Ho aperto gli occhi e ho visto Kobane nel sole (#0)

Ho aperto gli occhi e ho visto Kobane nel sole
Di Anonimo compagno catapultato in Kurdistan

 Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca

Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

Da settembre 2014, quando le immagini delle guerrigliere con il kalashnikov hanno bucato gli schermi tutto il mondo ha scoperto che esisteva Kobane, che i Curdi continuavano ad essere un popolo oppresso e che le loro organizzazioni politiche e militari erano una anomalia non cancellabile dalla storia del Medio Oriente. Dopo tre anni dall’inizio della guerra civile in Siria, la maggior parte dei cittadini occidentali hanno scoperto che in quella tragedia esisteva anche un progetto politico capace di resistere al fondamentalismo e di costruire percorsi politici per superare il capitalismo e l’autoritarismo patriarcale. Molti percorsi di solidarietà con le lotte delle organizzazioni indipendentiste curde presenti in Italia sono di lunga durata, risalgono almeno agli anni ’90, alla stagione di Dino Frisullo e di Ocalan in Italia mentre alcune si radicano in una persistente solidarietà tra organizzazioni marxiste ed internazionaliste ed altre a sentimenti umanitari e universalistici o a progetti di cooperazione. In quest’ultimo anno è nato anche qualcosa di nuovo, sulla spinta della novità della proposta politica e sociale che viene raccontata dal Rojava (Kurdistan siriano) e dal Kurdistan del Nord in territorio turco. Autogestione, partecipazione orizzontale, parità e liberazione per il genere femminile, socialismo ed ecologia: sono concetti e pratiche che hanno conquistato l’attenzione ed il cuore di una larga parte di compagni e compagne di centri sociali autogestiti, collettivi universitari ma anche di associazioni e persone della strada. Nelle Marche negli ultimi due anni l’attenzione per quello che succede in Turchia e Medio Oriente è cresciuta di pari passo con una partecipazione diffusa sui territori, con molte iniziative di informazione, raccolta di fondi ed anche di protesta. Prendere parola sui conflitti scoppiati dopo la stagione delle cosiddette “primavere arabe” non è stato facile, rompere la tenaglia che immobilizza la gente comune tra il fascismo islamista ed il militarismo occidentale richiede di mettersi in viaggio, di usare l’intelligenza ed anche il cuore. Dall’occupazione del Consolato turco di Ancona in occasione della rivolta di Gezi Park nel 2013 fino alla Carovana per il Newroz 2015, sono state decine le iniziative pubbliche che hanno visto una partecipazione crescente ed un rinnovato interesse per le diverse campagne di solidarietà internazionale. La grande visibilità offerta alla storia di Karim, militante del centro sociale Arvultura di Senigallia che ha combattuto con lo YPG in Rojava ha contribuito a rendere visibile un tessuto di relazioni concrete impegnate a sostegno di una lotta di liberazione sociale. Fare una lista di tutte le iniziative sarebbe impossibile, ma vorremmo tornare anche in altre occasioni ad approfondire il tema delle ragioni e delle forme dell’internazionalismo di oggi raccontando altre storie dalle nostre città e paesi. Questa volta pubblichiamo una testimonianza dalla carovana per il Newroz 2015 organizzata da Uiki Onlus Italia a cui hanno partecipato ben cinque persone da diverse esperienze sociali ed associative delle Marche.

 Kobane, aprile 2015, combattente YPJ - Foto di Maria Novella De Luca

Kobane, aprile 2015, combattente YPJ – Foto di Maria Novella De Luca

Non sono un esperto della storia e delle lotte del popolo kurdo, lo dichiaro come premessa, perché una delle ragioni fondamentali del viaggio che ho intrapreso è stata la conoscenza ed il desiderio di condivisione politica e perciò umana.

Certamente sono molti anni che seguo in maniera sporadica le vicende della lotta per l’indipendenza dal popolo kurdo. Nel mio studio pieno di libri e carte ammucchiate a strati tempo fa ho riesumato un volantino della associazione Ya Basta del 1999 “Il cuore d’Europa”. Si racconta dell’assalto alla Turkish Airlines a Roma con l’ariete, dei treni collettivi contro le frontiere, delle manifestazioni per la libertà di Ocalan che sono state le mie prime esperienze politiche fuori dalla sede universitaria di Bologna. Poi tante cose sono cambiate e per anni ho seguito da vicino le lotte rivoluzionarie in Messico, gli Zapatisti, la Comune di Oaxaca, l’Altra Campagna. Le lotte in Medio Oriente erano state per me sempre difficili da decifrare, una esperienza in Tunisia nel 2011 mi aveva aperto gli occhi ma anche sbattuto contro una realtà difficile da attraversare per i tanti ostacoli linguistici e culturali.

Più recentemente attraverso gli articoli dell’ottima rivista Nunatak e grazie alla rete ho conosciuto la nascita dell’esperimento di autogestione ed autonomia locale in senso comunista dei Cantoni Curdi del Rojava, nel nord della Siria. Poi ci sono stati tre elementi che mi hanno convinto a non accontentarmi della simpatia passiva: l’articolo di David Greaber in sostegno alla rivoluzione in Rojava, alcuni articoli che la mettevano in relazione con il Chiapas zapatista e la notizia che il giovane Karim del centro sociale Arvultura di Senigallia, dopo un breve soggiorno nei campi profughi sulla frontiera di Suruc, aveva scelto a gennaio di arruolarsi nelle YPG, le forze armate del PKK in Siria. A novembre in collaborazione con dei compagni anarchici del Piemonte abbiamo contribuito ad organizzare un ciclo di incontri a Rimini, Urbino, Ancona e Chieti che hanno riscosso molto interesse.

Il 17 marzo sono partito senza molta preparazione e con un compagno dell’autonomia diffusa dalla costa Est. Abbiamo aderito alla iniziativa “Carovana per il Newroz 2015” della Rete Kurdistan, promossa da Uiki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. Il numero dei partecipanti è stato il primo dato notevole, 136 persone da tantissime province e città. Dalle Marche la gradevole sorpresa di altri quattro compagni, dai centri sociali e dal tessuto associativo e sociale che ancora esiste anche nei piccoli centri. Insieme al numero è stata presente una notevole varietà umana e di provenienze geografiche e politiche, che ha fatto sicuramente la ricchezza della delegazione ma ha portato anche a qualche limite organizzativo e di coesione del gruppo come spesso accade in questo tipo di iniziative.

Poiché volevamo raggiungere almeno Kobane per avere un contatto diretto con i compagni e le compagne del Rojava, il compagno ed io ci siamo iscritti nel gruppo di osservatori che è stato basato a Sanliurfa nel sud-est della Turchia a poche decine di km dal confine. Abbiamo scoperto una città molto grande con più di un milione e mezzo di abitanti, ricca di storia stratificata nel suo centro e densamente costruita nei sobborghi pieni di palazzoni, negozi e viali frutto del boom immobiliare. Nel corso delle giornate l’itinerario organizzato ci ha portato a compiere una serie di viste suddivisi in gruppi di 20 persone che si alternavano nei vari giorni a visitare nell’ordine: i campi profughi Ezidi e la municipalità dell’HDP (Partito democratico del popolo) di Viransehir, 60 km ad Est sulla strada per Diyarbakir, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani IHD di Urfa, i rappresentanti e militanti di base del partito HDP di Urfa, la municipalità della città di Suruc sulla frontiera con la Siria dove sono situati la maggior parte dei campi rimasti sul lato Turco. In questa città abbiamo visitato il centro culturale Amara, alcuni campi profughi autogestiti dal municipio dell’HDP ed il villaggio di Mesher che è stato per mesi in prima linea nella lotta per la liberazione di Kobane e per l’accoglienza dei profughi.

Posto di blocco turco sul confine di Kobane - Foto di Maria Novella De Luca
Posto di blocco turco sul confine di Kobane – Foto di Maria Novella De Luca

 

Ad Urfa e Viransheir abbiamo partecipato alle festività del Newroz. Questo tipo di celebrazione ha l’aspetto di un grande festival di musica, balli, comizi. Si svolge in grandi spazi pubblici e vede la partecipazione di tutte le classi sociali e le età. Intorno un dispiegamento di polizia in numero moderato vigilava, ha perquisito la gente agli ingressi, qualche compagno italiano sporadicamente è stato fermato senza troppa convinzione, è bastato che ci facessimo sotto in gruppo per dissuadere la polizia da ulteriori azioni. Entrambe le feste, come la maggior parte di quelle che si sono svolte in Kurdistan, sono finite senza scontri, per la prima volta in trent’anni. Nell’aria c’è un tentativo di dialogo politico tra il PKK ed il governo, promosso dalla proposta di Ocalan che dal carcere ha invitato a lasciare la lotta armata in Turchia in cambio di una reale riforma costituzionale democratica. Tanto è bastato per calmare gli animi nelle strade, ma solo per qualche giorno. Alla fine di marzo sono ricominciate le operazioni militari contro il PKK in territorio turco e la repressione contro i movimenti ad Istanbul ed Ankara a suon di arresti e feriti.

L’accoglienza a Suruc non è stata delle migliori. Per giorni i nostri accompagnatori curdi avevano provato a dissuaderci dal raggiungere l’obiettivo di entrare a Kobane per non precisati problemi di sicurezza ed organizzativi. In realtà nel corso delle assemblee che siamo riusciti ad organizzare con la delegazione, non erano emerse motivazioni esplicite per rinunciare se non il rischio di essere bloccati dal potere discrezionale delle autorità militari. Così abbiamo spinto, anche contro il parere delle parti più moderate della delegazione, per inoltrare comunque la richiesta alle autorità di frontiera per l’ingresso di tutti e 60 i membri della delegazione. Era infatti importante secondo noi rendere esplicito il sostegno politico all’esperienza del Rojava, il nostro tributo di rispetto e pietà per i morti nella difesa di Kobane, la nostra solidarietà militante. Purtroppo il 21 marzo è iniziato sotto i peggiori auspici. La sera prima è arrivata la notizia della doppia autobomba contro il Newroz curdo di Hasake, nel cantone di Cizire, Rojava orientale. Mentre il conto dei morti continuava a salire la pioggia cadeva fitta. Siamo arrivati comunque con due furgoni con 40 persone sul confine senza nessun accompagnatore locale. La città appariva tristissima sotto il cielo grigio, grigie le tende dei campi profughi, grigi i palazzi sbrecciati e la strada infangata. I militari di guardia al confine hanno dissuaso l’autista anche solo a sostare, fuori la pioggia cadeva battente. Ha rigirato il furgone e siamo stati costretti a tornare indietro, senza troppo rammarico dei più.

Il giorno dopo siamo tornati a Suruc, abbiamo incontrato il sindaco curdo del municipio che scusandosi per il disagio del blocco del giorno prima ci ha spiegato come anche per i curdi e per altre delegazioni il blocco della frontiera sia un problema grave. Per non parlare dei tanti combattenti e profughi morti bloccati sulla frontiera nei mesi precedenti. Mentre l’esercito turco infatti dava riparo e cure negli ospedali delle città di frontiera ai combattenti di Isis, ha lasciato morire decine di combattenti kurdi dissanguati nelle auto e nelle ambulanze. Quella fase oggi sembra finita, ma non è certo arrivata la pace, anzi lo schieramento militare sul confine è imponente ed il nemico sono come sempre i curdi.

Sotto il sole finalmente caldo, siamo tornati sul confine. A poche centinaia di metri dai reticolati, sotto una capanna di terra cruda ci hanno mostrato un piccolo santuario nascosto con decine di foto di caduti del PKK, del YPG e YPJ, tra cui ho riconosciuto anche la foto di Ashley Johnston, australiano, caduto in combattimento nelle scorse settimane.

Ci fermiamo sulla linea di frontiera, senza un motivo apparente.

Una buca mi sveglia dal torpore del viaggio, apro gli occhi e vedo a poche centinaia di metri Kobane, uno scheletro grigio da cui si alzano sul fare della sera dei fuochi di bivacchi. I militari ci spiano dalle torrette con i binocoli. Sui tetti sventrati e le macerie sventolano le bandiere triangolari delle YPG, la stella rossa per ora ha vinto.

Intorno a noi gli animali pascolano sul prato attorno ai reticolati che dividono l’inferno dal resto del mondo, i bambini giocano e si fanno fotografare, ascoltiamo la testimonianza di un uomo visibilmente emozionato. Dietro le finestre delle giovani ragazze ci guardano nascoste.

Kobane vista dal confine turco - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca

 

Dopo la liberazione di Kobane, molti profughi hanno iniziato a fare ritorno anche se ci hanno raccontato come dall’altra parte della frontiera la situazione sia tutt’ora precaria e rischiosa. Tra le delegazioni presenti nella carovana, sicuramente la più rilevante è quella della Mezzaluna Rossa Kurdistan, basata a Livorno. I compagni che ne fanno parte sono curdi legati alle organizzazioni comuniste indipendentiste e compagni autonomi e comunisti della Toscana. Il loro obiettivo immediato è assistere il ritorno dei profughi, la ricostruzione del cantone di Kobane ed il sostegno alle altre necessità urgenti nel Rojava. Mi è sembrato che il loro approccio alla cooperazione “dal basso” dei responsabili sia di buona qualità, cosciente dei limiti ma anche delle potenzialità di una iniziativa indipendente dalle grandi ONG.

L’ultima sera, prima di salutarci hanno lanciato alla delegazione la proposta di promuovere per il 25 aprile delle iniziative in sostegno alla lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione in Kurdistan.

Il bilancio dell’iniziativa è stato comunque positivo, con qualche criticità sulle modalità dell’organizzazione, viziata da una mancanza di organizzazione e di coordinamento politico che avrebbe potuto essere più inclusivo verso chi non aveva nessuna preparazione né conoscenza specifica del contesto e più decisa nel manifestare un sostegno politico da parte di compagni di base al progetto di autonomia democratica del Rojava. Infatti la mancanza di coordinamento e di coesione tra i vari compagni/e autonomi ed anarchici nella carovana ha lasciato tutto il risalto alle poche figure dai tratti istituzionali e sindacali con cui le autorità curde cercano comunque una interlocuzione privilegiata. Se questo è comprensibile per motivi tattici ed anche di affinità politica da parte dei compagni curdi, non giustifica la mancanza di iniziativa e di proposta politica organizzata di quelle componenti che da anni fanno dell’autonomia politica e dell’autogestione una parte fondante della propria identità e pratica. Infine un ultimo appunto: la nostra delegazione sulla frontiera non è stata in grado di comunicare un messaggio significativo. Troppi compagni/e della delegazione si sono comportati come turisti, fotografando tutto prima ancora di presentarsi e di conoscere dove erano arrivati. Poca o nessuna riflessione è stata fatta sulla nostra presenza. Purtroppo la qualità umana del nostro comportamento, il superamento dei pregiudizi eurocentrici e maschilisti è il primo passo da compiere quando ci si relaziona con dei contesti simili, ma pochi lo fanno. Tuttavia come compagni che vogliono essere anche dei rivoluzionari, siamo consapevoli di avere aperto soltanto una piccola porta, su una realtà molto grande e complessa. Spazio e tempo a chi potrà approfondire nell’immediato futuro un terreno di lotta molto importante.

A Kobane si combatte ancora (#1)

A Kobane si combatte ancora
Intervista a Karim Franceschi, volontario da Senigallia con le YPG in Rojava da gennaio a marzo 2015. Raccolta da Vittorio a maggio 2015.

Karim a Senigallia
Karim a Senigallia

 

“Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari. E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa”.
Carlo Rosselli, discorso pronunciato alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936.

Io partirei chiedendoti se questa che tu hai fatto è stata la tua prima esperienza di solidarietà internazionale o come vuoi definirla, e cosa pensi delle altre esperienze che hai visto attorno a te prima di questa, ad esempio il Chiapas o la Palestina.

Io ricordo il mio ingresso nei centri sociali nel movimento dell’Onda e c’erano compagni come Serena che seguivano la questione del Chiapas molto da vicino e ricordo l’entusiasmo con cui lo facevano e le possibilità che questa cooperazione internazionale aveva aperto per il movimento dei centri sociali italiano e per i compagni. Ricordo tutta la questione dell’analisi politica aperta attraverso questi tipi di esperienze ed era stato qualcosa che aveva arricchito moltissimo i centri sociali e ci aveva arricchito tantissimo a noi come militanti dandoci anche una nuova spinta rivoluzionaria. Io ricordo bene questa cosa quando ero arrivato anche se poi la prima volta che ho seguito una questione internazionale l’ho fatto per il Rojava, parliamo di sei anni dopo e sono andato lì. Siamo arrivati nel Rojava molto in ritardo, il Rojava è un esperimento che è andato avanti per tre anni e noi siamo arrivati lì solo quando attraverso Kobane c’era stato il botto mediatico, perché Kobane era stata assalita, perché insomma era una città in gravissima crisi umanitaria. L’ISIS è un’organizzazione che tira tantissimo dal punto di vista mediatico e la situazione che si era creata ci ha fatto aprire gli occhi anche a noi. C’è da dire che il nostro movimento dal punto di vista internazionale ma anche dal punto di vista locale è stato indebolito tantissimo negli anni e dall’altra parte nel Rojava c’è un grandissimo muro linguistico e culturale per cui a noi in Europa, e soprattutto in Italia, ci è arrivato veramente pochissimo: le pubblicazioni, tutta la discussione pubblica, internet, comunicati non c’era quasi niente di tradotto in inglese e praticamente niente in italiano. Siamo andati lì con la mente quasi vuota su quello che stava succedendo laggiù, eravamo molto aperti ed abbiamo iniziato con la città sotto assedio a conoscere il Rojava ad intrecciare rapporti anche umani e politici, a creare rete, a sederci con i loro responsabili a parlare dei problemi, della sperimentazione politica, di cosa è il confederalismo democratico che ancora non capivamo bene proprio per questa mancanza di documentazione tradotta in inglese o in italiano. Fondamentalmente è una cosa ancora nuova, ci stiamo organizzando adesso anche con questa staffetta che usa lo stesso metodo organizzativo utilizzato da Ya Basta per il Chiapas, cioè la carovana. Stiamo organizzando carovane aperte non soltanto ai centri sociali, perché i centri sociali sfortunatamente sono così deboli che con delle carovane autonome fanno veramente poco, e quindi una cosa che stiamo cercando di fare sul modello del Chiapas è di conoscere ed instaurare dei rapporti con queste realtà del Rojava. Questa sperimentazione politica rappresentata dal confederalismo democratico parla fondamentalmente di autonomia, parla di lotta di classe, parla di una minoranza etnica schiacciata da politiche capitaliste e da grandi interessi economici e parla di lotta armata.

Karim tra i combattenti kurdi
Karim tra i combattenti kurdi

 

La differenza che vedo rispetto al Chiapas è che quella esperienza nasceva in uno scenario internazionale completamente diverso. Nella fine degli anni ’90 c’era il movimento contro la globalizzazione capitalista, si stava costruendo una rete internazionale di contatti e di scambi tra attivisti, ancora prima di Seattle che fu nel 1999. Un aspetto forte di quell’esperienza del Chiapas fu quello di creare una nuova rete tra tanti compagni. Questa lotta del Rojava esplode nel mezzo di una lunga guerra civile. Per noi la guerra caratterizza purtroppo il medio-oriente da sempre, da quando ne abbiamo memoria c’è stata sempre una guerra da quelle parti. Andare dentro quel conflitto è diverso da andare in una situazione come quella del Chiapas dove c’era e c’è una guerra a bassa intensità, ma dove potevi anche evitarla se volevi. Se uno invece va in Rojava è impossibile evitare la guerra. Come la vivono i compagni della tua generazione?

Questa è una grande domanda, e sentendola mi ha illuminato dei punti che avevo oscuri. Questa capacità di intrecciare rapporti con gli altri gruppi politici c’è in Rojava, ma per farlo devi entrare in Rojava non lo puoi fare da Suruc, dal confine turco, perché al confine turco ci rimangono i giornalisti, le ONG. I gruppi politici sono dentro il Rojava che combattono ed hanno dei fronti aperti, hanno le loro sedi dentro le basi e sono tutti armati. Per intrecciare rapporti con loro ci devi entrare dentro. Il problema qual è? È che quelli che entrano dentro sono tutti gruppi politici strutturati, hanno un minimo di struttura ed organizzazione perché altrimenti non puoi impegnarti in quel tipo di lotta. Io penso che se la questione Rojava fosse avvenuta nel periodo della questione Chiapas non staremmo facendo questo discorso perché in questo momento c’è un enorme indebolimento dei movimenti rivoluzionari in Europa e soprattutto in Italia e questo porta al fatto che fondamentalmente dall’Italia nessun movimento si è impegnato a mandare militanti a partecipare alla lotta armata ma non ha neppure aperto una discussione su questo fatto qua. Non è tanto grave il fatto di non mandare combattenti o non mandare militanti che comunque possono fare anche altri lavori in queste zone di guerra oltre che combattere, la cosa più grave è che non si è nemmeno aperta una discussione su questa cosa.

Kobane vista dal confine turco - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca

 

Perché secondo te? Ormai che hai aperto tu la questione, una domanda te la faccio. Quando ho saputo della tua storia ho pensato “adesso un sacco di gente partirà dietro Karim” perché io se avessi avuto la possibilità, cioè se non avessi dei figli, penso che sarei partito. E invece ho visto che non c’è stata questa cosa, non voglio dare un giudizio se sia giusta o sbagliata questo tipo di scelta ma mi aspettavo che si sollevasse un dibattito. E che ci fosse una presa di posizione e invece questa cosa non sta avvenendo. Perché?

In realtà non faccio politica, faccio politica ma non mi interessa fare il politico, io dico quello che penso. Anzitutto sono partito in semi-clandestinità, ho avvertito pochi compagni del fatto che sono partito e molti l’hanno saputo sotto forma di shock. C’è una ragione se sono partito come sono partito. Quando con dei noti compagni che hanno responsabilità nel movimento avevo accennato al fatto che sarei poi partito ho ricevuto delle risposte molto chiare: non vogliamo averci niente a che fare. A quel punto mi sono organizzato da solo, mi sono autofinanziato il viaggio e tutto il resto senza coinvolgere assolutamente nessuno all’interno del movimento. Una volta che io ero lì e si è saputo a livello pubblico, la mia presenza ha avuto un impatto mediatico ma non si è aperta nessuna discussione. Il motivo secondo me è che come movimento da troppo tempo ci siamo abituati ad uno stile di vita che non è rivoluzionario ma abitudinario, le nostre pratiche cercano di tutelare uno stile di vita che è quello del compagno dei centri sociali, piuttosto che perseguire l’obiettivo della lotta di classe e della rivoluzione. Questa scelta avrebbe prodotto un distacco netto da quello stile di vita, penso che non ci fossero compagni non tanto nel movimento ma ai vertici del movimento pronti a mettersi a rischio più del solito e quindi a mettere a rischio uno stile di vita. Io penso che se si fosse aperto un tavolo di discussione qualcuno sarebbe venuto laggiù ma il fatto che non si sia aperto ha tolto ogni possibilità che questo avvenisse. Sono stato contattato da tantissima gente sui social che mi chiedeva informazioni su come andare, che voleva andare lì a combattere ma parliamo di centinaia di persone, ovviamente io per ragioni di sicurezza e ragioni legali non ho risposto a nessuno di questi, ho mandato a cagare un po’ tutti, ma nessuno di questi era dei centri sociali.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Per i kurdi che importanza hanno avuto l’adesione diretta, il sostegno diretto alla loro lotta armata in Rojava da parte degli internazionalisti? È qualcosa che a loro interessa perché ha un potere simbolico di mostrare che esiste una solidarietà internazionale fattiva, è una necessità militare o è un modo loro di intendere la solidarietà internazionale? In altri conflitti abbiamo visto come gli internazionali, specialmente i nordamericani e gli europei abbiano giocato un po’ la parte dei cugini ricchi che vanno in giro, finanziano, fanno iniziative di solidarietà ma a cui spesso manca un piano di condivisione materiale forte. In Chiapas c’era un po’ una via di mezzo, noi andavamo al di là del cugino ricco che porta i soldi, partecipavamo in maniera pratica alla vita delle comunità, alla loro autogestione, alla costruzione degli ospedali e delle scuole, al livello di partecipazione pubblica in delle manifestazioni che a volte erano anche dure. La scelta di partecipare nell’EZLN non veniva promossa da loro, ti dicevano: non abbiamo bisogno di guerriglieri europei, abbiamo bisogno di cooperanti, di giornalisti… perché secondo te i kurdi hanno aperto questo canale, avrebbero potuto dire facciamo da soli…

Senza offesa per chi ha partecipato all’EZLN, ma il livello di apertura e di crescita che offre il Rojava chi ha partecipato all’EZLN se l’è solo sognato, perché è tutte queste cose insieme: ha un significato simbolico, ha un significato ideologico, di cooperazione, tutte queste cose messe insieme perché una volta che tu vai lì finché fai parte delle organizzazioni umanitarie che portano aiuti arrivi a un certo livello per loro, sei un grande amico. Quando vai lì ed entri insieme con loro nel campo di battaglia non devi per forza entrare dentro lo YPG[1] perché ci sono gruppi politici che portano dentro Kobane il simbolo della propria organizzazione politica e non sono YPG, sono anche internazionali e si portano il loro simbolo. Per loro è una cosa enorme avere internazionali che combattono con loro perché molti che combattono nello YPG non vengono da organizzazioni politiche. Anche i curdi vengono dalle campagne della Siria e non sono nemmeno politicizzati, per loro vedere un italiano, un americano che combatte con loro gli fa saltare tutto il processo di ideologizzazione in un secondo, non hanno bisogno di sei mesi, un anno per capire perché stanno lì a combattere. Perché sognano tutta la loro vita di andare a vivere in uno di quei paesi e vedere un americano combattere insieme a loro lì, li fa capire immediatamente anche a loro perché sono lì a combattere ed è un enorme apporto per il morale della truppa e sembra una cavolata ma quando tu sei lì capisci che il morale determina il vincitore in un campo di battaglia. Durante una battaglia, durante una guerra il morale determina se la truppa scapperà o resterà a combattere e fondamentalmente è quello a decidere il risultato. Poi per loro ha anche un’importanza per diffondere la loro ideologia, per loro è importante dare degli strumenti anche alle altre organizzazioni politiche e non ne hanno bisogno, non hanno bisogno di questi che sono su tutte le liste terroristiche della Turchia, di questi gruppi comunisti, non hanno bisogno di questa cattiva pubblicità, non hanno bisogno di far venire i loro militanti a costruire fronti, a specializzarsi. Non ne hanno bisogno ma lo fanno ugualmente perché per loro la cosa più importante è la loro anima, l’ideologia del confederalismo democratico è più importante della stessa Rojava in Siria, per loro può saltare la Siria ma non può saltare la loro anima, per mantenerla in vita si sentono obbligati a dare sostegno a tutte quelle altre organizzazioni e gruppi che si autodefiniscono anticapitalisti.

 

Facevamo il paragone con un ciclo precedente di movimento che aveva visto nel Chiapas il centro di formazione umana e politica; oggi invece il Rojava e il conflitto in Siria sono dentro una guerra più sporca, più cattiva. Per chi guarda dall’Occidente la guerra civile siriana appare come un caos in cui è difficile capire come schierarsi. Anche il discorso sulla resistenza in Irak durante l’occupazione americana aveva paralizzato i movimenti perché una volta che non si era riusciti a fermare la guerra con le manifestazioni pacifiste tutto quello che è successo dopo è apparso come un campo di violenza incomprensibile dove noi europei non avevamo niente da dire, niente da dare. In Siria invece è successa una cosa particolare: dei combattenti europei che sono andati con l’ISIS, tu ne hai parlato in qualche intervista. Perché spesso si dice che chi va a combattere con IS è gente che è fallita in Europa?

Queste sono stronzate, chi va a combattere con l’ISIS sono medici, laureati che rinunciano a paghe da 100 mila o 200 mila dollari all’anno per andare lì, persone che si laureano con i massimi dei voti negli Stati Uniti o in Europa e vanno lì. È ridicolo dire che sono persone che hanno fallito in Occidente, una gran parte sicuramente sono spinti dall’ostracizzazione, dalle politiche anti-islamiche che l’ISIS adora, perché la maggior parte dei musulmani sia laggiù che qua sono moderati, una piccolissima parte è quella radicale. La loro strategia è fare sì che i moderati vengano cacciati dalle comunità e società europee ed occidentali in modo tale che trovandosi isolati debbano guardarsi fra loro e andare a radicalizzarsi ed aumentare il loro bacino di militanti. L’ISIS si è presentato come l’unica realtà, prima del Rojava, che per generazioni abbia combattuto l’imperialismo ed il capitalismo. Come movimenti abbiamo smesso così tanto di combattere l’imperialismo che abbiamo iniziato a dire che l’imperialismo non esiste o che l’imperialismo è una cosa che non esiste come qualcosa di assolutamente cattivo. Fondamentalmente abbiamo smesso di combattere ma non solo noi, quelli di sinistra nel mondo hanno smesso di essere un avversario credibile per questa enorme macchina di distruzione che sono l’imperialismo ed il capitalismo e sono rimasti solo loro. Cinquanta anni fa ovunque andavi nel mondo potevi combattere sotto una specie di falce e martello: le rivoluzioni della sinistra erano ovunque in qualunque continente si poteva combattere, a Cuba, Laos etc… adesso non c’è più niente. I compagni, anche qua in Europa andavano a formarsi in Palestina dove c’era la sinistra, adesso la Palestina è tutta in mano ai radicali islamici, non all’ISIS, ai radicali islamici, e anche nella Freedom Flottilla sono tutti salafiti estremisti islamici. Anche in Tunisia quando i compagni hanno provato a fare qualcosa sono stati schiaffeggiati dai radicali islamici che hanno tutta la forza militare, li hanno messi in un angolo ed i compagni sono stati zitti e sono tornati a fare quello che sanno fare cioè parlare. Le sinistre hanno perso in tutto il mondo credibilità nel fare la rivoluzione e adesso in mano ce l’hanno questi radicali islamici e l’ISIS e quelli che ad un certo punto vedono che hanno bisogno di un marchio, di nuove armi e finanziamenti, si guardano intorno e comprano dentro il franchising dell’ISIS e questo si espande senza aver bisogno di raggiungere un posto con le forze armate. Adesso il Rojava è veramente piccolo, noi parliamo del Rojava come se fosse l’unica soluzione, ma noi parliamo di tre città e la loro piccola regione intorno che è un cantone e che è un piccolo pezzo della Siria. I cantoni di Kobane e di Afrin nella regione di Aleppo sono fondamentalmente qualcosa di più di una città. L’unico cantone che si sta espandendo a livello territoriale è quello di Cezire ed è lì che i compagni di tutto il mondo hanno la possibilità di formarsi militarmente e di partecipare ad una lotta armata di sinistra, socialista.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Questa è una grossa differenza rispetto alle esperienze del passato e che riporta alla memoria in bianco e nero della guerra di Spagna.

No, a me non la ricorda perché per la guerra civile spagnola solo dall’Italia erano partiti in 5000, c’erano brigate internazionali, una brigata sono 300 persone… (ride) cazzo qui non c’è un compagno internazionale che vada a combattere a Cezire, la maggior parte sono militari, persone che fanno il soft air, a cui piacciono i giochi di guerra o invece persone normali che partono anche per ragioni umanitarie, che dicono: “guarda la gente viene massacrata da ’sti bastardi dell’ISIS e nessuno fa un cazzo, io vado lì a combatterli, a dare una mano, non ho mai avuto un’arma in mano non ho una ideologia politica e vado lì a combattere, a dare una mano per una questione umanitaria”. La maggior parte sono così anche se ultimamente hanno cominciato ad arrivare dei compagni: ho visto due anarchici dall’Europa a Kobane ma arrivavano anche per non andare in galera perché hanno avuto delle sentenze di carcere lungo, si dovevano fare 20 anni di galera e sono venuti là per non andare dentro. Io non vedo compagni che si organizzano per tenere fronti, l’unica eccezione sono i compagni turchi, dei partiti turchi, non hanno grandissimi numeri ma stanno andando lì con numeri consistenti e stanno offrendo un aiuto consistente e reale. Fare un paragone con la guerra civile spagnola è assurdo, i compagni internazionali sbilanciavano la cosa da una parte, è ridicolo, anzi se si vuole fare un paragone con la guerra civile spagnola bisogna farlo con l’ISIS perché lì si che arrivano migliaia di internazionali dall’Europa e fanno la differenza per quanto riguarda il campo di battaglia e l’apporto militare.

 

Una critica che viene fatta in Europa per quanto riguarda le donne nella situazione del Rojava è che fare la guerra sia qualcosa di molto maschilista. Si vedono le forze guerrigliere curde femminili ma resta una diffidenza nei confronti del fatto che la guerra sia qualcosa di dominato da una logica maschile. Cosa pensi della situazione delle donne qui e laggiù?

Penso che le donne qui in Europa siano più oppresse che nel Medio Oriente perché per lo meno nel Medio Oriente si sentono oppresse, sanno di vivere di merda e si vorrebbero levare quel cazzo di velo, qua si sentono libere, buon per loro. Ma qua anche io tra i compagni nei centri sociali ne vedo davvero poche di donne ai vertici, io ne vedo davvero poche di compagne che guidano movimenti. Noi parliamo del Rojava dove le donne comandano, le donne guerrigliere combattono meglio degli uomini. Non parlo di quelle che vengono dalle montagne, ci sono infatti i “cugini” che vengono dalle montagne, da vent’anni di esperienza nella guerriglia. Io parlo di donne che vivevano in Siria e che hanno sempre visto la madre con il velo mangiare in cucina separata dal marito, sfornare otto figli senza lavoro, senza diritto di voto, marginalizzate dalla vita sociale e pubblica, per quanto riguarda la sfera di potere tutta in mano ai maschi, loro vengono da queste famiglie. Io le ho viste nell’addestramento, mi ci sono addestrato i primi 4-5 giorni e poi le ho riviste a Kobane. Le ho riviste in altri campi di addestramento: sono le peggiori quando si addestrano, si lamentano sempre, corrono meno di tutti si sfiancano dopo un giro di corsa di 100 metri non riescono più a camminare, e poi le rivedi due o tre mesi dopo sul campo di battaglia in prima linea, combattono più feroci degli altri, non scappano mai, sono motivo di ispirazione per tutti gli altri. Nei fronti caldi li vedi con il telefono in mano i capitani delle YPG che chiamano a Kobane e che chiedono che le donne delle YPJ[2] vengano a dare una mano perché sono una garanzia e sono le migliori combattenti. E quando io le ho viste in addestramento con la mia mentalità europea ho detto: “è tutta una cosa mediatica”. Poi le ho riviste nel campo di battaglia: piangono ma non scappano, mantengono la loro femminilità, non alzano mai la voce quando parlano tra loro, mantengono dei tratti estremamente femminili ma poi in battaglia combattono meglio degli uomini. Ma perché fondamentalmente tutta questa idea militare che abbiamo qua dei muscoli degli allenamenti e dei pesi, tutta questa mentalità militaristica americana con gli sport estremi che ti spingono al limite fisico sono tutte puttanate, laggiù non fanno sport, non lo fanno, lo fai per addestrarti, per abituarti a certe movenze, serve più a livello psicologico. I guerriglieri non si allenano, sono magrolini, sono un po’ debilitati, qualcuno è un po’ più ciccio, tutto quello che serve è coraggio e quello ce l’hanno da vendere. Ma per liberarsi da quel tipo di cosa lì io non so quale sia la chiave e non so nemmeno se ci sia. Di fatto però quelle donne stanno lì e combattono meglio degli uomini, non ti so spiegare bene ma sicuramente là le donne sanno meglio degli altri quello per cui stanno combattendo.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Oltre al Rojava, vedi qualcosa in Medio Oriente in altre zone che possa andare in quella direzione? C’è una nuova tendenza in atto o il Rojava è un faro nella notte?

È un faro nella notte che non si spegne in nessuna maniera. Io mi sto continuando ad esercitare nel kurdo, ho scaricato manuali e dizionari per comprendere meglio la grammatica perché penso che lo scalino più importante da superare sia la barriera linguistica. In realtà basterebbe sapere il turco, perché il faro non è partito dalla Siria ma fondamentalmente è partito dalla Turchia ed è la che ci sono tanti partiti e movimenti politici che sono di quello stampo. A noi mancano ancora le connessioni con quei movimenti e partiti politici. Sicuramente arriverà da lì un’ondata di cambiamento, prima di tutto arriverà in Turchia. Tanti compagni sono andati in Rojava e si sono formati e quando quelli torneranno in Turchia ce ne accorgeremo. Per quanto riguarda l’Europa non so bene quale sia la situazione, per ora quelli che so che si sono mossi in maniera concreta sono i tedeschi ma loro hanno sempre avuto con la Turchia relazioni più strette per una questione legata alle seconde generazioni e tanti nei movimenti tedeschi parlano il turco. Penso però che ci sia una grandissima opportunità anche per i movimenti italiani. Io non so ancora cosa farò, sto cercando di riprendermi dallo shock dal punto di vista umano, sono stato a Kobane ed ho ancora in qualche maniera uno shock post-traumatico ma non è PTSD[3] (ride). Ho bisogno di riambientarmi anche per non fare cose da matti, ma io vedo un grandissimo potenziale venire da lì a qua. Quello che sto cercando di capire è se i centri sociali siano il veicolo per questo potenziale o se sia necessario ricostruire qualcosa da zero.

 

[1] YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di Difesa del Popolo) sono le forze armate kurde del Rojava.

[2] YPJ (Yekîneyên Parastina Jin – Forze di Difesa delle Donne).

[3] Sigla per Post-traumatic stress disorder, diagnosi psicologica di uno stato di forte ansietà e sofferenza dovute all’esperienza di eventi traumatici.