idee anarchiche.

Vecchia Fano - Piazza XX Settembre
Vecchia Fano – Piazza XX Settembre

 

Nel 1910 si trasferisce in Carmine Street a New York, dove lavora presso il noto anarchico Vittorio Blotto, ma dopo pochi mesi rientra nel Connecticut, a New London, trasferendosi nel quartiere degli italo-americani di Fort Trumbull. Viene segnalato come sottoscrittore della «Cronaca sovversiva» di Luigi Galleani, oltre a continuare il sostegno economico della stampa anarchica fanese.

Secondo le fonti di polizia rientra a Fano il 21 luglio 1919, in seguito a un infortunio sul lavoro per il quale perde l’uso dell’occhio destro. Partecipa attivamente alla vita dei gruppi anarchici del primo dopoguerra e alle tensioni sociali del Biennio rosso. Nel giugno del 1920, durante la “rivolta dei bersaglieri” di Ancona, Lombardozzi e gli anarchici sono tra i protagonisti delle dimostrazioni che investono anche Fano, in un clima di rivolta, scioperi, scontri e incidenti. La sommossa nata dall’ammutinamento di un gruppo di bersaglieri di stanza ad Ancona, con il sostegno dei quartieri popolari e dei gruppi anarchici e repubblicani si era infatti presto estesa in altre città del centro-nord.

A Fano la notte del 29 rimane ucciso il carabiniere Tani, ma le indagini non riusciranno a stabilire se lo scontro a fuoco avvenne tra militari e rivoltosi oppure tra militari stessi che avevano scambiato un loro camion per un mezzo carico di sovversivi.

Gaetano è coinvolto nel procedimento penale aperto in seguito all’aggressione e alla confisca delle armi a due carabinieri di scorta a un treno destinato ad Ancona, bloccato alla stazione ferroviaria di Fano da una cinquantina di rivoltosi la sera del 28 giugno. Secondo i rapporti delle forze dell’ordine i principali responsabili erano ritenuti i fratelli Bruno e Alcide Ceresani (poi trasmigrati nelle file fasciste) accompagnati da altri dodici soggetti individuati non tanto tramite testimonianze dirette ma solo in base alla loro attività anarchica e alla loro presunta capacità di compiere azioni eversive. Lombardozzi verrà scagionato grazie a dei testimoni che affermeranno di averlo visto nello stesso orario dell’aggressione in un altro luogo, cioè nei pressi della sede dell’Unione marinai, il sindacato anarcosindacalista dei pescatori di Fano collegato all’Unione sindacale italiana.

Nel settembre del 1923, a sessantadue anni, è ancora oggetto di perquisizione domiciliare perché sospettato di detenere stampe sovversive. Le stampe non vengono trovate ma al loro posto saltano fuori alcune cartucce di rivoltella; Lombardozzi è quindi arrestato e rimane in carcere per alcuni giorni, al successivo processo viene condannato a due mesi e mezzo di prigione.

Sotto il regime fascista rimane in contatto epistolare con Errico Malatesta, che aveva conosciuto durante il suo giro negli Stati Uniti. Nelle carte sequestrate dopo la morte del leader anarchico, il nominativo di Lombardozzi è presente in quaderni, rubriche e appunti. Per via dell’età avanzata viene radiato nel 1929 dal Casellario politico, ma la vigilanza è prontamente riattivata quando nel 1933 le autorità sequestrano una lettera a lui diretta inviata dagli Stati Uniti dal fanese emigrato Arturo Ghiandoni. Nella lettera Ghiandoni comunicava che durante una festa di sottoscrizione per la stampa, i compagni anarchici degli Stati Uniti avevano deciso di raccogliere anche una somma a favore di Lombardozzi, spedendogli un assegno da trenta dollari (anch’esso sequestrato). Un episodio simile accade nel 1934, tanto che il comando della Milizia fascista di Pesaro segnala, certamente esagerando, che al Lombardozzi pervenivano con cadenza mensile somme di denaro dagli Stati Uniti. Da indagini esperite dal console comandante Italo Ingaramo, sembra che tali somme siano inviate dal Comitato internazionale per il Soccorso Rosso, dietro interessamento del suo compagno di fede Sabino De Stefano, calzolaio anarchico di Fano.

Nel 1935, ormai vecchio, privo di un occhio, carico di malanni e senza mezzi di sostentamento (i suoi figli sono nel frattempo emigrati in Francia) rivolge una richiesta al Duce per il dissequestro dei due assegni inviati dagli Stati Uniti e non ancora consegnati. Non si conosce l’esito di questa petizione. Muore a Fano il 4 luglio del 1936.

Gaetano Lombardozzi - Fascicolo del Casellario politico centrale
Gaetano Lombardozzi – Fascicolo del Casellario politico centrale

 

Fonti

Archivio centrale dello Stato, CPC, b. 2823, ad nomen. Pretura di Fano, Atti penali, fascc. n. 1/1875; 27/1882; 179/1884; 38/1888; 140/1888; 146/1894; 248/1923. Archivio di Stato di Pesaro (ASP), Sottosezione di Fano, ACF, 1894, cat. 16, classe 5, fasc. 3. ASP, Tribunale di Pesaro, Atti penali 1921, b. 1148, fasc. 123. «L’Agitazione», 3/1/1901; «In Marcia», 7/7/1906; «Largo alla verità», 13/10/1906; «Cronaca sovversiva», 30/3/1907; «In Marcia», 15/9/1912; «Pensiero e volontà», 1/9/1924 e 1/10/1924. Gigin Sperandini, Gent sa la grasia: aneddoti fanesi, Fano, 1976, p. 86, 107-109.

“Essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”. Fano, 1917: non vogliamo partire! (#6)

“Essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”.
Fano, 1917: non vogliamo partire!
Di Luigi

Sotto l’acqua che cadeva a rovescio
grandinavano le palle nemiche;
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza;
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.
Anonimo, “O Gorizia, tu sei maledetta”

Blu - Street art, Campobasso
Blu – Street art, Campobasso

 

Soldato Angeli Enrico da S. Angelo in Vado, soldato Arcangeli Guerino da Auditore, soldato Amadei Domenico da Auditore… e così via. L’elenco dei “gloriosi caduti” del 94° reggimento durante il primo conflitto mondiale conta oltre un migliaio di nomi: 1.565 uomini di truppa e 54 ufficiali, per la precisione, oltre a 1.887 soldati e 67 graduati feriti. Tra il 1915 e il 1918 circa 6 milioni di uomini vengono arruolati nell’esercito regio, 600 mila di questi non tornano a casa, altri 500 mila ci tornano feriti nel corpo, tutti i sopravvissuti portano segni nell’animo. Dalle Marche partono in 174.197. Ne muoiono undici su cento, come se d’improvviso un rastrellamento con conseguente decimazione avesse travolto le città e soprattutto le campagne marchigiane, portandosi via ventenni e trentenni. A conti fatti, la guerra entra direttamente nelle case di otto famiglie marchigiane su dieci, per strappare e condurre al fronte o nei servizi connessi almeno un loro membro.

Tra i soldati del 94° fanteria che non ci hanno rimesso le penne, c’è chi si gode le 2 patacche d’oro, 151 d’argento e 219 di bronzo al valor militare. Ma né in questo elenco né in quello dei caduti troviamo i nomi di Enrico Cabiati, nato a Vignole Monferrato il 15 ottobre 1894, Sante Cicognani, nato a Faenza il 1 novembre 1878 e Giovanni Casadei, nato a Ravenna il 15 agosto 1878. Loro la guerra non l’hanno fatta. Privati di fucile e divisa, condannati per rivolta, invece che al fronte stavano dietro le sbarre a scontare lunghe pene detentive “perché le sera del 21 aprile 1917, essendo  il drappello di cui facevano parte schierato in armi nel cortile della caserma del 94° fanteria in Fano, in procinto d’andare a raggiungere i corpi mobilitati in zona di guerra, si rifiutavano, insieme con altri militari rimasti sconosciuti, di partire, gridavano ad alta voce «abbasso la guerra, vogliamo la pace, non vogliamo partire» ed insistevano in tale rifiuto, malgrado gli ufficiali presenti avessero ordinato più volte di fare silenzio”. Il primo, Cabiati, era accusato anche di rifiuto di obbedienza, “perché giunto il drappello alla stazione ferroviaria avendo gli ufficiali presenti ordinato a tutti di fare silenzio, gridava ancora una volta «abbasso la guerra, vogliamo la pace» ed a richiesta del capitano Coppolino Francesco rispondeva dando false generalità”. Gli altri due, Cicognani e Casadei, anche di insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale, “perché nelle medesime circostanze di cui sopra il Cicognani vibrava un colpo di baionetta al maggiore Giannini Ismaele, senza però raggiungerlo, essendo l’altro riuscito a scansarsi. Il Casadei inveiva con il proprio fucile contro l’aspirante ufficiale Vigliardi Carlo per costringerlo a rilasciare il Barbieri, che veniva da lui condotto alla prigione”[1].

Blu - Street art, Campobasso, particolare
Blu – Street art, Campobasso, particolare

 

La guerra era una sventura presentata come sacro dovere. In tanti non si potevano rassegnare al triste destino di mettere in gioco le proprie vite per la grandezza di qualcosa che quelli con i gradi sulla divisa chiamavano “Patria”. I nostri tre erano infatti in buona compagnia, a giudicare dalle 870 mila denunce depositate nel ’15-’18: 470 mila per diserzione (di cui 370 mila riguardavano italiani già emigrati all’estero) e 400 mila per reati commessi “sotto le armi”.

Le forme del rifiuto potevano essere diverse, sia a carattere di insubordinazione individuale che di rivolta collettiva. A partire dalla renitenza alla leva, una pratica ben conosciuta, soprattutto nel mondo contadino, fin dai tempi del dominio napoleonico che aveva introdotto la coscrizione obbligatoria, ma di non facile attuazione perché la fuga all’estero con lo scoppio della guerra era di fatto impraticabile e nemmeno era semplice darsi alla macchia per lunghi periodi. Le Marche presentano un quadro a due tinte, con le province settentrionali che registrano un tasso di renitenza tra il 5 e l’11% e quelle meridionali tra l’11 e il 17%. Una volta arruolati c’era invece la possibilità di disertare, con o senza “passaggio al nemico”. Anche questa era una scelta difficile, non solo perché se riacciuffati c’era il plotone d’esecuzione, ma anche per le ritorsioni economiche e sociali nei confronti della famiglia. In realtà, a ben guardare, nella maggior parte dei casi non si trattava di gesti di aperto rifiuto della guerra, ma di episodi di breve durata che si concludevano con il rientro spontaneo nei ranghi, dettati dal desiderio di soccorrere la famiglia nel lavoro dei campi, dalla protesta per una licenza negata o, se concessa, dalla volontà di trattenersi qualche giorno in più con i propri cari. Un’ulteriore via di fuga era l’autolesionismo, cioè la pratica di infliggersi mutilazioni, che per sottrarsi ai sospetti dei maledetti medici militari, più attenti a smascherare quei poveri disgraziati che a curare i feriti, veniva messa in atto in maniera sempre più estrema e dalle gravissime conseguenze. Infine, si aveva l’estremo rifugio della vera o simulata “pazzia”: la guerra è piena di soldai sbroccati, ammutoliti, allucinati, smemorati.

Oltre agli atti individuali, non mancavano i gesti di rivolta collettiva, giudicati un fenomeno contagioso e quindi estremamente pericoloso, da condannare severamente anche qualora si tratti, in fin dei conti, solo di aver gridato insieme il proprio “abbasso la guerra”. Frase terribile nella quale, annotano i giudici in un processo simile a quello fanese, “i peggiori soldati compendiano tutta la loro avversità alla disciplina e all’alto dovere che stanno compiendo”[2]. Secondo il codice penale militare, art. 114, “sono considerati rei di rivolta i militari che, in numero di quattro o più, rifiuteranno, essendo sotto le armi, di obbedire alla prima intimazione dei loro superiori, ovvero prenderanno le armi senza essere autorizzati ed agiranno contro gli ordini dei loro capi. Gli agenti principali saranno puniti con la pena di morte e i loro complici andranno soggetti alla pena della reclusione militare da tre a dieci anni”.

Blu - Street art, Campobasso, particolare
Blu – Street art, Campobasso, particolare

 

La storia di Cabiati, Cicognani e Casadei ha inizio la sera del 21 aprile 1917, ore 19.00 circa, nel cortile della caserma Francesco Palazzi di Fano. Un gruppo di 410 militari schierati in armi stava attendendo le ultime disposizioni per la partenza verso la zona di guerra Vertoiba-Merna, a est di Gorizia, poco sotto l’Isonzo, dove avrebbe partecipato a una delle tante avanzate per la conquista di un fazzoletto di terra. Le loro mostrine sono quelle del 94° reggimento della brigata “Messina”. Come scriverà qualche settimana più tardi il generale Cadorna, tutto fiero, nel «Bollettino di guerra»: “nella zona ad oriente di Gorizia, la Brigata Messina (93° e 94° reggimento), conquistava l’altura di quota 174 a Nord di Tivoli, poderosamente rafforzata e accanitamente difesa dal nemico, ributtandone poi gli insistenti controattacchi”[3].

Sulla ricostruzione dei fatti avvenuti alla caserma e alla stazione ferroviaria di Fano prendiamo per buona l’unica fonte disponibile, cioè la sentenza del tribunale militare il cui dispositivo abbiamo già citato, D’altra parte immaginiamo che i giudici non abbiano perso troppo tempo a raccogliere incartamenti o ascoltare testimoni, né che i difensori, militari anch’essi, abbiano fatto altro rispetto a quanto facevano abitualmente in questi casi: rimettersi alla clemenza della corte. I giudici non hanno ombra di dubbio che quella sera si sia consumata una vera e propria rivolta, una rivolta perfetta: “infatti 410 militari protestarono con clamorose grida di non voler partire urlando ed imprecando cose insensate e indegne. Erano tutti sotto le armi. Non obbedirono alla intimazione di smettere, di star calmi. Elementi questi tutti chiari, incontrovertibili, integratori del gravissimo reato. E di più v’era stato anche il concerto. Prova non dubbia, il sentore avutone dalla P.S., che, contro il solito in occasione di partenze, aveva offerto i suoi servigi al comandante del deposito. Prova, ancora, la presenza di donne e bambini venuti a dare un addio ai partenti; presenza che avrà certo costituito la determinante occasionale. Rivolta pertanto perfetta in tutti i suoi estremi”.

Da queste righe emergono due elementi particolarmente interessanti. Il sentore di una certa premeditazione della protesta da parte dei soldati e la presenza di civili radunatisi per un saluto ai partenti. Donne e bambini di certo non erano andati a sventolare bandierine tricolori né a intonare inni patriottici. Nel 1917 l’insofferenza popolare nei confronti della guerra, non contenuta dalla rassegnazione, si andava traducendo in sempre più frequenti episodi di ribellione. Le manifestazioni di protesta sociale si estendevano di pari passo al crescente logoramento provocato da una guerra di cui non si vedeva la fine, originando una serie di agitazioni, tumulti ed episodi di lotta culminati nell’insurrezione di popolo, scaturita dalla mancanza di pane e farina, che sconvolse Torino nell’agosto 1917. Alle difficoltà oggettive delle condizioni di vita e di lavoro si sommava la netta sensazione di stare subendo un’ingiustizia, visto che chi sopportava i disagi e pagava i costi umani della guerra “patriottica” erano, come sempre ed esclusivamente, le classi popolari.

Caserma Francesco Palazzi, Fano, 1912
Caserma Francesco Palazzi, Fano, 1912

 

Anche nelle Marche si segnalano in quell’anno numerosi episodi di ribellione. Non nella forma dei classici scioperi a guida sindacale, ma come agitazioni spontanee che spesso hanno per protagoniste le donne. Il saluto ai contingenti di richiamati nel giorno della partenza verso il fronte era una delle occasioni per scendere in piazza, così come il pubblico rifiuto, come gesto di protesta antibellica, del sussidio economico spettante alle famiglie dei mobilitati; episodi di questo genere si verificano nell’urbinate e nell’anconetano, a S. Agata Feltria, Urbania, Ostra e a Montecarotto dove sono ben quattrocento le donne che rifiutano il vile denaro ribadendo il proprio unico desiderio: il ritorno a casa dei congiunti. Circa cinquecento filandaie unite a cento contadine manifestano a maggio a Osimo e ancora decine di donne si danno appuntamento a luglio a Sassocorvaro per reclamare la pace e il ritorno di mariti, figli e fratelli; sempre a luglio le setaiole di Jesi si scontrano al mercato con i commercianti “speculatori”; qualche mese più tardi a Cerreto d’Esi centocinquanta donne e ragazzi tentano di impedire la partenza di un camion carico di grano requisito ai contadini[4].

Notizie di tutto ciò, comprese quella sulla rivolta fanese, difficilmente sfiorano le colonne dei giornali locali, impegnate a cercare di sollevare il morale patriottico del fronte interno. A leggere le cronache, sui campi di battaglia le cose sembrano andare per il meglio e in città la raccolta dell’oro per la patria procede a gonfie vele: “si nota con compiacenza – scrive senza ritegno alcuno il quotidiano marchigiano «L’Ordine» – che nelle offerte hanno larghissima parte le classi meno agiate, le quali si privano senza rimpianto di oggetti cari”[5]. Mentre in Austria e Germania la gente starebbe morendo d’inedia – si legge ancora sui giornali locali – da noi il Commissario generale dei consumi emana il divieto di vendita e somministrazione delle fave fresche, così da accumulare come brave formiche scorte di prodotto secco, e sarebbe tutto perfetto se quei furbastri dei contadini, da colpire con fermezza, non sbocconcellassero impunemente la fava fresca nel campo.

Tornando ai fatti dei nostri eroi, l’11 settembre 1917 Calbiati, Cicognani e Casadei compaiono in tribunale. Dopo la breve ricostruzione dei fatti arriva la conclusione lapalissiana: se tutti tumultuavano, “essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”, questi tre non possono escludersi dai tutti. Con un altro ragionamento giuridicamente alquanto bizzarro la corte riconosce negli imputati i principali istigatori della rivolta: se il Cabiati protestava e gridava una volta giunto alla stazione, vuol dire che il suo spirito era sovraeccitato e quindi “non può esserci dubbio” che anche precedentemente, nel cortile della caserma, fosse uno dei più esagitati. Discorso simile per gli altri due.

La condanna è alla pena di morte, ma grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche si traduce in ventidue anni di carcere per Enrico Calbiati, venti per Sante Cicognani e venticinque per Giovanni Casadei. Andò loro bene, in due sensi. Da una parte, una pena inferiore ai sette anni sarebbe stata sospesa sino alla cessazione della guerra e pertanto si sarebbero ritrovati comunque al fronte; dall’altra, la pena di morte non era un’ipotesi così infondata, visto che i tribunali militari ne emisero in quegli anni oltre 4 mila (senza contare le fucilazioni sommarie al fronte e le pallottole nella schiena ricevute da chi non voleva saperne dell’Avanti Savoia!).

A guerra finita, con i regi decreti di amnistia e condono del settembre 1919 i tre ex-soldati saranno amnistiati per il rifiuto d’obbedienza e l’insubordinazione, mentre per il reato di rivolta la loro pena sarà ridotta della metà e commutata in condizionale. Lieto fine: escono dal carcere e tornano alle loro case.

Théophile-Alexandre Steinle - Les deux amis, 1917
Théophile-Alexandre Steinle – Les deux amis, 1917

 

Bibliografia
Memorie storiche del 94. Fanteria, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, 1922.
Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926.
Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 [la sentenza della rivolta di Fano, con titolo Molla, molla…, a p. 162-165].
94° Reggimento fanteria, “impetuosa messanensis legio”, 1884-1945, [a cura del Comitato ex combattenti 94° Rgt. Ftr.], Fano, 1970.
Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999.
Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001.
Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008.
Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee: dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale, 1911-1918, Pisa, BFS, 2014.

Eugenio Colmo (Golia) - Chi s'alza perde il posto, 1915-1918 ca.
Eugenio Colmo (Golia) – Chi s’alza perde il posto, 1915-1918 ca.

 

[1] Archivio centrale dello Stato (ACS), Tribunale supremo, Tribunali di guerra e territoriali, b. 138, f. 246/II, sent. 521
[2] Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, p. 69.
[3] Brigata Messina in Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926, p. 217-240. <http://www.cimeetrincee.it/messina.pdf>. Il «Bollettino di guerra» citato è del 16 maggio 1917.
[4] Su questi episodi si veda Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008, p. 74-78.
[5] La raccolta dell’oro, «L’Ordine», 21 aprile 1917.

 

La nave Hedia. Storia di marinai fanesi e di una carretta a vapore tra insorti algerini, servizi segreti, siluri e depistaggi (#9)

La nave Hedia.
Storia di marinai fanesi e di una carretta a vapore tra insorti algerini,
servizi segreti, siluri e depistaggi

Di Bicio

C’è un giallo del mare ancora irrisolto a distanza di oltre cinquant’anni. È la storia poco nota del mercantile Hedia, misteriosamente scomparso senza lascia­re tracce nel 1962, da qualche parte nel Mediterraneo, con i suoi venti uomini di equipaggio. Colpa di una burrasca, si affrettano a dire le autorità. Pare che la Hedia non trasportasse merci qualunque, ma un carico che scotta. Un carico di armi diretto probabilmente al Fronte di liberazione algerino per gli ultimi fuochi della guerra d’indipendenza contro il colonialismo francese. Sullo sfondo l’Eni di Mattei e le sue mire sul petrolio algerino. È verosimile che la Hedia sia stata intercettata e silurata – o sequestrata? – dalla flotta d’oltralpe. Per errore o a ragion veduta? Quel che è certo è la sequenza di depistaggi, false notizie e insabbiamenti che ne sono seguiti. E le parole di Fanfani, allora primo mi­nistro, non fecero che aumentare i sospetti: “per venti persone non si può fare la guerra a un alleato”. Su questo “cold case” pubblichiamo alcuni estratti dal recente libro di Fabrizio Fabbroni, “La leggenda della nave generosa” (Fano, Aras, 2017), ricordando che l’autore si sta adoperando per l’affissione di una lapide in ricordo dei venti marinai (cobelligeranti algerini?) scomparsi insieme alla loro nave.

La nave Hedia - Illustrazione di Samuele Canestrari
La nave Hedia – Illustrazione di Samuele Canestrari

 

La mattina del 14 marzo 1962 il piroscafo Hedia scomparve mentre si accingeva ad attraversare il canale di Sicilia. La nave sparì senza lasciare traccia, non furono trovati né corpi né chiazze di nafta, né relitti galleg­gianti, anche se, una settimana dopo il naufragio, alcuni pescatori lampe­dusani recuperarono, attorno alla loro isola, due salvagenti probabilmente appartenuti alla nave.

La Hedia era partita qualche giorno prima da Casablanca (Marocco) dove aveva caricato concime che avrebbe dovuto sbarcare a Venezia. Sette mesi dopo la scomparsa, alcuni quotidiani ipotizzarono che la nave fosse sta­ta silurata. Secondo la ricostruzione dei giornali, il piroscafo, uscito fuori rotta a causa di una burrasca, sarebbe stato scambiato dalla Marina mili­tare francese per uno dei bastimenti fantasma che rifornivano di armi la resistenza algerina impegnata nella guerra di liberazione contro i francesi.

La Hedia era di proprietà di una società anonima panamense ma dal mese di ottobre del 1961, quando ancora si chiamava Generous, l’ex comandan­te Nello Patella di Venezia ne comprò alcune quote, diventandone agente marittimo. La Generous era la classica carretta dei mari, varata nel lontano 1915. Il piroscafo era dotato di un motore a vapore a tripla espansione alimentato a carbone, costruito a Sunderland in Inghilterra. Nonostante l’età della carretta, l’armatore Patella riuscì a noleggiarla all’Eni che la spe­dì in giro per il Mediterraneo a distribuire concimi e diserbanti prodotti dall’Anic di Ravenna.

In verità la Generous, prima di trasformarsi in Hedia e sparire in fondo al mare, fece scalo in località alquanto “equivoche” come il porto di Fiume da cui partivano le armi per l’Algeria, o Benisaf (Algeria), il luogo dove ve­nivano sbarcate le armi destinate all’Oas (Organisation de l’armée secrète, organizzazione paramilitare clandestina francese) o, infine, Sant’Antioco in Sardegna, approdo usato dal Sifar per i suoi traffici di armi prelevate dai depositi Nato del poligono di Capo Teulada.

Nel suo ultimo viaggio da Generous la nave era entrata a Tangeri, “la cit­tà dove nessuno è ciò che appare”. Il porto era il meno controllato del Marocco, anche perché fino a pochi anni prima la città era autonoma e neutrale, un porto franco noto per i suoi traffici illegali e per il numero di spie, disertori e avventurieri. Probabilmente fu in quell’occasione che la Generous fu “attenzionata” dall’efficiente Servizio informazioni francese, grazie anche alla complicità delle autorità marocchine che ufficialmente sostenevano il Fronte di liberazione algerino nella lotta per l’indipendenza, ma ufficiosamente collaboravano con i servizi francesi. Visto che non ci si poteva fidare dei doppiogiochisti marocchini e che la situazione in Algeria stava evolvendo velocemente, l’Eni che sosteneva la guerra di liberazione degli algerini fornendo armi e denaro decise il camuffamen­to della nave.

Ai primi di febbraio del 1962 la Generous fu tirata in secco per effettuare lavori di manu­tenzione straordinaria. La na­ve subì così tante modifiche da renderla irriconoscibile. Fu modificato il taglia-mare di prora e lo specchio di pop­pa, furono rialzate le murate, fu costruita una nuova plan­cia, così come furono sostitu­ite alcune parti obsolete del motore. Infine, fu aggiunta una turbina. Anche il nome della nave fu modificato, la vecchia Generous lasciò il mare alla moderna Hedia.

La ristrutturazione: da Generous a Hedia
La ristrutturazione: da Generous a Hedia

 

Ultimati i lavori la nave riprese immediatamente il mare. Il costo di questo camouflage fu molto oneroso e dato che la Hedia avrebbe dovuto navigare ancora pochi mesi (secondo “radio porto” un anno circa), tutta questa operazione dal punto di vista prettamente economico rimane un mistero. Oltre all’incongruenza della ristrutturazione, anche la formazione dell’e­quipaggio avvalora l’ipotesi del “trasporto speciale urgente”. A bordo vi erano due comandanti che, per una carretta del genere, adibita a movi­mentare concime, era un lusso davvero eccessivo. Il comandante Federico Agostinelli di Fano, padrone marittimo di prima classe, e il primo ufficiale Colombo Furlani, anche lui padrone marittimo fanese che, assieme al ca­po macchina Otello Leonardi, anche lui di Fano, governavano il piroscafo sopra e sotto coperta.

Altrettanto strana era la presenza a bordo del gallese Anton Narusberg di Cardiff, professione macchinista navale. L’arruolamento del gallese era davvero inspiegabile. In fondo la nave era piccola, superava a malapena i novanta metri. A bordo vi erano già due capi macchina, due fuochisti e un ingrassatore, personale più che sufficiente per la manutenzione di uno dei motori più noti e usati dalle marinerie di tutto il mondo. Oltre a ciò, se l’armatore cercava macchinisti, meccanici o ingrassatori, in Adriatico ne avrebbe trovati a decine. Perché quindi imbarcarne uno fatto venire appositamente dal Galles? Probabilmente il gallese era un tecnico della North East Marine incaricato del collaudo, imbarcato in tutta fretta perché la nave doveva partire al più presto per la sua ultima missione da cui non avrebbe più fatto ritorno.

La Hedia partì da Ravenna velocemente e l’unica spiegazione per tanta urgenza è quella che conferma l’appartenenza del piroscafo alla flotta delle navi gun runners che trasportavano armi in Marocco e Tunisia. Da lì erano prese in consegna dagli uomini del Fronte di liberazione nazionale (Fln) che avrebbero provveduto a infiltrarle in Algeria.

Per contrastare quel traffico i francesi avevano costruito un efficace sistema difensivo. Davanti alla costa algerina erano schierate le unità d’intervento rapido che operavano in un tratto di mare di circa cento miglia. Il resto della flotta era in caccia per tutto il Mediterraneo fermando o affondando le navi sospette segnalate dal Servizio segreto francese.

Il 15 febbraio del 1962 la Hedia salpava quindi da Ravenna, destinazione Tarragona, Spagna. Da lì proseguiva per Burriana, un porto poco distan­te. Probabilmente l’8 marzo riparava nuovamente a Tangeri, ufficialmente per il maltempo, anche se le condizioni meteomarine di quei giorni, fuori dallo stretto di Gibilterra, non sembravano proibitive. La nave era stata completamente ristrutturata e problemi seri, fino a quel momento della navigazione, non ne aveva avuti.

Poi, negli stessi giorni in cui la Hedia, partita da Casablanca, attraversava Gibilterra per tornare a Venezia (12 marzo), dalla Corsica salpa l’intera flotta francese di stanza nel Mediterraneo; la missione ufficiale era quella di effettuare delle manovre tra le Baleari e la Corsica. La squadra navale francese navigava a una velocità di crociera di circa venti nodi e avrebbe dovuto intercettare la Hedia più o meno tra il mare di Alboràn e le Baleari, sopra una delle fosse marine più profonde del Mediterraneo, già piena di cadaveri algerini. Anche i comandanti della Hedia, avvertiti via radio dagli uomini dell’Eni, sapevano che la flotta francese stava navigando per intercettarli; «Crucai da Maester!» (Gabbiani da Maestrale!) gracchiava da qualche ora la radio a onde corte. L’equipaggio italiano sapeva come i fran­cesi trattavano i loro “clienti”: non erano poche le navi colate a picco senza tanti complimenti. Così come erano parecchie quelle sequestrate e scortate nei porti algerini, dove gli equipaggi venivano sistematicamente torturati.

La Stampa, titoli 1962
La Stampa, titoli 1962

 

Dietro ai francesi, che stavano arrivando a prora, rinforzava il vento. La perturbazione che si stava formando proprio in quelle ore sopra le Baleari avrebbe attraversato velocemente l’orizzonte da tramontana a scirocco in una sorta di tempesta perfetta. Che fare? Questo si saranno chiesti gli uo­mini in plancia della Hedia. Avrebbero potuto affrontare tutte le tempeste del mondo ma dovevano evitare l’incontro ravvicinato con i francesi. La decisione da prendere era difficile; il tempo stringeva: tornare a Tangeri? Impossibile per due motivi: il primo perché la manovra avrebbe conferma­to il trasporto “speciale”, il secondo perché il porto non avrebbe protetto la nave dall’assalto degli incursori francesi. Qualche anno prima il piroscafo Emma, che aveva tentato la stessa manovra, era stato fatto esplodere in banchina. Altre navi alla fonda (Alessandria, Amburgo) furono fatte saltare in aria grazie a mine magnetiche piazzate sotto la chiglia dai barbouze fran­cesi in tuta subacquea.

L’unica possibilità che rimaneva a quelli della Hedia era di attraversare ve­locemente il mare di Alboràn, sparire sotto la costa spagnola confondendo­si con il traffico marittimo locale, risalire sottovento le Baleari anticipando la burrasca, attraversare quindi il Mar di Sardegna ripercorrendo al contra­rio la rotta dell’andata. Cosa vogliono fare gli italiani però, lo intuiscono anche i francesi che tentano di prendere la nave prima che possa sparire dentro qualche insenatura spagnola.

La squadra navale francese ha fretta, in Algeria c’è l’ultimo putsch che li aspetta. Il suo comandante vorrebbe al più presto stabilire il contatto visivo con la preda, le previsioni meteo delle ore successive confermano il peggio­ramento. André Jubelin, il vice ammiraglio che comanda la squadra fran­cese, ha ricevuto l’ordine di affondare la Hedia e soprattutto di non lasciare scomodi testimoni vivi. Nessuno del Ministero della guerra francese vuole impadronirsi della nave, magari per rivelare all’opinione pubblica che l’E­ni fornisce armi agli insorti. Anche perché il Servizio segreto francese da oltre un anno è in possesso della copia del documento firmato da Mattei e Ferhat Abbas, presidente del governo provvisorio algerino in esilio, in cui il presidente dell’Eni promette armi agli insorti, in cambio di contratti per la ricerca petrolifera, ma soprattutto perché a poche ore dalla fine delle ostilità, il tempo della denuncia all’opinione pubblica era scaduto.

Ormai la guerra ha i giorni contati, tra qualche ora scatterà il cessate il fuo­co. In sette anni di conflitto, un milione di algerini sono stati uccisi dall’e­sercito occupante. Un altro milione deportato verso la costa. Secondo i corrispondenti di guerra, nemmeno le atrocità delle SS tedesche commesse durante la seconda guerra mondiale sono paragonabili alla ferocia francese. Ora però, dopo quasi otto anni di violenze indescrivibili, per l’Oas e i suoi sostenitori (militari golpisti e Servizio segreto deviato) l’Algeria è ormai perduta. Il Presidente de Gaulle, a cui avevano consegnato l’Algeria e la Francia con il colpo di Stato del maggio 1958 aveva voltato loro le spalle. L’ultimo “Putsch dei generali” dell’aprile dell’anno precedente (1961), che avrebbe dovuto cambiare non solo il destino dell’Algeria ma anche quello della Francia continentale con reparti di paracadutisti che avrebbero mar­ciato su Parigi e altri che sarebbero stati lanciati sull’Eliseo per arrestare de Gaulle, si era rivelato un disastro. Nessun effetto valanga tra i militari in Francia, in mano ai golpisti era rimasta soltanto la città di Algeri.

Manifesto Parti socialiste unifié, fine 1960, originale in Biblioteca BDIC Nanterre
Manifesto Parti socialiste unifié, fine 1960, originale in Biblioteca BDIC Nanterre

 

A questo punto Jubelin deve scegliere tra un colpo di stato dall’esito assai incerto o dare la caccia alla nave fantasma attendendo in mare il volgere degli eventi. Il vice ammiraglio, eroe di tante battaglie, lancia l’intera squa­dra francese composta dall’incrociatore Colbert, dalla portaerei La Fayette, dalle navi di scorta Surcouf, Duperré, Maillé, Brezé, dalla nave appoggio sommergibili Gustave Zedé, dalle navi di scorta rapide Vendéen, Bourgui­gnon, Normand e Béarnais e dal sottomarino Artemis contro… la carretta a vapore fanese! Carretta sì, ma già leggenda, perché la Hedia quando ancora si chiamava Milly e poi dopo da Generous, aveva per ben due volte sbarcato “materiale bellico” facendosi beffe dei francesi e dei loro sottomarini.

La nave viene affondata in quell’arco di tempo che va dalla sera del 13 al pomeriggio del 14 marzo 1962. Contemporaneamente ad Algeri l’ultimo putsch dei pieds-noirs era già fallito da qualche ora. Il Servizio segreto ita­liano (Sifar) era legato a filo doppio con i fascisti dell’Oas e per questo mo­tivo ha avuto un ruolo importante sia per quanto riguarda l’identificazione della Hedia, passando la foto della nave ristrutturata ai colleghi francesi, sia per quanto riguarda i vari depistaggi.

Il 19 marzo 1962 due pescherecci ritrovarono a poche miglia dall’isola di Lampedusa i salvagenti della Hedia. Considerando che quella zona di mare è protetta dal maestrale dal promontorio tunisino i salvagenti avrebbero navigato per circa duecento miglia evitando prima Pantelleria, poi Linosa per centrare la spiaggia di Lampedusa. Quel fortunato ritrovamento servì da ulteriore e definitiva conferma della versione ufficiale e cioè che l’affon­damento della Hedia era avvenuto in seguito alla burrasca mentre la nave stava attraversando il canale di Sicilia.

Qualche giorno dopo l’affondamento, furono addirittura trasmessi nell’e­tere messaggi radio che sembravano confermare la presenza della nave nel canale di Sicilia, altri che asserivano di averla vista risalire lentamente l’A­driatico a causa di un’avaria. Razzi di segnalazione saranno avvistati un po’ ovunque. La per­la dell’operazione di depistaggio fu però quella di riuscire a convincere i fami­liari dell’equipaggio che i loro cari, dopo sei mesi dall’affon­damento della nave, erano ancora vivi. In settembre alcuni ma­rinai della Hedia fu­rono infatti apparen­temente riconosciuti in una foto scattata nel cortile del conso­lato francese di Algeri e pubblicata da «Il Gazzettino» di Venezia. La foto riguardava un gruppo di prigionieri europei liberati dal Fln.

L'improbabile riconoscimento di marinai della Hedia in una foto di alcuni prigionieri liberati dal FLN, set. 1962
L’improbabile riconoscimento di marinai della Hedia in una foto di alcuni prigionieri liberati dal FLN, set. 1962

 

Al di là dei vari depistaggi, cerchiamo di “fare il punto” partendo da quelle che sono le poche certezze. La prima riguarda la nave, i lavori effettuati a Ravenna che la resero irriconoscibile, l’improbabile arruolamento del macchinista gallese, i due comandanti che la governavano, il cambiamento del nome, gli equivoci porti di carico e scarico e infine le misteriose “casse” sbarcate a Tangeri. La seconda certezza riguarda la presunta rotta. Nessu­na nave avrebbe navigato a una distanza di sicurezza inferiore alle ottanta miglia dalla costa algerina. La “regola” consigliava di navigare attorno al 39° parallelo Nord (precauzione messa in atto da tutte le marine mercan­tili che operavano nel Mediterraneo in quel periodo). La terza certezza riguarda il mare che si stava guastando, a prora erano segnalati i francesi in avvicinamento veloce, mentre a dritta la nave aveva la terraferma algerina. Per queste ragioni la Hedia fu costretta a risalire almeno fino a Capo Palos (Spagna). Lasciata la costa, la nave si sarà spinta ancora più su verso le Baleari rimanendo sottovento le isole, lavorando l’onda al mascone. Una volta a ridosso di quelle isole, la Hedia avrà probabilmente accostato per scendere in scaduta verso la Sicilia con la perturbazione alle spalle, l’onda frangente al giardinetto, cercando di evitare i francesi che manovravano per prenderla proprio in quella zona.

Passarono sette mesi dalla scomparsa della nave quando il 27 ottobre 1962 l’aereo Morane-Saulnier, con cui Mattei stava tornando a Milano, preci­pitò nelle campagne di Bascapè (Pavia). Secondo il giudice Vincenzo Ca­lia l’aereo esplose in volo a causa di una bomba collegata al comando di discesa del carrello probabilmente confezionata dai bombaroli del Dgse, raffinati specialisti in attentati con l’esplosivo, e materialmente collocata a bordo dai picciotti di una potente famiglia mafiosa di Catania. I dollari per affrontare i costi dell’operazione uscirono probabilmente dalle tasche dei petrolieri americani, mentre la regia, senza dubbio alcuno, fu della Cia, e le “marionette” in campo furono gli uomini del Sifar.

Dopo 55 anni di depistaggi è ormai evidente che la prigione che custodisce i resti dei marinai della Hedia si trova in fondo al mare da qualche parte tra Casablanca e Venezia. L’ultima operazione navale del conflitto algerino della Marine national, la prestigiosa flotta francese che nel secolo preceden­te affrontava in battaglia le navi di sua maestà britannica, fu quella di attac­care un “piccolo naviglio”, una vecchia carretta, adatta forse a trasportare ghiaia da Valona a Brindisi o poco più.

«Per venti persone non si può fare la guerra a un alleato» dichiarò il Primo ministro Fanfani ai familiari dei dispersi. La “ragione di Stato” è il vero motivo per cui la Hedia, con il suo equipaggio e tutti i suoi segreti è ri­masta sepolta in fondo al mare per tutti questi anni, mentre sulla vicenda calava l’oblio. È venuto il tempo far risalire quei marinai in superficie e riconoscere loro almeno lo stesso ruolo che gli attribuirono i francesi il giorno in cui li condannarono a morte, vale a dire quello di “cobelligeran­ti” caduti per la libertà di un popolo che neppure conoscevano. E ricordarli prendendo a prestito le parole di un vecchio professore che scrisse: «ci sono tre tipi di uomini, i vivi, i morti e quelli che vanno per mare di cui non si ricorda nessuno». Né vivi né morti, ancora ai posti di manovra, sulla car­retta a vapore a sfidare il francese di turno.

Porto di Chioggia - Monumento ai dispersi chioggiotti della Hedia
Porto di Chioggia – Monumento ai dispersi chioggiotti della Hedia