Di Chiara Fanelli e Eugenio Salvatori [QUI IL PDF]
Estratti dalla tesi di laurea “Il biennio rosso nel riminese”, A. A. 2014/15
Di Eugenio Salvatori
La sera del 19 maggio accade il fatto più grave e tragico per la cittadinanza riminese, 65
da cui presto conseguirà una sempre maggiore stretta repressiva dello squadrismo fascista:
il già famigerato Platania, ex anarchico interventista, poi nazionalista fra i fondatori del
Fascio riminese, viene ucciso nell’atrio della stazione di Rimini.
Vengono immediatamente arrestati un gruppo di ferrovieri, comunisti e anarchici, che
negli attigui locali della stazione stavano festeggiando il trasferimento di un loro compagno,
colpevoli solo di essere usciti, come tanti, nel piazzale antistante la stazione dopo
aver sentito gli spari provenire dalle sale interne. Alcuni resteranno in carcere per lungo
tempo con l’accusa di aver ordito un complotto sovversivo in seguito al ferimento, di
qualche giorno precedente, dell’anarchico Bracconi, a cui erano seguite delle minacce
rivolte al Platania.
Nei mesi seguenti Carlo “il Monco” Ciavatti, anarchico individualista già carcerato, si
auto accuserà dell’omicidio e faticherà non poco a provare la propria colpevolezza, avendo
egli agito in solitaria e affermando che si era trattato di un regolamento di conti con l’ex
anarchico, facendo quindi decadere la tesi del complotto assai cara al fascismo di regime,
che aveva legittimato la violenza contro i sovversivi con quel delitto e chiuso in prigione
per anni i presunti colpevoli.
La notte del giorno seguente, il 20 maggio, l’orda fascista proveniente dalle città emiliane
di Bologna e Ferrara colpisce senza pietà la città di Rimini. Una cinquantina di camice
nere si scatenano per le vie del centro cantando i loro inni e spaventando la cittadinanza.
Questo il racconto de «L’Ausa»:
“Alle 20.30 incominciarono in piazza Cavour i primi incidenti fra fascisti e alcuni cittadini ritenuti per comunisti, ma fortunatamente senza tristi conseguenze. Alle 21.30 circa i fascisti spararono qualche colpo di rivoltella per intimidazione e infatti riuscirono nello scopo perché la città si spopolò in un attimo e, mentre i carabinieri usciti dalla limitrofa caserma stavano perquisendo innocenti passanti, i fascisti [guidati dal riminese Odella] si recarono nel sobborgo di San Giuliano e qui giunti, dopo aver imposto con spari di rivoltella e petardi la chiusura di tutte le finestre e le porte di casa, cosa che ottennero senz’altro, si recarono al Circolo ricreativo 13 Ottobre, i cui soci hanno fama di essere in gran parte anarchici e comunisti. In breve i mobili e quant’altro si trovava nei locali fu distrutto, quindi vi fu appiccato fuoco.”
A nulla valgono gli sforzi dei pompieri, che vengono bloccati dalle rivoltelle dei
fascisti all’altezza della chiesa dei Servi, prima del ponte di Tiberio, e costretti con
la forza a ritirarsi.
“I fascisti – prosegue la cronaca de «L’Ausa» – indisturbati proseguirono nella loro opera punitiva. Recatisi in via Clodia appiccarono il fuoco al Circolo dei ferrovieri. Pianciti, biliardo, biblioteca, tavoli, abitazione del custode, tutto andò distrutto.”
Alla devastazione del Circolo Primo Maggio segue quella della Cooperativa dei pittori. I pompieri accorrono questa volta scortati dalle guardie regie e, nonostante il sabotaggio dei fascisti che tagliano le gomme dell’autopompa, riescono a domare l’incendio. I fascisti, non contenti, si recano poi sotto casa di Arturo Clari in via Castelfidardo:
“e qui, dopo aver sparato vari colpi alle finestre, andati fortunatamente a vuoto, gettarono anche un petardo che scoppiò con gran rumore ma senza procurare danni.”
Il giorno del funerale del Platania viene fissato per il 22 maggio, giornata che segna l’apice delle violenze prodotte a Rimini dal fascismo d’importazione. Si affermerà, da questo momento in poi, la presenza in pianta stabile dello squadrismo emiliano, armato e organizzato, considerato necessario dallo stesso Mussolini per abbattere la resistenza riminese al fascismo, nei luoghi tipici di quel sovversivismo diffuso, finora impermeabile al nuovo partito nazionalista. I pochi cittadini incappati sul percorso della cerimonia vengono fascisticamente educati a schiaffi. Evidentemente questa lezione non trova diffusione, se l’onorevole fascista Silvio Gai di Ancona, in una lettera ai giornali scriverà:
“Vergogna! Rimini non è città italiana.”
Ma questi episodi sono solo il preambolo del peggio: di ritorno dalla cerimonia funebre condita di tali violenze, i due camion fascisti condotti da Italo Balbo percorrono la via Emilia in direzione Ferrara, dopo aver ricevuto il cambio dagli squadristi bolognesi della Disperata di Arpinati. Sopraggiunti nel piccolo borgo rurale di Santa Giustina,
“fermarono i camion, percorrendo a piedi la borgata sparando all’impazzata”.
I fascisti non volevano solo fare paura e, forse delusi dalla scarsa presenza della cittadinanza al funerale, sparano per uccidere. Sotto i loro colpi cadono tre coloni, cattolici e padri di numerosi figli non iscritti a nessun partito politico. La colonna di fuoco proseguirà verso nord, assalendo la redazione di «Lotta di classe» a Cesenatico. Le devastazioni di quei giorni e il tragico eccidio di Santa Giustina gettano Rimini e il circondario nello sgomento.
«Che effetto ti fa la vita che facciamo?» E lei con estrema semplicità: «L’effetto di vedere una sponda cui bisogna pervenire a tutti i costi».
Dialogo tra un federato e Louise Michel
La teppa all’assalto del cielo
LA TEPPA ALL’ASSALTO DEL CIELO: I 72 GIORNI DELLA COMUNE DI PARIGI, 18 MARZO-28 MAGGIO 1871: SULLA RIVOLUZIONE PROLETARIA IERI E OGGI. Nuova ed. aggiornata a cura di Emiliano Cazorzi, Salvatore Corasaniti, Giorgio Ferrari, Roma, [S.n.], 2017.
Il potere si nutre del dissenso che riesce a recuperare, quello con cui può dialogare, scendere a patti, coinvolgere, se necessario, nella gestione di aspetti marginali della cosa pubblica, ma quando la critica oltrepassa il segno, quando la protesta diventa collera e le pacifiche sfilate in strada sono impedite da barricate e colonne di fumo, allora non c’è che una risposta da parte di chi detiene il potere: il pugno di ferro. Come dice il saggio Pier Ferdinando Casini: “in una società libera e democratica gli indignati si ascoltano, i delinquenti si mettono in galera”.
La repressione però, anche spietata, non basta all’opera di pacificazione sociale se non si accompagna a un’abile propaganda tesa a demonizzare il nemico interno per ricompattare la “società civile”. Allora il nemico pubblico diventa “teppa”, “canaglia” dedita a una violenza insensata, fatta di delinquenti se non di terroristi, additati all’odio sia dei più beceri conservatori sia di quella meravigliosa moltitudine di gente per bene, progressista e democratica, che chiede cambiamenti, chiede un mondo migliore, chiede, chiede, chiede senza mai stancarsi di aspettare.
Di quella teppa e del suo assalto al cielo parlava un libro uscito nel 1978 che con un’impostazione molto originale, e ricchissimo di illustrazioni, metteva a confronto il presente politico del Settantasette con l’archetipo della sollevazione proletaria, ovvero la Comune di Parigi del 1871. E lo faceva non solo raccontando la cronaca dei 72 giorni di gloria del proletariato parigino, ma anche mettendosi per un attimo dall’altra parte della barricata, facendo cioè parlare i giornali borghesi e democratici, dimostrando come a cento anni di distanza il linguaggio della loro comunicazione si fosse evoluto per poter continuare a dire sostanzialmente le stesse cose.
Oggi quel libro è stato ristampato in una nuova edizione autoprodotta attraverso iniziative collettive di finanziamento. Non si tratta di una ristampa, sebbene abbia mantenuto l’impostazione e il progetto grafico originali, ma di un’edizione aggiornata a cura di Emiliano Cazorzi, Salvatore Corasaniti e Giorgio Ferrari, che alle tappe del 1871 e del 1977 hanno aggiunto quella del 2010-2011. Il riferimento è alle giornate di guerriglia che hanno scosso la tranquillità delle strade romane il 14 dicembre 2010 e il 15 ottobre 2011, descritte attraverso i travasi di bile, a tratti godibilissimi nella loro intransigente retorica, della stampa mainstream.
Alla “congrega dei socialisti” del 1871, e ai “gruppuscoli estremisti” del 1977, si affiancano così i “black bloc” del 2010- 2011. Il parallelo storico tra epoche, contesti e sollevazioni così differenti può sembrare irriverente, e forse almeno un po’ lo è davvero ma, senza forzature, l’opera riesce nella perfetta messa a fuoco di quel vizio, vecchio come l’essere umano, di infangare e delegittimare gli antagonisti e le antagoniste. Teppa, infatti, non sono solo uomini, ma anche donne che l’opinione pubblica non si aspetterebbe di trovare in strada. Come ben raccontano queste parole: “Un corrispondente del «Times», parlando delle donne della Comune, commenta: «Se tutta la Francia fosse composta di queste donne, che terribile nazione sarebbe». Le troviamo dappertutto: a scuola, negli ospedali, nei circoli politici, sulle barricate. Vivere libere col fucile, o morire combattendo, è il loro motto.”
Per quelle donne, come per queste di oggi che “«non ci si aspettava» di vedere in piazza a lanciare i sampietrini”, non c’è posto nelle “storie della buonanotte” che dovrebbero ispirare le bambine “ribelli”… e forse possiamo capire il perché.
Per questo il nostro consiglio è: leggete e raccontatene, alla teppa di oggi e di domani, e sostenete l’opera, realizzata senza case editrici e crowdfunding milionari, richiedendo una copia a: rossovivo@autistici.org.
Baldoni Romolo o Remolo, detto Remo. Muratore. Anarchico.
Di Federico Sora [QUI IL PDF]
Fano ha una lunga tradizione sovversiva e ribelle. La locale sezione dell’Internazionale, su posizioni antiautoritarie e antimarxiste, è una delle prima fondate nelle Marche, nel febbraio 1872, e da allora gli anarchici hanno messo radici in città. Questo articolo ci racconta la storia di uno di loro, a cavallo tra Ottocento e Novecento. È la storia antica di un “militante di base”, come si sarebbe detto in altri tempi, di uno di quelli che solitamente non finiscono nelle pagine dei libri di storia, ma la cui biografia è parte integrante e attiva dei percorsi collettivi “verso la vera giustizia sociale” (così recitava il sottotitolo di un giornale anarchico fanese dell’epoca). Pensiamo che gettare uno sguardo sulle grandi e piccole vicende delle generazioni che ci hanno preceduto, da quelle dei più noti rivoluzionari fino alle teste calde come Remo Baldoni, sia utile per affrontare con maggiore consapevolezza il nostro presente.
Baldoni Romolo – Foto segnaletica nel Casellario politico centrale
Remo Baldoni nasce a Fano il 2 luglio 1878 da Giuseppe e Teresa Gasperini. La scheda personale del Casellario politico centrale, compilata dal prefetto di Pesaro e Urbino nel 1898, lo descrive “di carattere vivace, con educazione limitata alle prime classi elementari; Baldoni si professa anarchico ed è uno tra i più attivi esponenti dell’anarchismo fanese, ma non ha grande influenza, non ha contatti con altri compagni al di fuori di Fano né mai ha collaborato con stampa e periodici…”.
Ancora diciottenne, nella notte tra il 31 luglio e il 1 agosto del 1897, viene sorpreso insieme a Romolo Casabianca, anch’esso muratore e anarchico, mentre disturbano la quiete pubblica cantando e gridando frasi sediziose per le vie della città. Baldoni si rifiuta in quell’occasione di fornire le proprie generalità agli agenti di pubblica sicurezza; al conseguente processo conferma tranquillamente il fatto senza dare alcun tipo di giustificazione e viene condannato a cinque giorni di detenzione.
Molto più rilevante la vicenda a cui partecipa la sera del 5 settembre 1897. Baldoni fa parte di una comitiva di una trentina di giovani tra i quali diversi noti esponenti anarchici che vanno schiamazzando per le vie di Fano, al suono delle chitarre suonate da Arturo Pensieri e Antonio Gennari. Giunta in piazza XX settembre, la comitiva disturba il concerto tenuto dalla banda cittadina, tanto da rendere necessario l’intervento di carabinieri e guardie. Probabilmente l’episodio non era casuale ma organizzato per creare disordini; il giorno precedente, infatti, il prefetto aveva inviato una comunicazione che preannunciava la possibilità di un’iniziativa contro il progetto di legge sul domicilio coatto, proibendo qualsiasi manifestazione. Il delegato di PS Achille Riello redarguisce quindi i giovani e ordina loro di sciogliere l’assembramento. Ma il gruppo oppone resistenza e l’anarchico Domenico Saltarelli, in particolare, invece di obbedire all’ordine prende a contestare platealmente l’operato del delegato, accusandolo di compiere un sopruso.
Vecchia Fano – Via San Francesco
Mentre Saltarelli viene tratto in arresto, il gruppo si fa più minaccioso e altre persone accorrono sul luogo dell’assembramento. I carabinieri iniziano a tradurre l’arrestato verso la caserma che si trova all’inizio di via Cavour, seguiti a distanza ravvicinata da una piccola folla che inveisce contro i militari e cerca di liberare il compagno. Raggiunto l’incrocio con via Garibaldi, a poca distanza dalla caserma inizia lo scontro più cruento. Qualcuno afferra le sedie di un locale e le scaglia contro i carabinieri, fatti oggetto anche di calci e pugni da parte di alcuni anarchici, fino all’arrivo di una pattuglia di rinforzo con le spade sguainate. Sopraggiunge infine il delegato Riello, che si era momentaneamente attardato, il quale tenta di pacificare gli animi promettendo di intervenire il giorno seguente per la liberazione di Saltarelli, che era stato nel frattempo rinchiuso in caserma. Il suo tentativo di mediazione risulta vano e quando cambia tono e ammonisce la folla di non compiere sciocchezze, per tutta risposta viene strattonato, gettato a terra, malmenato e colpito con diverse coltellate senza dargli modo di estrarre la pistola, mentre dalla folla diverse persone incitano “dategli forte!”, “dalli, dalli!” o l’apostrofano ironicamente “Ah, Riello, le prende tutte?”. Poi i carabinieri, che avevano lasciato il prigioniero in caserma, riescono revolver alla mano mettendo in fuga il gruppo che aggrediva il delegato. Riello è portato all’ospedale dove rimane per una trentina di giorni e, una volta guarite le ferite, gli viene fatta cambiare aria con il trasferimento a Grosseto.
Pochi giorni dopo l’episodio, Remo Baldoni viene arrestato presso la sua abitazione di via Tomassini 11, sulla base della testimonianza di Riello che, dal letto dell’ospedale, affermava di averlo riconosciuto tra gli aggressori. Baldoni ammette che la sera del 5 settembre si trovava in piazza XX settembre, ma era in compagnia della sorella per ascoltare il concerto della banda, al termine del quale se ne era andato senza essersi reso conto di nessun incidente. Dev’essere stato convincente… visto che il tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove, mentre condanna buona parte degli altri imputati.
L’anno successivo Baldoni è protagonista di un nuovo episodio davanti alla caserma dei carabinieri di via Cavour, dove si presenta con un coltello in pugno verso le ore 19.00 del 14 ottobre 1898, urlando ripetutamente: “evviva l’anarchia! Evviva la rivoluzione sociale! È ora di finirla, abbasso i preti e la borghesia!”, aggiungendo “se vengono avanti questi vigliacchi dei carabinieri, dei quali non ho paura, gli darò un colpo sul muso!”. I militari assistono alla scena dalle finestre, ma appena escono dalla caserma Baldoni si è già dileguato. Questo episodio suscita un certo clamore, anche perché non si era ancora spenta l’eco dei moti popolari che in quell’anno avevano scosso l’intero paese e ogni scintilla avrebbe potuto accendere nuovamente le piazze. Baldoni viene poi arrestato ma anche questa volta riesce a cavarsela. Al processo dichiara che quel giorno era al lavoro presso il cantiere della Pretura a palazzo Marcolini sotto la direzione di Alessandro Verna, al termine della giornata si era recato in compagnia di altri all’osteria dell’Antonia di porta Cavour e da allora di non ricordare più nulla. Il pretore di Fano, che nelle cause discusse immediatamente prima aveva condannato gli anarchici Bruto Giovannini e Amedeo Calamandrei per contravvenzione alla vigilanza speciale, derubrica il reato da oltraggio e grida sediziose a ubriachezza molesta, con una pena di venti giorni di reclusione.
Vecchia Fano – Rocca Malatestiana
La frequentazione delle aule di giustizia non gli fa evidentemente mettere la testa a posto. Sempre nel 1898 Baldoni risulta denunciato per reato di danneggiamento, ma il giudice istruttore del tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove. Nuova imputazione nel 1900, quando insieme ai compagni Giulio Tebaldi, Duilio Diambrini e Fortunato Dori è accusato di ingiurie, offese e lesioni ad alcuni soldati. Il fatto accade la sera del 13 maggio: in via Nolfi il sergente Francesco Achille è beffeggiato da alcuni giovani e seguito fin sotto la porta della caserma, all’uscita di altri militari il gruppo incrementa le offese e lancia dei sassi, uno dei quali colpisce alla testa un soldato. I giovani vengono quindi inseguiti e quasi raggiunti, ma alle loro grida di aiuto accorrono almeno una decina di persone, alcune armate di pistole, che a loro volta mettono in fuga i militari. Baldoni per l’ennesima volta viene identificato, ma i soldati non procedono con la querela e tutti gli imputati vanno prosciolti. Un anno dopo, il 4 febbraio 1901, si presenta in maschera presso il Teatro comunale di Fano, in occasione del veglione carnevalesco della Società dei barbieri, ma alcune solerti guardie municipali tentano di cacciarlo perché “indecentemente vestito”; Baldoni oppone resistenza e all’arrivo dei carabinieri grida “sono socialista anarchico rivoluzionario! Evviva l’anarchia! Io non ho paura!”: condanna a 4 mesi e 15 giorni di carcere (poi ridotta dalla corte d’assise di Ancona).
Nel giugno 1901 si reca a Roma in cerca di lavoro, dopo pochi giorni viene però rispedito a Fano perché rimasto senza mezzi e occupazione. Qualche mese più tardi, il 7 ottobre 1901, insieme ai calzolai Mario Chiari, Carlo Falconieri, Romolo Falcioni, al pescivendolo Dalmazio Falcioni, al decoratore Augusto Guidi e al cameriere Giuseppe Selvetti è accusato di oltraggio ai carabinieri: in piazza XX settembre, nella tarda serata, i carabinieri intervengono per il disturbo alla quiete pubblica arrecato da una ventina di giovani, che a quanto pare stavano invece solo discutendo animatamente di questioni politiche socialiste-anarchiche. Uno dei denunciati, Mario Chiari, aveva risposto: “sono anarchico e non rispetto le vostre leggi attuali ed è meglio che ve ne andate sennò succede qualcosa”.
Baldoni, a 23 anni, capisce che è il caso di lasciare Fano per cercar fortuna altrove. Nel 1902 prende residenza in Svizzera, a Vallorbe, nel 1903 è segnalato per l’opportuna vigilanza a Varzo in Piemonte, nei pressi del confine svizzero, impiegato presso la Società Mediterranea a posare le rotaie della linea verso il Sempione. Nel 1904 è di nuovo in Svizzera dove si fa arrestare ed espellere per mancanza di residenza; le autorità italiane lo fermano alla frontiera in quanto anarchico e pregiudicato e procedono al rimpatrio disposto per motivi di pubblica sicurezza. Successivamente, munito di regolare passaporto, parte alla volta di Trieste imbarcandosi sul piroscafo a Ravenna, ma nell’aprile del 1905 è di nuovo di ritorno a Fano; riparte verso Trieste nel successivo mese di maggio e da allora si perdono, almeno momentaneamente, le sue tracce. Nel 1908 il delegato di PS di Fano lo indica come emigrato negli Stati Uniti, senza però precisare la località. Nel 1911 è segnalato quale sottoscrittore del periodico anarchico «Cronaca Sovversiva» di Barre. Negli Stati Uniti risulta essere residente prima a Logansport (Indiana), poi a Woonsocket (Rhode Island) e dal 1907 a New Haven (Connecticut).
Vecchia Fano – Corso V. Emanuele
Rientra a Fano nel 1913 dove, per i suoi precedenti, viene attentamente vigilato. Non senza ragione, visto che Baldoni riprende il suo posto tra i più attivi anarchici fanesi. In agosto, durante lo sciopero proclamato dall’Unione sindacale italiana in solidarietà con le agitazioni operaie milanesi e senza l’appoggio della Confederazione generale del lavoro, è accusato di aver impedito insieme ad altri, con minacce e violenze, la libertà di commercio. Fano è l’unica località della provincia dove si tengono due giornate di agitazione, mentre altrove i dirigenti riformisti ignorano lo sciopero. Gruppi di dimostranti iniziano nelle prime ore del mattino il giro delle officine, dei cantieri, delle filande, del porto e degli stabilimenti annunciando lo sciopero che ben presto diventa completo. Durante la mattinata si verificano degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e un operaio è ferito gravemente alla testa da una sciabolata. Alcuni dimostranti sono arrestati, tra questi Baldoni con l’accusa di aver bloccato le vetture pubbliche. Nella relazione della polizia si legge che Baldoni esercitava un certo ascendente sugli altri, marciando in testa al gruppo di dimostranti e usando un contegno irriverente nei confronti della forza pubblica. Viene anche riportata la sua dichiarazione di “non riconoscere né legge né si crede obbligato a rispettarla”, aggiungendo con ironia che “alla promulgazione di essa non era stato chiesto il suo assenso”.
Non poteva mancare per Baldoni un ruolo attivo durante le manifestazioni della Settimana Rossa. Anche Fano, come gran parte delle Marche e della Romagna, tra il 7 e il 14 giugno 1914 è scossa da manifestazioni, picchetti e da uno sciopero che blocca interamente la città per diversi giorni, anche dopo la cessazione proclamata dalla CGdL. Tra i principali agitatori, oltre a Casimiro Accini, figurano tutti i principali esponenti anarchici. Con loro il nostro Romolo Baldoni, chiamato poi a rispondere del reato di inosservanza delle disposizioni di PS. Mentre lo sciopero minacciava di assumere caratteri pre-insurrezionali, il commissario di PS aveva infatti invitato nel suo ufficio Baldoni e Alfredo Armanni, ritenendoli i due “caporioni” dell’agitazione. Avrebbe voluto diffidarli dal continuare a fomentare gli animi consigliando di cessare i disordini che da alcuni giorni disturbavano i cittadini e impedivano ai negozianti di aprire i loro esercizi. I due, ovviamente, si guardarono bene dal presentarsi, continuando a “passeggiare spavaldamente” in città.
Spenti gli entusiasmi della Settimana Rossa, il 19 luglio 1914 Baldoni parte alla volta di Parigi, da dove passa a Londra e, stando ai rapporti di polizia, si incontra più volte con il “noto anarchico” Errico Malatesta. Poco dopo ritorna negli Stati Uniti e nel 1918 è dichiarato disertore per non essersi presentato alla chiamata alle armi. Nel 1921 sbarca a Genova proveniente da Philadelphia, subito viene fermato ma nell’agosto dello stesso anno il tribunale pronuncia il “non luogo a procedere” in quanto il reato di diserzione era già stato amnistiato. Trova occupazione come cameriere a bordo dei piroscafi che viaggiano tra l’Italia e l’America e, più tardi, come muratore alle dipendenze di un’impresa di impianti elettrici. Viene segnalato a Genova ancora nel 1933 ma su di lui cessa la vigilanza poliziesca. Si ignorano data e luogo di morte.
Baldoni Romolo – Fascicolo del Casellario politico centrale
FONTI: Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 281, fascicolo ad nomen; «Il Gazzettino» 13/9/1897, 5/12/1897 e 31/12/1897; «Piccolo Corriere» 23/12/1897; «L’Agitazione» 16/9/1897; «Il Gazzettino» 13/11/1898, 20/5/1900, 10/2/1901 e 3/3/1901; «In Marcia», 1/3/1913, 6/4/1913 e 24/8/1913; «La Frusta» 15/4/1920; Pretura di Fano, Sentenze penali, 1897, n. 137 contro Baldoni Romolo e Casabianca Romolo; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314 contro Baldoni Romolo; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1899, b. 753, n. 274 contro Saltarelli Domenico muratore 37 a., Falcioni Adolfo pescivendolo 22 a., Ferretti Gustavo muratore 20 a., Tarini Riccardo mediatore-facchino 29 a., Panzieri Arturo muratore 18 a., Gennari Antonio fabbro 17 a., Zandri Napoleone detto Bastia muratore 25 a., Verna Antonio falegname 20 a., Biscottini Vincenzo arrotino 23 a., Baldoni Romolo muratore 19 a., Valentini Alessandro tintore 20 a., Dori Fortunato scalpellino 17 a., Casabianca Romolo muratore 19 a., Montebelli Riccardo marinaio 16 a., Spallacci Augusto scalpellino 26 a., Biagioni Alberigo scalpellino 24 a., Simoncini Leandro muratore 17 a., Paci Luigi calzolaio 27 a., Lombardi Romolo tintore 23 a., Montebelli Erminio muratore 36 a., Falcioni Dalmazio 17 a., Talevi (o Tallevi) Giuseppe muratore 20 a.; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 113 contro Tebaldi Giulio, Baldoni Romolo, Diambrini Duilio, Dori Fortunato; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 112; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1901, b. 784, n. 320; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1902, n. 32 contro Chiari Mario; Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe, Accini Casimiro, Falcioni Adolfo, Pigalarga Alfredo, Marini Augusto, Chiari Guglielmo, Dionisi Costantino, Apolloni Fortunato, Baldoni Romolo, Francolini Ugo, Libretti Alessio; Pretura di Fano, Atti penali, 1914, n. 269 contro Armanni Alfredo e Baldoni Romolo.
Fascicolo del Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe et al.
Il proletariato non ha nazione. Ricordi d’internazionalismo dalla provincia marchigiana
Di Valerio [QUI IL PDF]
No pasaran!, cartolina dal Nicaragua, 1979 circa
A forza di esportare la pace, gli Stati Uniti si sono ritrovati in guerra in 222 dei 239 anni della loro storia; per la maggior parte sono state guerre di aggressione o invasioni preparate dalla CIA. Tutti i presidenti degli Stai Uniti sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti almeno in una guerra. Fu soprattutto l’aggressione al Vietnam, con le immagini dei massacri e i villaggi bruciati dai bombardamenti al napalm, che contribuì a maturare nelle nostre coscienze quella sensibilità internazionalista che ci fece “sentire nostra qualunque ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo”.
In Cile, l’11 settembre del 1973, il generale Pinochet filoguidato dagli americani attuò il colpo di Stato uccidendo il presidente Allende. Il golpe ebbe un’influenza politica ed emotiva enorme in tutto il mondo e l’eco di quell’avvenimento si fece sentire anche in Italia. In quei giorni il giornale «Lotta continua» lanciò una campagna di finanziamento denominata “Armi al MIR”, grazie a quella mobilitazione furono raccolte alcune centinaia di milioni che vennero girate agli uomini della resistenza cilena per continuare la lotta. Con l’appoggio a Pinochet, gli USA vollero mandare un monito a tutti i partiti socialisti del mondo: l’intendimento era quello di impedire la formazione di governi di ispirazione socialista, anche se democraticamente eletti e, con la cosiddetta “operazione Condor”, gli USA promossero la formazione di giunte militari e reazionarie in tutta l’America latina.
In Portogallo, nel 1974, una sollevazione attuata da militari dell’ala progressista delle forze armate, pose fine al regime fascista di António Salazar e del suo successore Marcelo Caetano. La dittatura aveva avuto origine dal golpe del 28 maggio 1926, durante la seconda guerra mondiale il Portogallo era rimasto neutrale poi, nel 1949, cessò l’isolamento politico del regime che per le sue posizioni anticomuniste diventò membro fondatore della NATO. Nel frattempo, la resistenza del Portogallo alla decolonizzazione provocò l’insorgere di un lungo conflitto tra le forze coloniali portoghesi e i movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. All’inizio degli anni Settanta alcuni ufficiali con idee progressiste si riunirono nel Movimento delle forze armate (MFA) allo scopo di abbattere il regime e avviare il paese sulla strada della democrazia e della decolonizzazione. Il 25 aprile 1974 Radio Renascença trasmise la canzone Grândola Vila Morena: fu il segnale che dette inizio alle operazioni militari con l’arresto degli alti ufficiali fedeli al regime e l’occupazione di luoghi strategici, come l’aeroporto di Lisbona e la prigione politica di Peniche. Il colpo di mano dei soldati democratici ebbe l’immediato appoggio della popolazione. Il nome di Rivoluzione dei garofani deriva dal gesto di una fioraia, che in una piazza di Lisbona offrì garofani ai soldati; i fiori furono infilati nelle canne dei fucili diventando simbolo della rivoluzione. Poco dopo, venne sciolta la polizia politica e abolita la censura, le colonie ottennero l’indipendenza, i prigionieri politici uscirono dalle carceri e i politici in esilio tornarono nel paese. Il Primo maggio un milione di persone si ritrovò a Lisbona, per la prima volta legalmente, per la festa del lavoro.
Cile, da Allende alla resistenza proletaria. Ciclostilato, 1974
La Rivoluzione aprì un periodo di grande fermento politico in cui si contendevano il potere i partiti della sinistra progressista e rivoluzionaria contro i partiti moderati e liberali. Il fallimento di un colpo di coda reazionario sostenuto dagli Stati Uniti consentì di spingere ulteriormente per una transizione verso il socialismo. Nel 1975, banche, compagnie di assicurazione e numerose industrie furono nazionalizzate, il nuovo governo attuò una riforma agraria per abolire il latifondo e ridistribuire la terra ai contadini, per diversi mesi in tutto il paese si svolsero manifestazioni, occupazioni di case, fabbriche, terreni. Per difendere il processo rivoluzionario, durante quella “calda estate” accorsero compagni da tutta Europa e anche dalla provincia di Pesaro partirono in una decina con destinazione Lisbona.
In Nicaragua, il 19 luglio 1979, fu abbattuta la dittatura della famiglia Somoza che per decenni aveva tenuto il paese in un abisso di povertà, predando ogni bene disponibile per arricchirsi grazie alla protezione americana. La rivoluzione fu guidata da un gruppo armato che contava su un ampio appoggio popolare, i sandinisti, eredi delle imprese di Augusto Sandino che negli anni Trenta, insieme al suo “piccolo esercito pazzo”, sconfisse i marines che occupavano il paese. I sandinisti erano contadini, operai, studenti e intellettuali e godevano dell’appoggio di buona parte della Chiesa locale, cosa che permise di poter cominciare a governare un paese ridotto in cenere.
La rivoluzione sandinista riuscì a raggiungere mete mai sognate prima nell’istmo centroamericano. Vi furono processi innovativi come la nazionalizzazione dei beni strategici e la riforma agraria, con la restituzione di migliaia di ettari ai piccoli produttori. Una delle prime grandi imprese fu inoltre la Crociata nazionale di alfabetizzazione, attuata per portare l’istruzione a una popolazione che aveva più del 50% di analfabetismo e che riuscì a ridurlo a circa il 12%. Il processo per instaurare una politica di giustizia sociale ebbe luogo soprattutto grazie alla partecipazione di giovani compagni che fin dall’inizio aderirono al movimento guerrigliero; furono loro il vero motore dell’alfabetizzazione della popolazione, così come vennero impiegati nei processi di mobilitazione per le giornate produttive agricole, diventate il supporto economico del paese. Di grande importanza fu l’impegno della popolazione nel conflitto che venne sostenuto negli anni Ottanta contro i movimenti controrivoluzionari (Contras), una guerra apertamente finanziata e guidata dagli Stati Uniti di Reagan. Per continuare a garantire l’istruzione e le prestazioni sanitarie i sandinisti chiesero aiuto a tutti coloro che nel mondo si battevano contro lo strapotere dell’imperialismo americano. E così anche dalla nostra provincia partì per quel sperduto paese un consistente numero d’insegnanti, medici, infermieri e tecnici.
Rivoluzione dei garofani, Portogallo, 1974
Il 18 ottobre 1977, alle prime ore del mattino, Andreas Baader e Gudrun Ensslin furono suicidati nelle loro celle del carcere speciale di Stammheim in Germania. Il primo fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca, la seconda impiccata a un filo elettrico; Jan Carl Raspe fu trovato agonizzante per un colpo alla testa e morì in ospedale, l’unica compagna che si salvò fu Irmgard Möller. Per vendicare in qualche modo quel suicidio di Stato, la sera dello stesso giorno una squadra partita da Fano partecipò all’assalto armato alla concessionaria italiana della BMW, in via Malaguti a Bologna. In quell’azione, mentre alcune squadre entrarono ed evacuarono l’edificio da clienti e dipendenti, una trentina di compagni bloccò completamente porta San Donato. Mentre la concessionaria veniva data alle fiamme, in fase di ripiegamento un agente di polizia fu intercettato e disarmato della sua arma d’ordinanza. La stessa notte furono fatte saltare in aria la sede della tedesca Kalle Infotec (materiali per ufficio) e la concessionaria bolognese della Volkswagen. Fu quello fu il modo per rendere un ultimo saluto ai compagni della RAF caduti a Stammheim.
Un posto a sedere su tutte le corriere!
Di Valerio
Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973
Nel novembre del 1973, dopo l’ennesimo incidente verificatosi a causa del soprannumero di studenti che per andare a scuola prendeva la corriera, il Coordinamento Cittadino Studenti Medi di Fano lanciò la mobilitazione generale. Sciopero ad oltranza in tutte le scuole e blocco totale dei mezzi pubblici che transitavano per il Pincio.
La proposta della mobilitazione passò per pochi voti, gli studenti dei partiti della sinistra istituzionale tentarono in tutti i modi di bloccare la mobilitazione ma, purtroppo per loro, il tempo della mediazione, delle petizioni, degli appelli era abbondantemente scaduto. Era invece giunto il momento della lotta, dell’azione di forza.
Quello che non si sapeva, era come avrebbero reagito gli studenti fuori sede di fronte a tale iniziativa: avrebbero partecipato allo sciopero o si sarebbero recati a scuola? E gli altri studenti, quelli che a scuola ci andavano in bicicletta, avrebbero solidarizzato con i loro compagni seguendoli in una lotta che si preannunciava lunga e dura? Dopo le varie assemblee studentesche, molti dubbi assalirono i giovani compagni della sinistra…
Fortunatamente, a fugare tali e tanti dubbi arrivò il giorno dei blocchi. L’appuntamento per i compagni dei collettivi era fissato per le sei della mattina, si dovevano bloccare le prime corriere che da Fano partivano alla volta di Urbino (ITIS e Scuola d’arte), poi sarebbe toccato ai mezzi che portavano i geometri a Pesaro e le maestre a Fossombrone. Si immaginava che quella mattina sarebbe potuto accadere qualche tafferuglio, ma credevamo che parte degli studenti fuori sede fosse decisa a entrare a scuola e quindi bloccare le corriere sarebbe stato molto difficile e l’azione si sarebbe forse trasformata in un atto puramente dimostrativo, invece…
Mercoledì 14 novembre.
Appena arrivati alla stazione delle corriere ci raggiunsero decine e decine di studenti, le cosiddette “sardine”, quelli che ogni mattina erano obbligati a salire su quei mezzi sgangherati e stracarichi. Nessuno di loro salì sui pullman, anzi tutti parteciparono al blocco, più il tempo passava, più la massa degli studenti aumentava, decine, centinaia, migliaia di studenti bloccarono il Pincio sdraiandosi davanti a quei mezzi antiquati. Oltre alle corriere anche i tram furono bloccati. Verso le dieci di quella mattina un corteo spontaneo si mosse dalla stazione delle corriere per andare a manifestare sotto il deposito di Vitali. Il traffico andò in tilt e la città impazzì. Il pomeriggio i compagni dei collettivi si ritrovarono in assemblea, bisognava scrivere un nuovo manifesto, stampare altri volantini e soprattutto coordinare il blocco del giorno dopo.
Giovedì 15 novembre.
Quel giorno la mobilitazione fu grandiosa: tutte le scuole vuote con gli studenti al Pincio a bloccare le corriere. Non solo, ma anche a Urbino, Pesaro e Fossombrone gli studenti scioperarono e si misero a bloccare il traffico.
Venerdì 16 novembre.
Terzo giorno di mobilitazione generale. La lotta dal Pincio era dilagata in tutta la provincia. La mobilitazione però cominciava a mostrare i volti dei molti nemici, primi fra tutti quelli delle ditte private che lucravano su questa situazione, poi i politici perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, infine i presidi che non solo avevano le aule completamente vuote, ma vedevano nascere agguerriti collettivi che ne mettevano in discussione il potere e oltre al posto su cui sedere chiedevano la mensa gratuita per chi era costretto a rimanere il pomeriggio, il rimborso del materiale didattico (libri e quaderni) per chi non poteva permetterselo, criticavano la didattica (cosa studiare, per chi studiare) e infine ritenevano di giudicare l’idoneità dei professori preposti all’insegnamento.
Alle nove circa di quel venerdì mattina, oltre agli studenti e alle corriere comparvero, d’un tratto, le verdi camionette del battaglione Senigallia.
Una, due, tre, quattro… dieci, venti!
I celerini, dopo essere scesi dai mezzi, si schierarono più o meno all’incrocio tra viale Gramsci e via Roma, si avvicinarono agli studenti convinti che con qualche spinta e qualche manganellata avrebbero risolto velocemente la faccenda.
Invece gli studenti resistettero! Si disperdevano durante le cariche ma poi tornavano a contrastare i poliziotti e tenere bloccate le corriere. Quella mattina si sviluppò una tale baraonda che si concluse solo verso mezzogiorno. A quel punto tutte le corriere e i tram bloccati rientrarono vuoti nei rispettivi depositi. Così fece la celere che se ne tornò in caserma.
Con parecchie contusioni e qualche bernoccolo, gli studenti avevano vinto la loro battaglia. Difatti, qualche giorno dopo, arrivarono al Pincio mezzi nuovi fiammanti e tutti gli studenti fuori sede ebbero a disposizione il posto su cui sedere.
Grazie a quella mobilitazione e agli scontri del Pincio si formarono collettivi politici in tutti gli istituti superiori. Contemporaneamente i compagni della Federazione giovanile comunista furono quasi tutti espulsi dal partito. Fu proprio dall’epurazione di quel gruppo che nacque Lotta continua, e fu così che Fano da tranquilla città di provincia si ritrovò in prima linea nel conflitto politico e sociale che, di lì a poco, avrebbe attraversato l’Europa.
Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’appennino marchigiano
Di Luigi
Con questo articolo approfondiamo il tema delle proprietà collettive delle terre, presenti nelle zone montuose alpine e appenniniche con nomi e tradizioni diverse ma caratteristiche simili, conosciute nelle Marche come “comunanze”. L’articolo mette a fuoco il loro significato originario legato a un modello di vita comunitario e ne delinea il percorso storico dai tempi antichi ad oggi, in particolare per quello che hanno rappresentato nella costante lotta contro i poteri dominanti. Nei prossimi numeri ci proponiamo di ritornare sul discorso della proprietà collettiva, sul problema della riappropriazione e dell’accesso alla terra e sulle contraddizioni che nella società attuale pervadono un istituto come quello delle comunanze agrarie, fattosi spesso centro di potere clientelare, ormai ben lontano dall’antico e idealizzato spirito originario.
Cavalli al pascolo sui monti Sibillini
Di fronte ai disastri del liberismo da qualche tempo si fa un gran parlare di commons, di beni comuni e del loro governo. Tra questi rientrano quei territori di appartenenza collettiva, inalienabili e indivisibili, gestiti con modalità condivise e solidaristiche, che si presentano come espressione di autogoverno di una comunità. Né privata né pubblica, dunque, ma collettiva: un’altra forma di proprietà le cui origini risalgono a tempi antichi, largamente conosciuta nella storia e in una certa misura anche nel presente dell’appennino marchigiano. Il percorso storico della proprietà è infatti ben più accidentato di quanto possa apparire, disseminato di resistenze ed esperienze alternative e contrastanti il modello di proprietà privata come diritto soggettivo assoluto.
Queste esperienze si localizzano soprattutto nelle aree montane, su pascoli e boschi poco appetibili per l’avanzante agricoltura moderna, in zone impervie dove il mutuo appoggio è essenziale per fronteggiare le difficoltà della vita. La modalità di gestione collettiva delle terre non è solo un espediente tecnico o giuridico ma deriva dalle caratteristiche stesse della vita montana, in cui l’assetto comunitario è un valore preminente, superiore alle forme individualistiche. Questi terreni, come i beni collettivi in generale, non rispondono all’interesse esclusivo del dominus, del titolare della proprietà, sia esso una persona fisica o un ente, libero di sfruttarlo a suo vantaggio anche fino all’esaurimento della risorsa, ma vanno mantenuti per il bene della collettività, che comprende anche le future generazioni, e quindi salvaguardati.
La storia che vogliamo ripercorrere è quella della strenua difesa delle terre collettive e del modo di vivere comunitario contro le autorità succedutesi nei secoli. Forme che sono state spazzate via solo dal processo storico del capitalismo, che ha rotto i vincoli del vivere umano con la terra e in particolare con la montagna. Dal dopoguerra infatti, con lo svuotamento delle campagne in cambio di un salario garantito, di qualche aggeggio tecnologico con cui riempire la casa e del controllo poliziesco per le strade, si sono perse forme di autogestione e saperi millenari. Oggi, perciò, avvertiamo l’urgenza di recuperare una dimensione locale e comunitaria, la dimensione dell’autogoverno che pone in discussione ogni modalità di gestione verticistica e controllo statale. E, con essa, provare a ricostruire quei legami comunitari scardinati dalla società industriale, per ridare un senso autentico alla proprietà collettiva, senza ridurla ad un suo simulacro sottoposto a mire speculative o affidato a qualche ente di gestione.
I monti Sibillini
Terre collettive e usi civici nelle Marche
Per cominciare vanno distinte due diverse situazioni: le “terre collettive” e le “terre gravate da usi civici”. Le prime possono essere in proprietà aperta, cioè appartenere a tutta la collettività stanziata su un determinato territorio, oppure in proprietà chiusa, cioè riservata solo a certi soggetti ovvero ai discendenti di sangue (in linea maschile fino a tempi recentissimi) degli antichi proprietari originari, con esclusione dei nuovi residenti. Negli usi civici invece la collettività può solo trarre delle specifiche utilità (pascolo, legna, prodotti del bosco, caccia e pesca, acqua) ma la proprietà del terreno è di qualcun altro, in tempi antichi del feudatario poi passata in genere al demanio comunale.
Mentre il dominio collettivo è un fatto sociale prima ancora che economico, l’uso civico non presuppone necessariamente una comunità, in quanto riferito ai singoli individui che possono soddisfare le proprie esigenze personali o familiari. Pur non sottovalutando l’importanza degli usi civici, con il loro corollario di lotte tra proprietari e titolari dei diritti, sono le terre collettive che ci possono suggerire una reale alternativa al modello economico dominante. Le forme più note e diffuse si trovano nell’arco alpino orientale, ma sono presenti anche nel resto della fascia alpina e in tutta la dorsale appenninica fino all’Abruzzo. Nonostante le similitudini, non sono assimilabili a un unico modello in quanto un grande peso hanno le specificità e le tradizioni locali. I nomi, poi, sono i più vari: regole (arco alpino orientale), favole e faole (Lombardia), vicinie e vicinanze (arco alpino centro orientale), consorterie (Val d’Aosta), partecipanze (Emilia e Romagna), comunaglie (Liguria), università agrarie (Lazio e appennino centrale), patriziati (Ticino).
Nelle Marche sono conosciute come comunanze: “le comunanze hanno un regime rappresentativo per le deliberazioni d’interesse generale e sono amministrate da due massari che fanno ricordare i due consoli dell’antichità; negli statuti è sempre una sapiente previdenza, affinché gli interessi dei singoli siano in armonia con quelli della collettività. Il dominio comune si tripartisce in bosco, pascolo e terra coltivabile. Nel bosco ognuno fa provvista del combustibile per consumo della famiglia e del legname da costruzione per usi domestici e agrari. Il pascolo si esercita nei boschi di alto fusto, nei cedui dopo il taglio, nei prati naturali dopo la falciatura, nei campi seminativi dopo il raccolto. Ogni famiglia ha in uso esclusivo, ma temporaneo, qualche appezzamento coltivabile. I prodotti dei tagli dei boschi e della falciatura dei prati si dividono tra i comunisti”[1].
Praticamente inesistenti lungo la fascia costiera fatta eccezione, là dove il monte arriva a picco sul mare, per quelle di Fiorenzuola di Focara e di Sirolo, le comunanze hanno avuto invece una notevole diffusione nelle zone altocollinari e nella montagna appenninica. Protette dall’inospitalità che la montagna riserva a chi non la sa vivere, queste forme di proprietà collettiva si sono mantenute e tramandate nei secoli, mentre laggiù, tra le fertili e accessibili pianure e in riva al mare, il progresso e la sua scienza economica modellavano un mondo di diseguaglianze. Nel 1884 l’Inchiesta Jacini registra nelle Marche 351 comunanze distribuite in 37 comuni, su una superficie di 22.000 ettari, oltre a 97 terreni con diritti d’uso. In buona parte erano localizzate nella zona montuosa dei Sibillini, tra le province di Macerata e Ascoli. Nell’anconetano vengono citate le comunanze di Arcevia, Fabriano, Genga e Sassoferrato, mentre in provincia di Pesaro si trovano concentrate nelle zone montuose meridionali, attorno ai monti Nerone e Catria (Apecchio, Cagli, Cantiano, Frontone, Pergola, Piobbico, Serra S. Abbondio, Urbania), occupando porzioni significative della superficie totale dei terreni, fino al 61% dei terreni comunali di Frontone e al 41,3% di Serra Sant’Abbondio (secondo una rilevazione di inizio anni ottanta del Novecento)[2]. Quasi assenti sono invece nel Montefeltro, per via di una differente storia politico-istituzionale.
Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia, 1898
Proprio questa differente distribuzione territoriale, nel confronto tra il Montefeltro e i Sibillini, ci consente di cogliere come la proprietà collettiva sia un fattore positivo sia per quanto riguarda il tenore di vita delle comunità locali, che anche in tempi difficili possono contare su una risorsa certa, sia per la salvaguardia dei suoli e dell’ambiente, sottratti per il bene comune alla dissipazione individualistica delle risorse: “nelle Marche esistono due montagne; una, particolarmente ed uniformemente povera e dissestata: quella montefeltrana, la quale, fra le altre sue specificità, fa registrare anche quella di essere priva di proprietà collettive; un’altra a discreta tenuta ambientale e con un tenore di vita per certi aspetti migliore di molte aree collinari ed urbane: e questa coincide con la montagna maceratese ed ascolana, fortemente connotata dalla presenza delle comunanze e dalla cultura ecosistemica delle comunità locali che le hanno difese e conservate”[3].
D’altra parte le proprietà collettive non rappresentano isole felici aliene dai mali di questo mondo. Avidità ed egoismo, laddove il vivere comune si degrada, portano alla necessità di regolamenti prescrittivi, forme di controllo, multe e guardie campestri. Oltre all’attacco dei notabili esterni che minano confini e diritti, le comunanze devono fronteggiare anche le conflittualità interne, con gli utenti più agiati che acquisiscono la forza per piegare a proprio vantaggio le regole tradizionali. Non che con questo si voglia avvalorare la tesi della “tragedia dei beni comuni”, sostenuta dall’economista Garrett Hardin e dai suoi epigoni, secondo la quale gli individui sarebbero incapaci di gestire beni comuni in quanto a prevalere è sempre l’interesse del singolo, con la conseguenza dell’inevitabile esaurimento delle risorse qualora non intervengano regole di buona amministrazione imposte dall’esterno[4]. Se non vogliamo chiamare in causa Elinor Ostrom, economista di ben altra levatura che ricevette il premio Nobel sostenendo tesi esattamente opposte, basta guardare le tante storie di autogestione dove la condivisione prevale sulla prevaricazione. E poi, in fondo, nell’improbabile ipotesi che avesse ragione Hardin, in confronto alla tragedia del tempo presente, non avremmo davvero nulla da perdere.
Il monte Acuto visto dal monte Catria
Breve storia di “un altro modo di possedere”
Le comunanze nascono in tempi antichi, certamente pre-romani: ab immemorabili si legge nei primi atti scritti. Per molti secoli hanno dovuto fare i conti con la permanente ostilità da parte dei poteri costituiti e dell’ordine giuridico dominante e resistere al variare degli ordinamenti politici e sociali, anche facendo dell’isolamento montanaro la propria forza.
I Romani tendevano a non sprecare denaro e legioni per imporre la loro legge in queste zone impervie, poco abitate, poco produttive: “col loro pragmatico buon senso – scrive Joyce Lussu – avevano capito che non conveniva spingere alla disperazione e alla guerriglia le comunità che vivevano nei fortilizi naturali della montagna, con una padronanza del terreno che avrebbe messo in difficoltà anche un esercito molto agguerrito. Per cui, nelle Marche e altrove, si contentavano di ghettizzarle circondandole a valle con solide e fedeli colonie, e spesso non si preoccupavano nemmeno di pretendere il versamento di tasse, che sarebbero state comunque assai scarse e faticose da riscuotere”[5].
In epoca medievale le proprietà collettive cominciano a perdere i primi pezzi. Non è facile per le comunità resistere alle mire di feudatari, principi, comuni e signorie e se in alcuni casi mantengono tenacemente la propria autonomia, in altri in cambio di protezione assoggettano se stesse e le proprie terre al signore, al comune o all’autorità ecclesiastica, rimanendo con in mano il solo diritto d’uso delle stesse. È d’altra parte in questo periodo che si iniziano a raccogliere in forma scritta le norme consuetudinarie poste a fondamento delle comunità locali. In età moderna gli Statuti tramandano le regole, spesso assai dettagliate, sull’uso dei beni comuni e ciò che si era salvato delle comunanze riesce a mantenere la propria specificità mentre il volto agricolo delle Marche viene modellato dal regime mezzadrile che pervade e disegna l’intero territorio regionale, con i suoi contadini sottomessi al proprietario terriero e al fattore, attaccati con la propria famiglia al podere, dediti al lavoro e, più tardi, perfino orgogliosi di star meno peggio del bracciante.
Più in generale, lungo il corso dei secoli il processo di affermazione del modello capitalista in agricoltura va privando la tradizionale economia contadina dei diritti comunitari sulle terre e troverà il suo compimento quando riuscirà a gettare sul mercato una classe di proletari senza terra, adatti al funzionamento della fabbrica moderna. Se fino al Seicento permane in larga parte l’antica autonomia e le comunanze godono ad esempio di totale franchigia fiscale, successivamente l’aumento delle imposte è una delle leve per intaccare l’uso collettivo delle risorse: per farvi fronte si affittano i pascoli, si vende la legna, si spartiscono tra privati le terre agricole più fertili, si compromettono porzioni di bosco pur di coltivare e monetizzare.
Comunanze in provincia di Pesaro e UrbinoComunanze in provincia di Ancona
A livello organizzativo, fino a metà Settecento tutto il potere decisionale è nelle mani dell’assemblea degli utenti (solo in casi eccezionali le deliberazioni vengono fissate dal notaio) poi, nel secolo successivo, la fisionomia cambia: la parola d’ordine diventa razionalizzare, la gestione burocratica e fiscale si complica, necessitando di nuove figure, istruite, che verbalizzino le sedute, tengano i libri contabili, regolamentino gli affitti e che man mano acquisiscono potere a scapito degli organi di autogestione democratica. Ecco nascere un vero e proprio corpo burocratico presto egemonizzato dalla borghesia cittadina. D’ora in poi, di fatto, le assemblee si limiteranno a eleggere gli amministratori: “a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, alle assemblee degli utenti si sono sovrapposti organi ristretti con poteri di decisione e gestione, e gli affari relativi ai beni collettivi non si decidono più nelle adunanze plenarie sui prati e sotto i faggi di montagna, ma dai vertici amministrativi nelle residenze municipali e nelle case cittadine”[6].
La cultura giuridica ottocentesca affonda il colpo di grazia sulle proprietà collettive. Se la legge serve a codificare i rapporti di forza sociali, facendosi specchio di una società liberale e liberista, il destino della proprietà collettiva non può che essere l’emarginazione giuridica e ancor prima ideologica. Un’avversione verso comunanze e istituti simili, come ammette l’economista Ghino Valenti, dettata “dalla paura, diciamolo senz’ambagi, di fare una concessione, di cui il socialismo possa in avvenire giovarsi per raggiungere i suoi sconfinati ideali”[7].
La civiltà del diritto generata dalla Rivoluzione francese si incentra infatti sulla sacralità della proprietà privata individuale. La dimensione collettiva è respinta in quanto perturbatrice dell’ordine politico su cui si regge lo spirito del tempo e la presenza di consuetudini d’uso da parte della popolazione locale sui terreni viene vista come un retaggio di organizzazione feudale e un ostacolo alla moderna politica agricola. Lo smantellamento della proprietà collettiva prosegue con la legislazione civile napoleonica di inizio Ottocento, volta a ricondurre in proprietà comunale, amministrata dal Municipio, tutti i terreni fino allora goduti autonomamente dalle collettività. Per quanto riguarda i territori storicamente sottoposti allo Stato della Chiesa, come le Marche, grava nel 1801 il motu proprio di Pio VII per la demanializzazione e vendita dei beni collettivi, che però riesce solo marginalmente a intaccare i territori delle comunanze, anche per via della vigorosa resistenza messa in opera dalle comunità locali: “gran parte del brigantaggio attivo sulla montagna ascolana fra età napoleonica ed unificazione nazionale è motivato, fra l’altro, proprio dalla volontà di difendere comunanze o usi civici”[8].
Dal momento dell’unificazione italiana lo smantellamento prosegue inesorabile. Durante i lavori per l’Inchiesta Jacini (Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola) diverse rappresentanze comunali chiedono senza mezzi termini al regio commissario “di tagliare alle radici l’antica pianta e di far sparire le comunanze insieme coi diritti d’uso […] invocando dottrine di economia politica allora indiscusse, e l’interesse dei loro bilanci”[9]. Il concetto è ribadito dallo stesso Stefano Jacini nella relazione finale dell’Inchiesta in cui chiede al ministero “che venga affrettata la liberazione completa, non solo di nome ma anche di fatto, della proprietà rurale dai vincoli e gravami che la inceppano in più modi”[10]. Nella smania di abolire le collettività che permea la cultura giuridica del periodo va detto che si registra qualche eccezione tra giuristi, economisti e sociologi eterodossi, i quali riconoscono almeno il diritto di esistenza a queste forme alternative di proprietà, sempre, ben inteso, che non mettano in discussione il sistema generale della proprietà capitalista. Così ad esempio, viene fuori il provvedimento del 1894 sull’Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio, presto reso inefficace, che in sostanza riconosceva la legittima esistenza della proprietà collettiva riconducendola sotto la tutela dello Stato.
Si è ormai capito che il dominio totalitario dello Stato e del mercato avanza a grandi passi, non risparmiando neppure quelle terre appenniniche che l’isolamento aveva protetto nei secoli. La legge fascista del 1927 sul “riordinamento degli usi civici” pretende di uniformare in un unico calderone situazioni e tradizioni diverse per cancellare tutto con un solo colpo di mano, anche se nella pratica le nuove figure dei Commissari “per la liquidazione degli usi civici” riusciranno a liquidare ben poco. Più tardi, con le “leggi sulla montagna” del 1952, 1971 e 1994 e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, la strategia dei poteri dominanti si affina non puntando più alla brutale soppressione dell’anomalia ma al suo recupero all’interno dell’ordinamento, come istituti tradizionali da tutelare, salvaguardare e valorizzare economicamente.
Terreni sul Monte Catria
Comunanze senza comunità
Ingabbiare quegli antichi assetti collettivi e comunitari nel costume troppo stretto del sistema politico moderno, facendo calare dall’alto forme giuridiche che appartengono a una cultura estranea e nemica, è un’operazione impossibile se non snaturandoli, ma necessaria all’autorità pubblica per esercitare forme di controllo.
Come dicevamo in apertura, la proprietà collettiva ha senso fintanto che esiste una comunità legata da un vincolo solidaristico e spontaneo, ma nel momento in cui viene a perdersi il legame con quegli specifici uomini e donne per fare riferimento a un cittadino in astratto, essa smarrisce il suo valore sociale. Nel mondo della merce la comunanza diventa un’azienda agro-silvo-pastorale che di valore conosce solo quello dei registratori di cassa, come se la sua giustificazione stesse nella produttività (ambientale, turistica, economica) che dimostra con una oculata gestione imprenditoriale. Le terre non più direttamente utilizzate vengono sfruttate magari affittandole a grandi allevatori o a industrie del legname ed ecco che la montagna casca dalla padella dell’abbandono alla brace dello sviluppo capitalista che ne fa mera appendice delle aree urbane. Quando, poi, si inizia a pensare alla valorizzazione dei territori come nicchie gastronomiche il cerchio si chiude: le loro tipicità le ritroveremo esposte sugli scaffali delle neomoderne boutique del gusto.
Il lago di Pilato sui monti Sibillini
Bibliografia:
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“Le forze per impedire il tentativo di rinascita del fascismo esistono purché agiscano e facciano sentire il loro peso. Non è sufficiente dire che la storia non si ripete. È vero, non si ripete mai nelle stesse forme, negli stessi modi, ma se si lasciasse fare e non si lottasse con la giustezza e la decisione necessarie, mirando a precisi obiettivi, potrebbe ripetersi anche in peggio”.
Pietro Secchia
Pesaro, 1975 circa
Per noi che avevamo conosciuto i partigiani che operavano nella nostra zona, avevamo udito dalle loro voci i racconti della guerra ai nazifascisti, percorso le valli e i sentieri dove operavano le brigate leggendarie (la quinta Garibaldi e la Lugli), attraversato i luoghi delle grandi battaglie di Valpiano, Vilano e Monte dei Sospiri, per noi giovani comunisti, l’antifascismo non fu soltanto un valore ideale, fu anche un modello organizzativo.
In Italia, dopo la strage di piazza Fontana, vi furono anni di bombe e tentativi di colpi di stato a ripetizione. Per contrastare quella strategia, il Partito comunista mobilitò tutto il suo apparato, legale e non. Anche noi, seppur giovanissimi, collaborammo con l’apparato illegale del partito. Allora, nessuno immaginava che quell’esperienza avrebbe segnato in modo indelebile il nostro agire. Prima che il partito ci epurasse per estremismo e nell’attesa dell’arrivo dei carri armati, avevamo creato una sorta di struttura clandestina. Niente di straordinario per dei ragazzi di sedici anni: avevamo attrezzato la cantina della nonna di una nostra compagna che viveva altrove con una macchina per scrivere, un ciclostile, una cassetta per le medicazioni, lo schedario con le foto e le informazioni sui fascisti nostrani, le forze dell’ordine e le varie catene di comando. Infine vi avevamo nascosto l’immancabile piede di porco con cui regolarmente, quasi ogni notte, smontavamo la bacheca del Fronte della gioventù.
In quegli anni bui, si diceva che le Marche sotto il profilo dello squadrismo fascista erano tutto sommato una regione tranquilla. Si citavano gli episodi più clamorosi come casi isolati. I fascisti locali erano visti come incapaci di provocazioni di alto livello, perché erano pochi e non sufficientemente militarizzati. La nostra regione del resto, viste le amicizie, coperture e complicità, era spesso usata dai fascisti come retrovia, come un posto sicuro e tranquillo dove trascorrere la latitanza lontano da ricerche e sguardi indiscreti.
In realtà le provocazioni fasciste furono abbastanza numerose. Ad Ascoli, per esempio, nei primi anni ’70 vi fu tutta una serie di attentati al tritolo, vi fu poi l’incendio dell’Università di Urbino nel ’72, in quello stesso anno il ritrovamento di un arsenale Gladio a Camerino e l’anno successivo spedizioni punitive contro sindacalisti e operai di Ancona. Vi fu poi, sempre ad Ancona, l’attentato al plastico firmato Ordine Nero contro gli uffici dell’esattoria comunale, per finire con il ritrovamento nel gennaio 1974 dell’ordigno inesploso che avrebbe dovuto far saltare il treno di pendolari sulla linea Ancona-Pescara. L’imprevisto transito di un treno merci straordinario fece saltare i detonatori che per fortuna non riuscirono a innescare l’esplosione.
Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975
Nella provincia di Pesaro, l’impegno principale dei fascisti locali erano l’organizzazione di campi paramilitari durante l’addestramento estivo della brigata Folgore sul monte Carpegna, oltre alla gestione dell’aeroporto di Fano dove venivano insegnati ai camerati i rudimenti del paracadutismo. Gli episodi di provocazione più rilevanti furono senza dubbio il già ricordato incendio dell’Università di Urbino (anche se non fu mai chiarito se a provocare l’incendio furono i fascisti assediati o i compagni assedianti) e il lancio di un ordigno incendiario all’interno del Circolo ARCI di Fano situato nel seminterrato sotto la sede del PCI, in via De Petrucci 18.
Dal 1975, dopo l’assassino del compagno Claudio Varalli a Milano, l’aria cambiò: l’agibilità politica ai fascisti fu impedita con la “forza”. Gli episodi che più di altri contraddistinsero quel periodo di antifascismo militante furono il tentativo d’impedire il comizio del missino Rubinacci a Pesaro, da cui scaturirono scontri e tafferugli con la polizia e, nella primavera del 1976, l’occupazione di una televisione privata fanese (Tele Fano), quando un pugno di giovani compagni armati di sassi e manici di piccone impedì la registrazione dell’appello elettorale del segretario del MSI locale, che in quell’occasione si era presentato scortato da un gruppo di giovani camerati e dai celerini del battaglione Senigallia. A Fano, dove operava il gruppo di fascisti più numeroso e aggressivo dell’intera provincia, scontri e aggressioni furono numerosi. L’episodio principale rimane l’assalto da parte dei compagni al bar Beaurivage in zona Lido, abituale ritrovo estivo dei fascisti locali i quali, durante una festa studentesca, avevano violentato una giovane ragazza. Dopo quest’ultimo episodio di antifascismo militante, i camerati nostrani sparirono definitivamente dalla scena politica della città…
Oggi per essere antifascisti non basta avere in tasca la tessera dell’ANPI o andare con la memoria al ventennio del secolo scorso. L’orrore del fascismo non furono solo le leggi razziali e l’entrata in guerra come sembra indicare un devastante senso comune. Occorre per esempio avere ben chiaro l’obiettivo delle stragi degli anni ’70 e ’80, la strategia della tensione e la guerra a bassa intensità scatenata allora contro i partiti di sinistra, i sindacati e soprattutto i movimenti. Lo dimostra il filo nero che lega quegli anni ad oggi, ai “fascisti del terzo millennio” che ritroviamo sistematicamente connessi con le reti della criminalità organizzata. Oggi i fascisti sono spesso utilizzati come forza d’urto, lasciata pascolare in pace nel mondo degli affari sporchi, dai quartieri alle curve, utilizzando la leva del razzismo e della xenofobia per la penetrazione e il controllo del territorio.
In una situazione di crisi economica, sociale, morale, politica come quella in corso, la funzione dei fascisti può trovare delle accelerazioni improvvise ma non casuali. Se c’è il vuoto politico e ideologico nella società e il conflitto sociale stenta a delinearsi come fattore di emancipazione, aggregazione e indicazione di alternative, questo vuoto può essere riempito da chi ha più soldi, uomini svelti a menare le mani e slogan semplici ed efficaci. È per questo motivo che occorre, soprattutto oggi, concentrare l’intervento politico sul territorio, nelle scuole, nei quartieri, nelle pieghe più incattivite dell’esclusione sociale. Questo vuoto è uno spazio che deve assolutamente essere riempito dall’antagonismo sociale, per sottrarlo ai fascisti e trasformarlo in un progetto di emancipazione.
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 presenti nella provincia di Pesaro e Urbino erano caratterizzate da una forte matrice operaista. Più o meno tutte avevano costituito una sorta di commissione operaia. Davanti alle fabbriche si appendevano in continuazione striscioni e tazebao (manifesti), ai cancelli si distribuivano volantini e s’improvvisavano comizi.
A Pesaro le fabbriche più organizzate erano le metalmeccaniche Benelli Moto e Morbidelli (macchine per il legno) e i cantieri navali Gennari. Quando la FIOM proclamava lo sciopero, al suono delle sirene migliaia di tute blu uscivano dai luoghi di lavoro per riempire piazza del Popolo e bloccare la città. A Fano era presente un’altra forza molto combattiva: i pescatori. Gli scioperi dei pescatori fanesi furono momenti memorabili della lotta di classe, l’ultimo avvenne nei primi anni ’80 e riguardava il rinnovo del contratto di lavoro, durò circa una quarantina di giorni e strappò agli armatori uno dei contatti della pesca ancora tra i più avanzati d’Italia. Alla proclamazione dello sciopero veniva tirata una catena o una calomba (altro non è che una grossa gomena con anima d’acciaio) tra i due moli in modo che nessun peschereccio potesse uscire e se qualche equipaggio di crumiri accendeva i motori per tentare di forzare il blocco, gli altri, con maniere alquanto spicce e qualche tuffo fuori stagione, costringevano i malcapitati a desistere.
Ci furono diverse lotte importanti, come quando nella seconda metà degli anni ’70 i padroni volevano chiudere la Cassese di Mondolfo. Lo sciopero e l’occupazione della fabbrica permisero a 250 operai di salvare il posto di lavoro. La madre di tutte le battaglie operaie fu però, senza dubbio, quella condotta in una fabbrica di dimensioni modeste, il calzaturificio Serafini, uno dei massimi esempi dell’affermarsi del “modello marchigiano” di frantumazione della grande industria e decentramento produttivo. All’interno del calzaturificio lavoravano circa un centinaio di operai, per la maggior parte donne, mentre gli uomini fungevano principalmente da capisquadra o da sorveglianti. I Serafini erano una vecchia famiglia fanese legata al fascismo dei bei tempi andati. Gestivano la fabbrica con il pugno di ferro. Fino alla fine degli anni ’60 gli operai erano pagati a cottimo, i turni erano di dieci ore ed erano costretti a lavorare anche il sabato fino a mezzogiorno. Inoltre erano in vigore le multe come nelle fabbriche dell’Ottocento: se durante la lavorazione un’operaia rovinava un pezzo di cuoio, il valore del pezzo le veniva decurtato dalla paga. Per modificare queste condizioni gli operai del calzaturificio, ma soprattutto le operaie, iniziarono a lottare fin d’allora.
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Nella seconda metà degli anni ’70 per una mera speculazione edilizia, dato che la fabbrica si trovava dentro le mura della città, i proprietari decisero di chiudere, licenziare e vendere l’immobile. Gli operai si mobilitarono in massa contro quella chiusura. Fu innalzata una tenda in piazza XX Settembre, che divenne il centro della mobilitazione e della propaganda. Lo sciopero durò una cinquantina giorni ma si concluse con una sconfitta, la fabbrica chiuse e gli operai vennero licenziati. A dar manforte a quella lotta di resistenza si mobilitarono tutti i gruppi della sinistra allora presenti in città (Democrazia proletaria, Lotta continua, Organizzazione anarchica marchigiana e perfino la Comunità dei preti operai fanese).
Nonostante la sconfitta, quell’esperienza di lotta dura e senza quartiere rappresentò il momento più alto ed esaltante del conflitto di classe; la prima vera saldatura tra quelle donne e uomini che costituivano la base operaia più emancipata e i gruppi nati dalle lotte studentesche che da qualche tempo agivano in città.
Resistenza e attualità eretiche. Gherardo Segarelli, Fra Dolcino e i Fraticelli marchigiani
Di Cristiano Ceccucci
Quando vedrete i frati procurare le cose temporali, al di là del quotidiano bisogno del loro corpo, e cercare pecunia o denaro per sé o per costruire i loro luoghi e le loro chiese, oppure ricevere da voi testamenti e legati, sotto qualsiasi specie o maniera, sappiate che allora sono ingannati e sedotti, perché i frati minori sono stati mandati da Cristo, per mostrare, più con le opere che con le parole, la somma umiltà e povertà.
Angelo Clareno
La storia che mi accingo a riportare (per sommi capi, perché vasta è la vicenda) parla di due eretici, da hairesis, eresia, cioè “scelta”: Gherardino Segarelli e Fra Dolcino. Il primo fu il fondatore, nell’anno 1260, del movimento dei Fratelli Apostolici e fu arso sul rogo il 18 luglio dell’anno del Signore 1300 in quel di Parma, per volere di papa Bonifacio VIII. Il movimento da lui fondato si definì dei Pauperis Christi, dei Poveri in Cristo, rifacendosi alla vita di Gesù e dei primi apostoli che nulla avevano posseduto e, in definitiva, a una chiesa povera, estranea alle ricchezze e alle pastoie del potere. Il secondo, Fra Dolcino, originario probabilmente di Prato Sesia nel novarese, fu il suo successore. Fu “capo” spirituale e militare del movimento durante la guerriglia che coinvolse le masse contadine della Valsesia e che si protrasse dal 1305 al 1307 quando, il 1 giugno, sotto papa Clemente V, anche lui fu arso sul rogo a Vercelli. Stessa sorte toccò alla sua compagna Margherita da Trento che fu arsa a Biella (o a Vercelli) e al suo luogotenente Longino da Bergamo, in quel di Biella.
Tra la seconda metà del XIII secolo e la prima metà del XIV si sviluppa in Italia (anche nelle Marche con le figure di Pietro da Macerata che cambiò nome in Fra Liberato e Pietro da Fossombrone, conosciuto come Angelo del Chiarino o Clareno, fondatori della congregazione dei Poveri eremiti di Celestino) un vasto movimento ereticale che mina alle radici il potere costituito, non solo quello religioso esercitato da una Chiesa e un clero corrotti, ma anche quello sociale e politico espresso dai vari signori e potentati locali. Nel “mare magnum” dello scenario politico, religioso e sociale del loro tempo, gli Apostolici interpretano in maniera pubblica e consapevole i principi di un egualitarismo comunistico e di una rivoluzionaria militanza che sconfessa la legittimità di ogni ordine religioso e politico costituito.
Spiritualismo, misticismo, nomadismo, egualitarismo, libertà sessuale furono i tratti salienti di questo movimento, che si tradussero nella scelta di assoluta povertà e nel rifiuto di qualsiasi gerarchia o compromesso con le autorità religiose e istituzionali. La sua critica radicale verso l’ordine costituito si salderà infine con le rivolte armate delle masse contadine e montanare dell’alta Valsesia, spinte dalla speranza nell’avvento di una nuova giustizia, una nuova Chiesa e una nuova società. L’epilogo sarà cruento. Le rivolte sedate, i Fratelli Apostolici massacrati e dispersi, Fra Dolcino arso al rogo assieme ai suoi compagni.
Fra Dolcino, litografia di Michel Doyen
Che cosa è rimasto, nel secolo appena trascorso e in quello da poco iniziato di questa esperienza radicale? Qual è l’attualità della loro Resistenza? Quale il loro messaggio? È rimasto molto, direi, se si vanno a vedere i richiami e gli accostamenti a questa vicenda nei secoli successivi.
11 agosto 1907: a seicento anni dal rogo del frate eretico (fratris dulcini heresiarche), su esplicita richiesta del movimento operaio socialista del biellese, richiesta fatta propria dal prof. Emanuele Sella, economista con trascorsi nel movimento socialista, viene eretto un obelisco di dodici metri sul monte Massaro alla presenza di oltre 10.000 persone per la maggior parte operai biellesi e della Valsesia. Nel 1927 l’obelisco viene abbattuto a cannonate dai clerico-fascisti. Più tardi, la vicenda degli Apostolici si lega fortemente anche alla storia della Resistenza partigiana che si svolge in quelle zone di montagna. Basta infatti leggere la “Dichiarazione di Chivasso” dei rappresentanti della Resistenza della Val d’Aosta e delle valli valdesi per ritrovare, nella lotta delle società alpine per salvare la propria identità, la stessa ispirazione delle vicende dolciniane. Nel 1974, a seicento anni dall’ultima condanna degli Apostolici (Sinodo di Narbona, 1374), viene inaugurato il cippo a Fra Dolcino sui ruderi dell’obelisco abbattuto. Partecipano all’iniziativa, tra gli altri, Cino Moscatelli, comandante partigiano, Dario Fo e Franca Rame; nasce in quell’occasione il Centro studi dolciniani. Nel 1988, la sinistra indipendente di Novara propone di erigere una statua a Fra Dolcino nella centralissima piazza Martiri al posto di quella a Vittorio Emanuele II. La proposta vuol essere una provocazione e un modo per contribuire a far conoscere le vicende dolciniane. Ma ancora più attuale è la ribellione valsesiana. Essa infatti ci parla della “sensibilità dei montanari non rassegnati ad accettare una montagna colonizzata, ridotta a squallida periferia per le seconde case di chi, nei grossi centri della pianura, detiene il potere politico ed economico; per questo quella rabbia remota dà voce anche alla nostra, alle soglie del terzo millennio” (Tavo Burat).
Quindi qualcosa del sogno utopico di Gherardino Segarelli e Fra Dolcino è rimasto e non va rigettato, tanto meno dimenticato. L’utopia dolciniana (“utopia” = non luogo) non ci parla di un “luogo che non c’è”, ma di un “luogo che non c’è ancora”. Nessuna disillusione deve indurci a rinunciare a credere che “un mondo migliore è possibile” e alla speranza di cambiare le cose e le regole del gioco. E perciò, nel grande marasma della modernità e di questo secolo, c’è chi pensa come unica possibilità dell’agire politico e sociale che occorra rovesciare la logica dei valori dati. Forse per queste persone, per gli illusi e i sognatori, la dispersione e la repressione degli Apostolici, i roghi di Segarelli e di Dolcino, di Margherita e Longino, avvenuti più di settecento anni fa, hanno ancora un significato e molto da dire.
Obelisco a Fra Dolcino del 1907
… alle Marche
Come ho accennato, anche nelle Marche tra la metà dei secoli XIII e XIV fioriscono i movimenti ereticali.
Alla morte di Francesco d’Assisi, l’ordine da lui fondato si divide sulla base di due posizioni estremiste, quella dei “conventuali” e quella degli “spirituali”. Il dualismo che le ispirava si incentrava sulla scelta tra povertà e non povertà. I primi volevano, per così dire, una “revisione” della regola dettata da Francesco per renderla meno severa e improntata a una maggiore apertura come, ad esempio, la possibilità di accettare le donazioni e di avere nel convento la propria dimora stabile. I secondi, rifacendosi a Gioacchino da Fiore, vedono in Francesco l’inizio di una nuova era dello Spirito, vivendo in estrema povertà e senza fissa dimora. Da questa crisi del francescanesimo discenderanno in linea diretta gli Apostolici di Gherardo Segarelli prima, e di Fra Dolcino poi.
Nel 1274 papa Gregorio X si era deciso a togliere il voto di povertà a tutti gli ordini mendicanti, con conseguente dispersione della corrente più radicalmente legata a “sorella povertà” e una riorganizzazione conventuale di tutto il movimento francescano all’interno dei centri urbani. La reazione degli “spirituali” fu inevitabile e scoppiò inizialmente proprio nelle Marche. La Regola dettata da Francesco, alla luce del suo testamento, doveva essere osservata alla lettera. Dal rifiuto della povertà sarebbero infatti nate tutte le insidie e la perdizione dell’anima. Questa concezione non poteva essere ben vista dall’ordine costituito, dal momento che minava alla radice tutto l’apparato gerarchico della Chiesa cattolica: papa, curia, vescovi, preti ecc. Iniziarono così le persecuzioni della frangia spirituale da parte dei papi restauratori del potere temporale della Chiesa: Bonifacio VIII (che farà condannare Segarelli al rogo), Clemente V (che condannerà Dolcino, Margherita e Longino) e Giovanni XXII.
La corrente più rigorista dell’ordine dei Frati Minori, i cosiddetti Fraticelli ribelli alle gerarchie ecclesiastiche e ferventi sostenitori della povertà evangelica, si diffonde nelle Marche ruotando attorno alle figure di Pietro da Macerata, che cambiò il suo nome in Fra Liberato, e Pietro da Fossombrone, meglio conosciuto come Angelo del Chiarino o Clareno. Molti sono i seguaci di quest’ordine che possiamo desumere da fonti agiografiche del Trecento: messer Bolognino da Mercatello sul Metauro, Corrado da Offida, Vincenzo da Camerino, Francesco da Mondavio e altri che completano la geografia della regione.
Tralasciando la vita e le opere di Angelo Clareno (per questo si rimanda ai testi citati in bibliografia e al Dizionario biografico degli italiani, v. 3), vorrei concentrarmi sul movimento degli “spirituali”. Un movimento, come afferma il Clareno stesso, costituito da seguaci poveri, con rituali più individuali che collettivi incentrati su libri piccoli e austeri in contrasto ai codici miniati con immagini e fregi sfavillanti. Il loro misticismo era vissuto in chiese povere e disadorne, frequentate dagli incolti villani del contado e da vagabondi.
La radicalità dei fraticelli marchigiani fu però un fenomeno di resistenza passiva, al contrario di quello che abbiamo visto negli Apostolici del periodo dolciniano. La moderazione fu il tratto che maggiormente caratterizzò questo movimento numericamente non troppo rilevante e piuttosto disperso nel territorio della Marca. Interessanti sono i modi con cui vengono dipinti dal potere della chiesa: pauperculos pediculosos (poveri pidocchiosi), eretici e lussuriosi, depravati, dediti a turpi riti, atti a compiere orge notturne; se nasceva qualche bambino era d’uso l’infanticidio, il corpo bruciato e le ceneri mischiate al vino da far bere ai seguaci.
Le Marche ospitarono quindi un movimento che anche se non contò grandi numeri ebbe molta importanza dal punto di vista spirituale e della radicalità delle scelte (uno dei due codici che ci consegnano alcune lettere del Clareno si trova oggi presso la biblioteca Oliveriana di Pesaro). Sulla base di fonti storiche, anche se molte ricerche devono ancora essere condotte, durante il XV secolo diversi luoghi continuarono a essere denominati con riferimento ai Fraticelli come, ad esempio, San Giovanni de’ Bichignani nei pressi di Casteldurante, l’odierna Urbania, che deve il suo nome ai poveri eremiti chiamati appunto Bichignani, cioè vestiti di pelli di becco. Non tutto quindi andò perduto se, nel XVI secolo e proprio nelle Marche, dalla corrente spirituale dei Fraticelli nascerà il movimento dei Frati Cappuccini, fondati dai fratelli Raffaele e Ludovico Tenaglia originari, guarda caso, proprio di Fossombrone, patria di Pietro, ovvero Angelo del Clareno.
Cippo a Fra Dolcino del 1974
Bibliografia
Dario Fo, Mistero buffo, 1969, spezzone dedicato a Fra Dolcino: https://youtu.be/XmB0KyljHLk (registrazione del 1977).
Luciano Canonici, Fra’ Angelo Clareno: un santo o un eretico?, Catanzaro, Ursini, 1996.
Francesco V. Lombardi, Misticismo e utopia nei “fraticelli” marchigiani alla luce degli scritti di Angelo Clareno, estratto da Il mondo delle passioni nell’immaginario utopico: giornate di studio sull’utopia, Macerata, 26-27 maggio 1995, Milano, Giuffrè, 1997, p. 156-173.
Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara, Roma, DeriveApprodi, 2002.
Fra Dolcino e gli Apostolici tra eresia, rivolta e roghi, a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti, Roma, DeriveApprodi, 2004.
Felice Accrocca, Un ribelle tranquillo. Angelo Clareno e gli spirituali francescani fra due e trecento, Assisi, Porziuncola, 2009.
Grado G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, 2. ed., Bologna, Il Mulino, 2011.
Tavo Burat (Gustavo Buratti), Fra Dolcino e Margherita. Tra messianesimo egualitario e resistenza montanara, Tabor, 2013.
Storia di Gaetano Lombardozzi, anarchico, marinaio e fabbro
Di Federico Sora
Gaetano Lombardozzi era solito organizzare scherzi agli amici. Ma quella volta fu lui la vittima e a quanto pare non la prese troppo bene. A fine Ottocento era emigrato come tanti negli Stati Uniti in cerca di una vita più dignitosa, per rendersi conto che anche lì gli sfruttati rimanevano tali. Era quindi rientrato in Italia, subito dopo la Prima guerra mondiale, per “fare la rivoluzione” nel grande fermento sovversivo del Biennio rosso. Ma le speranze sfumano e s’impone il fascismo. Lombardozzi ormai anziano, pieno di acciacchi e privo di mezzi di sostentamento riceve ogni tanto il sostegno di qualche dollaro inviatogli dai compagni rimasti oltreoceano. Per ricambiare decide di inviare loro una foto e così prende appuntamento con un amico fotografo. Dopo il primo scatto il fotografo dice che la foto non era venuta granché bene e invita Lombardozzi a rifarla con indosso una giacca che si trovava nello studio. Nella giacca, per uno scherzo architettato dai suoi amici, era stato appuntato il distintivo fascista! Il fotografo quindi, ricevuti gli indirizzi americani, assicura che lui stesso avrebbe provveduto a spedire la foto. Qualche sera dopo, in osteria davanti a una numerosa compagnia accorsa per l’occasione, il fotografo comunica a Lombardozzi di aver effettuato le spedizioni e gli mostra la seconda foto, quella col distintivo… Tutti i presenti ebbero parecchio da fare per trattenere Gaetano dall’ammazzare l’amico fotografo e per assicurargli che la foto spedita non era quella col distintivo fascista! (L’episodio è tratto da: Gigin Sperandini, “Gent sa la grasia: aneddoti fanesi”, Fano, 1976).
Gaetano Lombardozzi – Foto segnaletica
Gaetano Lombardozzi nasce a Loreto, in provincia di Ancona, il 24 maggio 1860 da Pietro e Michela Trebbi; coniugato e poi vedovo di Elvira Bartolini; marinaio e fabbro; anarchico.
La famiglia si trasferisce a Fano quando Gaetano ha due anni. Quasi tutti i Lombardozzi residenti a Fano provenienti dall’anconetano sono schedati come sovversivi nel Casellario politico centrale. Anche due figli di Gaetano diventeranno attivi militanti di sinistra: dopo la Prima guerra mondiale trovano lavoro nelle grandi fabbriche di Torino e aderiscono al Partito comunista; perseguitati dal fascismo emigrano in Francia, tra il 1936 ed il 1939 partecipano entrambi come volontari alle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola e successivamente alla resistenza, Alipio in Francia e Sante in Italia.
Per Gaetano i guai con la giustizia iniziano già a quattordici anni, quando nel settembre del 1874 insieme ad alcuni compagni è coinvolto in un furto di grappoli d’uva, per il quale viene condannato a due giorni di arresto. Dieci anni dopo, nel 1884, insieme ad altri marinai di due imbarcazioni (il trabaccolo Guerino e il Ricardo) è accusato di oltraggio alla forza pubblica e contravvenzione alle leggi sulla sanità marittima. Il gruppo di tredici marinai era infatti giunti in porto la notte del 7 settembre dopo quattordici giorni di pesca, ma nonostante le disposizioni sanitarie prevedessero prima dello sbarco una visita preventiva, non volendo i marinai rimanere in attesa tutta la notte sulla barca se ne erano tranquillamente tornati alle loro case, oltraggiando le guardie doganali.
Il carattere irruento di Lombardozzi gli causa una discreta frequentazione delle aule dei tribunali: il 31 dicembre 1887 è accusato di aver ferito il marinaio Antonio Montanari durante un diverbio scoppiato presso l’osteria Piccinetti; viene però dichiarato non luogo a procedere. Nel novembre dell’anno successivo viene fermato mentre cerca di entrare all’interno della cinta daziaria della città con dieci litri di vino presi all’osteria di Filomena Biagioni senza pagare il dazio; spalleggiato da altri anarchici si oppone alle pretese delle guardia daziarie e toltosi uno zoccolo dai piedi ne colpisce una in testa. Sarà poi condannato a un mese di prigione.
Numeri unici anarchici stampati a Fano nel 1906
Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento Lombardozzi alterna periodi in Italia e negli Stati Uniti. Secondo i registri dell’emigrazione di Ellis Island risulta approdato negli Stati Uniti l’11 maggio 1896 (motonave Spaarndam partita da Boulogne-sur-Mer, Francia), il 15 maggio 1901 (motonave Hohenzollern partita da Genova, insieme ad altri fanesi) e, seppur registrato con un dato di residenza inesatto, il 21 agosto 1904 (piroscafo New York partito da Southampton, Inghilterra).
Durante uno dei suoi rientri in Italia, nel giugno del 1894 partecipa a una manifestazione antimilitarista che termina con un duro scontro con le forze di polizia: la sera del 3 giugno mentre in piazza suonava la banda militare un gruppo di una ventina di giovani aveva inneggiato alla rivoluzione e gridato le frasi sovversive “abbasso Crispi!” e “viva De Felice!” (De Felice era stato condannato e incarcerato come promotore dei Fasci siciliani). Era quindi intervenuto il colonnello comandante del presidio militare, il quale era riuscito a bloccare Romolo Falcioni detto Pece e a consegnarlo a una guardia comunale. Grazie al pronto intervento dei compagni e alla colluttazione che ne era seguita, Falcioni era poi riuscito a divincolarsi. In quest’occasione le guardie segnalano Lombardozzi come il più attivo dei dimostranti, ma il procedimento penale non avrà esiti.
Dal 1904 risiede a New Haven (Connecticut), al 108 di Bank Street; in città esercita un piccolo commercio di generi alimentari mentre la famiglia, con cui rimane in corrispondenza, era restata a Fano. Dagli Stati Uniti, insieme ad altri compagni emigrati, non fa mancare le sue sottoscrizioni alla stampa anarchica fanese, in particolare per la nuova serie del periodico «In marcia» e per il numero unico «Largo alla verità». Quando nel 1907 muore (in Italia) sua moglie Elvira lasciando quattro figli piccoli lontani dal padre, i compagni fanesi si stringono a lui offrendo la loro solidarietà. Nel frattempo la polizia apre la scheda personale nel Casellario politico centrale, dichiarando che pur godendo di “buon nome” è un pericoloso ed esaltato propagandista delle idee anarchiche.
Vecchia Fano – Piazza XX Settembre
Nel 1910 si trasferisce in Carmine Street a New York, dove lavora presso il noto anarchico Vittorio Blotto, ma dopo pochi mesi rientra nel Connecticut, a New London, trasferendosi nel quartiere degli italo-americani di Fort Trumbull. Viene segnalato come sottoscrittore della «Cronaca sovversiva» di Luigi Galleani, oltre a continuare il sostegno economico della stampa anarchica fanese.
Secondo le fonti di polizia rientra a Fano il 21 luglio 1919, in seguito a un infortunio sul lavoro per il quale perde l’uso dell’occhio destro. Partecipa attivamente alla vita dei gruppi anarchici del primo dopoguerra e alle tensioni sociali del Biennio rosso. Nel giugno del 1920, durante la “rivolta dei bersaglieri” di Ancona, Lombardozzi e gli anarchici sono tra i protagonisti delle dimostrazioni che investono anche Fano, in un clima di rivolta, scioperi, scontri e incidenti. La sommossa nata dall’ammutinamento di un gruppo di bersaglieri di stanza ad Ancona, con il sostegno dei quartieri popolari e dei gruppi anarchici e repubblicani si era infatti presto estesa in altre città del centro-nord.
A Fano la notte del 29 rimane ucciso il carabiniere Tani, ma le indagini non riusciranno a stabilire se lo scontro a fuoco avvenne tra militari e rivoltosi oppure tra militari stessi che avevano scambiato un loro camion per un mezzo carico di sovversivi.
Gaetano è coinvolto nel procedimento penale aperto in seguito all’aggressione e alla confisca delle armi a due carabinieri di scorta a un treno destinato ad Ancona, bloccato alla stazione ferroviaria di Fano da una cinquantina di rivoltosi la sera del 28 giugno. Secondo i rapporti delle forze dell’ordine i principali responsabili erano ritenuti i fratelli Bruno e Alcide Ceresani (poi trasmigrati nelle file fasciste) accompagnati da altri dodici soggetti individuati non tanto tramite testimonianze dirette ma solo in base alla loro attività anarchica e alla loro presunta capacità di compiere azioni eversive. Lombardozzi verrà scagionato grazie a dei testimoni che affermeranno di averlo visto nello stesso orario dell’aggressione in un altro luogo, cioè nei pressi della sede dell’Unione marinai, il sindacato anarcosindacalista dei pescatori di Fano collegato all’Unione sindacale italiana.
Nel settembre del 1923, a sessantadue anni, è ancora oggetto di perquisizione domiciliare perché sospettato di detenere stampe sovversive. Le stampe non vengono trovate ma al loro posto saltano fuori alcune cartucce di rivoltella; Lombardozzi è quindi arrestato e rimane in carcere per alcuni giorni, al successivo processo viene condannato a due mesi e mezzo di prigione.
Sotto il regime fascista rimane in contatto epistolare con Errico Malatesta, che aveva conosciuto durante il suo giro negli Stati Uniti. Nelle carte sequestrate dopo la morte del leader anarchico, il nominativo di Lombardozzi è presente in quaderni, rubriche e appunti. Per via dell’età avanzata viene radiato nel 1929 dal Casellario politico, ma la vigilanza è prontamente riattivata quando nel 1933 le autorità sequestrano una lettera a lui diretta inviata dagli Stati Uniti dal fanese emigrato Arturo Ghiandoni. Nella lettera Ghiandoni comunicava che durante una festa di sottoscrizione per la stampa, i compagni anarchici degli Stati Uniti avevano deciso di raccogliere anche una somma a favore di Lombardozzi, spedendogli un assegno da trenta dollari (anch’esso sequestrato). Un episodio simile accade nel 1934, tanto che il comando della Milizia fascista di Pesaro segnala, certamente esagerando, che al Lombardozzi pervenivano con cadenza mensile somme di denaro dagli Stati Uniti. Da indagini esperite dal console comandante Italo Ingaramo, sembra che tali somme siano inviate dal Comitato internazionale per il Soccorso Rosso, dietro interessamento del suo compagno di fede Sabino De Stefano, calzolaio anarchico di Fano.
Nel 1935, ormai vecchio, privo di un occhio, carico di malanni e senza mezzi di sostentamento (i suoi figli sono nel frattempo emigrati in Francia) rivolge una richiesta al Duce per il dissequestro dei due assegni inviati dagli Stati Uniti e non ancora consegnati. Non si conosce l’esito di questa petizione. Muore a Fano il 4 luglio del 1936.
Gaetano Lombardozzi – Fascicolo del Casellario politico centrale
Fonti
Archivio centrale dello Stato, CPC, b. 2823, ad nomen. Pretura di Fano, Atti penali, fascc. n. 1/1875; 27/1882; 179/1884; 38/1888; 140/1888; 146/1894; 248/1923. Archivio di Stato di Pesaro (ASP), Sottosezione di Fano, ACF, 1894, cat. 16, classe 5, fasc. 3. ASP, Tribunale di Pesaro, Atti penali 1921, b. 1148, fasc. 123. «L’Agitazione», 3/1/1901; «In Marcia», 7/7/1906; «Largo alla verità», 13/10/1906; «Cronaca sovversiva», 30/3/1907; «In Marcia», 15/9/1912; «Pensiero e volontà», 1/9/1924 e 1/10/1924. Gigin Sperandini, Gent sa la grasia: aneddoti fanesi, Fano, 1976, p. 86, 107-109.