Con questo testo di Joyce Lussu (da Malamente #25) facciamo un salto nella storia antica dei nostri territori. Lo abbiamo ripreso, riducendolo e adattandolo, dalla sua “Storia del Fermano”, pubblicata nel 1970 (prima da Lerici, poi da Marsilio editore): un libro che Joyce Lussu aveva pensato per le scuole superiori e che era stato accolto quasi come una provocazione verso il modo comunemente accettato di “fare storia”. È un racconto che ci parla dei nostri antenati sovrapponendo alla freddezza delle fonti la passione della ricerca, con il cuore dalla parte giusta, quella ostile ai potenti di ogni epoca.
Il territorio dei Piceni (Pangea Comunicazione)
Chi erano i piceni?
Non si sa bene quando arrivarono (le ipotesi variano dal X al VI secolo avanti Cristo) né da dove. Sembra però, da quanto è lecito ricostruire dai reperti archeologici e dagli scarsi documenti, che i piceni venissero dalla Sabina, probabilmente dalla zona di Rieti, in cerca di terre fertili da coltivare. Era usanza normale che gruppi si staccassero dalle tribù originarie per cercare nuovi insediamenti, quando nei vecchi la terra era troppo sfruttata o troppo aumentato il numero delle persone. Queste emigrazioni avvenivano in primavera, per avere il tempo di seminare i cereali nella nuova sede e non erano spedizioni militari conquistatrici, ma pacifiche trasmigrazioni di contadini, che si muovevano in lunghi cortei con le donne, i bambini, le mandrie e le greggi, con i carri colmi di suppellettili e di attrezzi, con i simboli degli dei protettori e le insegne che indicavano l’identità della tribù. Giovani armati proteggevano il corteo da eventuali ostilità della natura e degli uomini; ma si preferivano le terre non contestate e la trattativa e l’accordo con le tribù incontrate lungo il cammino. Quello che appare certo, è che l’immigrazione dei piceni non avvenne estromettendo con la violenza le popolazioni che abitavano la zona in precedenza, ma mescolandosi ad esse e allargando l’area delle coltivazioni.
Dopo la saga del commissario Santacaterina – che speriamo non sia ancora conclusa –, il procuratore della Repubblica Mario Mandrelli è il protagonista del nuovo libro di Mario Di Vito. Due personaggi che combattono il crimine dallo stesso lato della barricata, lungo la riviera delle palme di San Benedetto del Tronto, ma assolutamente diversi l’uno dall’altro. Santacaterina è un delinquente prestato alla polizia, un’anima nera, tormentata, una canaglia di prima categoria. Mandrelli, al contrario, è il tipico uomo di Stato, ligio al dovere, tutto famiglia e tribunale. Il primo, seppur resti sempre uno sbirro, ha quel fascino noir che ci fa battere il cuore per lui; il secondo un po’ meno. D’altra parte le due storie non sarebbero neanche paragonabili: Santacaterina lo sbirro (edizioni Fila 37) è pura fiction, mentre Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate Rosse (Laterza) è una storia drammaticamente vera, un mix tra inchiesta giornalistica e saggio, avvincente come un romanzo ben riuscito.
Mario Di Vito – giornalista de “il manifesto” e anche collaboratore della redazione di Malamente – ricostruisce questa storia attraverso una pluralità di fonti: quelle classiche, come i giornali, le relazioni parlamentari e le testimonianze di chi c’era e ricorda qualcosa, chissà con quali deformazioni della memoria; ma anche fonti di altro tipo, inedite e uniche nel loro genere, che conferiscono al libro una spiccata originalità. I due Mario, Mandrelli e Di Vito, sono infatti nonno e nipote. Per questo la storia politica nazionale, riverberata nella provincia marchigiana, si intreccia in ultima istanza alle vicende familiari di un magistrato di sinistra con la fama di duro. Mario, il nipote, si è potuto avvalere della documentazione di lavoro del nonno – una «montagna di carte» ritrovate nella biblioteca di famiglia – unita alla storia orale ascoltata dalle voci dei parenti e al diario privato di nonna Loreta, che era solita annotare quotidianamente pensieri e fatti del giorno.
La storia ha per soggetto il sequestro e l’uccisione di Roberto Peci da parte delle Brigate Rosse. Alla metà degli anni Settanta, Roberto e il fratello Patrizio avevano partecipato alla fase embrionale di costituzione del movimento armato nelle Marche, ma mentre Patrizio era diventato un esponente di spicco dell’organizzazione terroristica, Roberto non aveva che preso parte a qualche azione di poco conto e aveva ben presto anticipato il “riflusso” di una generazione, mettendosi a fare lavoretti da antennista con una compagna e una figlia in arrivo.
Il 10 giugno 1981, a San Benedetto del Tronto, una squadra di quattro brigatisti sequestra in pieno giorno Roberto: lo terrà in custodia per cinquantacinque giorni e lo farà ritrovare cadavere in un casolare della campagna romana, crivellato da undici colpi. Uccidere Roberto serviva in realtà a punire Patrizio, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia ed era diventato il primo vero grande pentito della storia delle Brigate Rosse. Proprio mentre lo Stato progettava la “legge sui pentiti”, che avrebbe assicurato sconti di pena e benefici processuali in cambio di confessione e collaborazione, l’uccisione di Roberto serviva alle Brigate Rosse per lanciare un monito a tutti quelli che da allora in poi avessero accarezzato l’idea del pentimento. Una vendetta trasversale, in perfetto stile mafioso. Questo in estrema sintesi: le cose sono più articolate e complesse e le trovate ben illustrate in Colpirne uno.
Scimmiottando il peggiore spettacolo a immagine e somiglianza del nemico di classe, durante la detenzione in una “prigione del popolo” Roberto venne sottoposto a un “processo proletario” e strumentalmente accusato di essere lui stesso un infame. Lo sguardo basso sulle mani nervose, il sequestrato recita di malavoglia un copione preparato a tavolino, finché il suo carceriere e giudice proletario emana la sentenza: “condanna a morte” per “il traditore”. Il tutto videoregistrato e montato su sottofondo delle note dell’Internazionale: un documento che oggi, a compiere integralmente lo spettacolo, è visibile su Youtube.
Mario Di Vito segue giorno per giorno le fasi del processo che si apre cinque anni dopo, estate 1986, nell’aula bunker del carcere di Ancona. Lo fa attraverso gli occhi del nonno, il pubblico ministero incaricato dell’accusa, ma anche attraverso i patimenti di nonna Loreta e il suo ingenuo desiderio di tenersi fuori dalle grane lavorative del marito. Mandrelli esce vittorioso assestando un duro colpo all’organizzazione brigatista ormai incamminata sul viale del tramonto. Giovanni Senzani, il principale responsabile dell’affare Peci e mano assassina di Roberto, è condannato all’ergastolo; sarà definitivamente liberato nel febbraio 2010: non ha mai collaborato con l’autorità giudiziaria, non si è “pentito” della sua militanza brigatista per mercanteggiare benefici, ma si è dichiarato “rammaricato” per i danni e le vittime della stagione del terrorismo.
La storia di quella stagione è la storia del vicolo cieco in cui si è infilata una parte del movimento rivoluzionario che ha voluto farsi avanguardia armata e spingere lo scontro con lo Stato sul terreno esclusivamente militare. Un terreno segnato in partenza dalla sconfitta, che ha comportato l’abbandono della pratica rivoluzionaria di massa e del ventaglio di opzioni che questa poteva offrire, per chiudersi nelle cantine della clandestinità riducendo tutti gli altri a tifosi, fiancheggiatori o a spettatori passivi in attesa del telegiornale della sera.
Da qualche anno, via Arrigo Boito a San Benedetto del Tronto, dove fu compiuto il sequestro, è diventata Via Roberto Peci. Alla modifica toponomastica non sembra sia però corrisposta una parallela valorizzazione della memoria storica. Anzi, come nota l’autore che in conclusione offre uno spaccato di vita di una città che ben conosce, la storia di quegli anni, con le sue aspirazioni e le sue tragedie, è oggi oggetto di una rimozione sfrontata: «questa è la ricetta che la provincia riserva agli aspetti più dolorosi della propria storia».
Per fortuna, anche se ha conosciuto tempi migliori, non è ancora rimosso del tutto, nemmeno nella provincia dell’impero, il progetto rivoluzionario di autonomia ed emancipazione sociale, con i suoi valori da difendere, rinnovare e sperimentare, affinando le armi della critica radicale e lasciando al ricordo di un triste passato ideologie sclerotizzate e specialisti della guerriglia.
Nonostante la sua giovane età, l’Archivio storico della Federazione anarchica italiana, nato da una proposta del Congresso di Carrara del 1985, conserva cimeli e manoscritti provenienti da luoghi e tempi più remoti. Spesso sono stati conservati e tramandati da militanti anarchici che hanno donato all’archivio queste preziose testimonianze del passato.
Tra questi cimeli ci sono oggetti e manoscritti che
risalgono alla guerra civile spagnola, lettere che fanno parte della
corrispondenza di alcuni esponenti anarchici con importanti figure della
politica e della cultura italiana come Calamandrei, Pertini, Nenni e Salvemini.
I
reperti della guerra civile spagnola
Ad arricchire notevolmente l’ASFAI vi sono reperti e documenti della guerra civile spagnola appartenuti a Valentino Segata. Segata è un anarchico nato a Sopramonte (TN) nel 1892 e arruolatosi nella Colonna italiana Ascaso nel 1936, dove è al comando di una sezione di fucilieri. Dopo la conclusione della guerra spagnola, torna a Parigi. I suoi documenti furono custoditi dall’anarchico romagnolo Domenico Girelli, anch’egli combattente nella guerra civile spagnola, famoso per aver segregato nella loro caserma i carabinieri di Civitella di Romagna durante le insurrezioni della Settimana Rossa nel 1914.
Valentino Segata. Movimento libertario spagnolo in Francia.
Valentino Segata. Movimento libertario spagnolo in Francia. Documento CNT.
Valentino Segata. Lasciapassare, 1937.
Valentino Segata. Nomina a capitano del Reggimento Durruti, 1937.
Valentino Segata. Permesso di circolazione, 1937.
Valentino Segata. Certificato di trasferimento, 1937.
Volantino Rivoluzione spagnola, 1936
Valentino Segata. Documenti conservati presso l’Archivio storico della FAI (Imola-BO)
Domenico Girelli, nei giorni in cui si tenne il convegno del 1987 su Sacco e Vanzetti a Villafalletto (CN) consegnò a Massimo Ortalli, curatore dell’ASFAI, i documenti appartenuti a Segata. Tra questi documenti ci sono una tessera del 1937 della Confederación Nacional del Trabajo, documenti di identità, carte di circolazione, permessi e la nomina di Segata a Capitano di compagnia con le firme di Antonio Cieri, Emilio Canzi, Umberto Consiglio, Giuseppe Bifolchi e Gregorio Jover. Alcuni di questi documenti hanno il timbro della Divisione Francisco Ascaso.
Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alfredo Antomarini [QUI IL PDF]
Wilfredo Caimmi (Ancona 1925-2009) è stato un partigiano comunista. Uno dei tanti giovani che appena diciottenne scelse di stare dalla parte giusta e salì in montagna a combattere il nazifascismo; successivamente insignito della medaglia d’argento al valore militare. Nel novembre del 1990 fu al centro di un clamoroso fatto di cronaca di rilievo nazionale: ce lo racconta in questa intervista Alfredo Antomarini, amico e compagno di Wilfredo, che nel libro “Ottavo chilometro” (Ancona, il lavoro editoriale) ha ricostruito insieme a lui la storia partigiana di Caimmi e dei suoi compagni.
L’intervista – in uscita su Rivista Malamente n. 22 (luglio 2021) – è stata raccolta poche settimane prima che Alfredo Antomarini, per tutti Edo, ci lasciasse improvvisamente, il 17 giugno 2021, dopo una breve malattia. [Nota della redazione]
Alfredo Antomarini
Possiamo raccontare come Wilfredo diventa antifascista e i suoi primi passi da partigiano?
Wilfredo
nasce ad Ancona nel 1925, dunque nel 1943 è diciottenne, l’età considerata
idonea dall’organizzazione clandestina per essere destinati alla resistenza
armata. Al di sotto di questo limite non si reclutavano combattenti, tuttalpiù
gappisti, con funzioni di supporto.
L’episodio
che fa diventare Caimmi antifascista è legato al periodo del liceo scientifico.
A scuola era piuttosto bravo, aveva ottimi voti. Frequentava il primo anno. Un
giorno un professore indica due studenti, li invita a mettersi in fondo alla
classe e comunica loro che da domani non dovevano venire più a scuola. Visto
che non avevano compiuto nessuna cattiva azione, Wilfredo alza la mano e chiede
le ragioni di questa decisione. Il professore irritato lo invita a non
intromettersi e comunque afferma perentoriamente che, essendo ebrei, lo Stato
vietava loro la frequentazione scolastica. Di fronte alla contestazione il
preside convoca il padre di Wilfredo e rimarca l’atteggiamento indisciplinato
del figlio, che da quel momento diventa antifascista.
Il
fatto non sfugge all’organizzazione clandestina partigiana attenta a qualunque
segnale che potesse indicare dei giovani da cooptare, soprattutto i ragazzi che
facevano vita di strada, anche svelti di mano. E così Wilfredo e altri suoi
amici, divenuti anche loro partigiani, frequentano la scuola di pugilato del
maestro Fernando Cerusico, repubblicano e antifascista rigoroso: un vero
“maestro di vita”, che dà a quei ragazzi portati alla rissa di strada una certa
“disciplina”.
Intervista di Luigi ad Alessia Masini e Carlo Cannella [QUI IL PDF]
Dopo aver raccontato la scena hip-hop del nord delle Marche (Malamente #6, dicembre 2017), abbiamo deciso di fare un viaggio nel sottobosco punk per scoprire origini, storia e vicende di questo fenomeno musicale e culturale che dalla fine degli anni Settanta ha attraversato, in maniera forse anche inaspettata, la paciosa e sonnolenta tranquillità di questi territori.
Abbiamo intervistato Alessia Masini, ricercatrice in storia, studiosa in particolare del rapporto tra giovani e politica in età contemporanea, collaboratrice di Rai Storia e autrice e speaker del programma radiofonico Vanloon in onda su Radio Città Fujiko (Bologna). Alessia ha da poco pubblicato il libro “Siamo nati da soli: punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna, 1977-1984” (Pacini, 2019). Poi, per mettere a fuoco il punk marchigiano, abbiamo conversato con un testimone d’eccezione, Carlo Cannella, voce storica della scena punk hardcore italiana. Cresciuto ad Ascoli Piceno, ha fondato nel 1983 i Dictatrista, nel 1985 gli Stige, nel 1992 gli Affluente. Nomi che a qualcuno/a ricorderanno i tempi del walkman sparato nelle orecchie e l’energia del pogo sotto i più improbabili palchi. Nel libro “La città è quieta… ombre parlano” ha raccontato la storia di quell’umanità disagiata e sperduta nella foresta punk ascolana, schiumante rabbia di vivere; la quarta edizione è in uscita per Red Star Press.
E allora non ci resta che partire per questo viaggio nel “nostro” punk: in fondo, dal pogo al riot, il passo può essere molto breve.
Rivolta dell’odio (Ancona), Al Tuwat di Carpi, 1985 circa
Intervista ad Alessia Masini
Il tuo libro sulla storia del
punk ha una delimitazione temporale ben precisa: 1977-1984. Queste date
rappresentano un inizio e una fine? Quali sono i motivi di questa
periodizzazione del punk?
Non definirei queste date un
inizio e una fine. O meglio, forse un inizio sì, ma non una fine. Il 1977 è il
momento in cui il fenomeno punk ha una delle sue manifestazioni più visibili,
cioè diventa concretamente un elemento delle culture giovanili. Nell’ottobre
1977 il punk compare in televisione, per la prima volta la RAI parla di punk in
un programma che si intitolava “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo”. Pochi mesi
prima, a maggio, iniziava a comparire anche tra le maglie dei movimenti, delle
controculture, a partire dalla rivista “Re Nudo”. Nelle memorie dei punk
italiani si ritrovano spesso questi due eventi: quasi tutti citano “Odeon” e
qualcuno racconta anche di “Re Nudo”. Quindi da questo punto di vista si può
dire, secondo me, che il 1977 sia un inizio.
La storia, soprattutto se narra di anarchia e sovversione, può essere qualcosa di più intrigante delle noiose pagine di un manuale scolastico. Con Mario Buda viaggiamo tra la Romagna e gli Stati Uniti, in mezzo a scioperi, revolver e dinamite. Ma chi era in realtà questo enigmatico personaggio, la cui vicenda si intreccia anche a quella di Sacco e Vanzetti? E perché negli anni Trenta alcune fonti lo indicano come un collaboratore della polizia politica fascista? Si è davvero venduto e ha finito per fare l’infiltrato? A prendere per buone le carte di questura potrebbe sembrare così, ma se si scava più a fondo emergono le sorprese… anche perché diversi compagni continuano a dargli fiducia e dopo la Liberazione rientra senza strascichi nel movimento; chissà allora che non si riescano a dipanare i fili di una sorta di triplo gioco, con Buda che si fa passare per collaboratore del fascismo soltanto per suonarle meglio al regime. Alla fine dei conti, sbaglia chi crede che siano gli sbirri quelli più furbi!
Mario Buda, 1927
Mario
Augusto Buda nasce il 13 ottobre 1883 a Savignano di Romagna (dal 1933
Savignano sul Rubicone) da Federico, contadino, e Clarice Bertozzi. Ha una
sorella, Maria, e due fratelli, Primo e Carlo. Finite le scuole elementari
lavora come contadino e aiuto calzolaio. Nel 1899, sedicenne, è condannato a
dieci giorni di reclusione per furto in un negozio di ferramenta.
Nel
1904 presta il servizio militare a Forlì e tre anni dopo emigra negli Stati
Uniti. Si stabilisce dapprima nei dintorni di Boston, poi in Colorado, Illinois
e Wisconsin; si guadagna da vivere con lavori precari, per lo più giardiniere e
manovale, e si avvicina all’anarchismo diventando un sostenitore di «Cronaca
Sovversiva» di Luigi Galleani.
Alto
non più di un metro e sessanta, calvo e con i baffetti, ha occhi piccoli e naso
grosso: da qui il soprannome che gli affibbiano gli amici: “Nasone” o “Big
Nose”.
Negli
anni dal 1911 al 1913 torna a Savignano e lavora col padre come giardiniere,
per poi andare nuovamente in Massachusetts, dove viene raggiunto dal fratello
Carlo. Si stabilisce inizialmente a Framingham, lavorando in fabbrica, poi
passa un periodo di circa un anno a Roxbury, nei dintorni di Boston, impiegato
presso una lavanderia con lo stesso Carlo. Aderisce al locale Circolo educativo
mazziniano, prende parte alle attività militanti tra le quali l’organizzazione
di una Scuola moderna, le conferenze,
i pic-nic, le rappresentazioni teatrali, la partecipazione alle lotte sul
lavoro.
Conosce Nicola Sacco nel corso di uno sciopero a Hopedale nel 1913 e Bartolomeo Vanzetti tre anni più tardi in occasione dell’agitazione presso la Cordage Company a Plymouth.
Si
trasferisce in seguito a Wellesley, dove con Carlo apre una lavanderia di sua
proprietà. Il 25 settembre 1916, nel corso di una manifestazione a North Square
(Boston) contro l’intervento dell’esercito statunitense nella Prima guerra
mondiale, viene arrestato insieme a Federico Cari e Raffaele Schiavina. Al
processo si rifiuta di giurare sulla Bibbia ed è condannato a cinque mesi di
prigione. I suoi compagni raccolgono 1.200 dollari per garantirne il rilascio e
la sua condanna viene poi annullata in appello.
Nel
corso del 1917 con altri militanti, tra i quali Sacco e Vanzetti, varca il
confine messicano per stabilirsi in una casa comune nei dintorni di Monterrey,
città dove lavora sempre in una lavanderia.
Ritornato
negli Stati Uniti, si fa passare per Mike Boda o Mario Rusca, oppure per un tirolese
di Predazzo di nome Michael Wolf, e si stabilisce prima a Chicago, poi a Iron
River, infine a New York. La sua attività è ora quella di venditore di whisky,
olio, formaggio e pasta.
Nell’autunno del 1917 un attentato contro un commissariato di polizia di Milwaukee provoca la morte di dieci agenti. Non è un fatto isolato: a fronte di una repressione brutale e diffusa contro i Reds da parte delle autorità statunitensi e in particolare in risposta all’ordine di deportazione di Galleani nel febbraio 1919, gli anarchici si fanno sentire con scritti minacciosi e con una serie di azioni che fanno scalpore. Il primo maggio 1919 una trentina di plichi esplosivi sono spediti agli indirizzi di importanti esponenti della politica, dell’industria, della magistratura, della polizia e del giornalismo. Quasi tutti vengono intercettati dalle autorità. La notte del 2 giugno successivo si verificano all’incirca alla stessa ora sette esplosioni in sette città diverse: Boston, New York, Paterson, Filadelfia, Pittsburgh, Cleveland e Washington. Obiettivo sono le abitazioni di personaggi di primo piano dell’amministrazione, dell’industria e della magistratura, tra i quali il Procuratore generale Mitchell Palmer. Ingenti i danni materiali, una sola vittima: Carlo Valdinoci, stretto compagno di Buda e uno dei pilastri di «Cronaca Sovversiva», saltato in aria sul retro della casa di Palmer insieme all’ordigno che trasportava.
La casa del procuratore generale Mitchell Palmer a Washington dopo l’eplosione del 2 giugno 1919
In
sede storica è stata ipotizzata da più parti una partecipazione di Buda a
questi fatti, ma di certo non c’è nulla. Di lui in questa fase sappiamo infatti
poco, se non che risiede in Massachusetts e si dedica con assiduità alla
propaganda. Con la sua Overland, insieme al whisky e ai prodotti alimentari,
distribuisce vario materiale a stampa e gli ultimi numeri di «Cronaca
Sovversiva», che dal febbraio del 1918 il corriere American Express non
consegna più a causa delle pressioni del governo. In tale attività gira sempre
armato di revolver.
Nel
maggio 1920 la polizia è impegnata nell’indagine su una banda di italiani,
sospettata di una rapina fruttata sedicimila
dollari e di un duplice omicidio a South Braintree, il precedente 15 aprile.
Gli indizi portano a un certo Boda, che figurerebbe come il capo del gruppo.
Seguendo le sue tracce gli agenti di West Bridgewater arrestano Sacco e
Vanzetti, con l’accusa di aver partecipato ai fatti.
L’11 settembre 1920 i due sono condannati in primo grado. A mezzogiorno del 16 settembre un carro trainato da un cavallo e pieno di frutta, ma anche di quarantacinque chili di dinamite e di due quintali di pezzi di metallo, esplode all’angolo di Wall Street con Broad Street, tra lo United States Assay Office, il Sub-Treasury Building e il palazzo della J.P. Morgan & Company: il centro del capitalismo americano. La deflagrazione lascia sul selciato trentotto morti, centinaia di feriti e ingenti danni materiali. I colpevoli di questo “atto di guerra”, come titola il «New York Times» del 17 settembre, non saranno mai trovati. Alcuni decenni più tardi un altro libertario, Charles Poggi, farà a riguardo il nome di Buda.
Attentato anarchico a Wall street, 16 settembre 1920
Poco dopo l’attentato,
l’anarchico romagnolo salpa da Providence
verso Napoli e a novembre è di ritorno a Savignano, dove va ad abitare a casa
della madre, in via Castelvecchio 22.
Il
28 febbraio 1921 a San Mauro Pascoli i rossi si scontrano con una squadra
fascista accorsa da Cesena per affiggere dei manifesti. Intervengono i
carabinieri di Savignano e si accende una sparatoria, nel mezzo della quale
cade il maresciallo Pietro Ragni. Per la sua morte viene imputato Buda in
correità con altri sedici antifascisti. Incarcerato dal 1° marzo alla fine di
settembre, è assolto dalla corte d’appello di Bologna per insufficienza di
prove.
Nell’agosto successivo è denunciato per omessa dichiarazione di una pistola, che porta sempre con sé nel quotidiano tragitto tra Savignano, dove in una camera di casa sua fabbrica e vende pantofole e galosce, e Rimini, dove lavora per un periodo presso una calzoleria di via Gambalunga 17. A Savignano frequenta i compagni di ideale con i quali organizza un gruppo anarchico che promuove conferenze di propaganda in favore di Sacco e Vanzetti in vari centri del circondario, tra cui Gambettola e Santarcangelo, dove Buda è in stretto contatto con Amleto Fabbri, futuro segretario negli Stati Uniti del Comitato di difesa per Sacco e Vanzetti.
Effetti dell’esplosione del 1920 ancora oggi visibili al n. 23 di Wall Street
Dopo
l’ascesa del fascismo mantiene contatti epistolari con i libertari residenti in
Francia e negli Stati Uniti e fa circolare letteratura anarchica in modo
clandestino, come hanno modo di verificare i carabinieri facendo irruzione in
casa sua, il 18 settembre 1925.
Il
20 agosto 1927, tre giorni prima dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti,
viene arrestato. Trattenuto nelle carceri di Forlì fino
alla fine di dicembre, è assegnato al confino
di Lipari per cinque anni. Presenta ricorso, ma invano. Qui ritrova Galleani e
condivide un’abitazione insieme ad altri confinati emiliani e romagnoli.
Sull’isola
riceve la visita del giornalista americano Edward Holton James e di Giuseppe
Dosi, commissario di polizia che si fa passare per giornalista italiano.
Entrambi intervistano Buda per tre giorni sulle circostanze che hanno portato
alla condanna a morte di Sacco e Vanzetti, affermando di ritenerli innocenti e
di volerne riabilitare la memoria. Buda ribadisce l’innocenza dei due anarchici
giustiziati e la propria estraneità ai fatti.
Su
suggerimento di James, dal quale comincia a ricevere del denaro, chiede
ripetutamente clemenza a Mussolini lamentando di essere stato confinato su
volontà del governo americano perché ritenuto implicato nell’affaire
Sacco e Vanzetti.
Il
1° marzo 1928 è tratto in arresto insieme ad altri tre confinati perché
sorpreso a cantare inni sovversivi nella sua abitazione. Viene condannato a tre
mesi che sconta nelle carceri di Messina.
Trasferito
a Ponza nel luglio del 1929, viene definito dal Ministero degli interni un
“irriducibile avversario del regime” e uno “strenuo e fanatico sostenitore
delle idee comuniste-anarchiche le più avanzate […], preconizzatore convinto
degli Stati Uniti di tutto il mondo, retti da Commissari del popolo sotto le
bandiere dei soviet di tipo russo”.
Nell’aprile
del 1932 James torna a fargli visita insieme al diciottenne Dante Sacco, figlio
di Nicola, che Buda aveva conosciuto da bambino.
Scontata
per intero la pena, il 19 novembre 1932 viene liberato con foglio di via
obbligatorio per Savignano. Qui riprende a lavorare nella produzione e vendita
di scarpe. Stando alle carte di polizia, diventa un fiduciario dell’OVRA (organizzazione
segreta della polizia politica fascista) e ottiene dalla prefettura di Forlì un
regolare passaporto per recarsi a Parigi con l’obiettivo di infiltrarsi negli
ambienti antifascisti di lingua italiana. Varca il confine nel febbraio del
1933 e si ferma in Svizzera e in Francia, prima di tornare in estate in
Romagna. Non abbiamo notizie di sue eventuali rivelazioni, ma il periodico
comunista «Bandiera Rossa» di Parigi del 9 settembre lo denuncia pubblicamente
come una spia.
A Savignano continua a lavorare come calzolaio e nel 1934 si sposa con rito religioso con Sara Randi. Nell’agosto del 1937 è di nuovo a Parigi dove frequenta, tra gli altri, Umberto Tommasini, Gino Bibbi e Giobbe Giopp con i quali stabilisce di compiere un attentato contro Mussolini per mezzo di un’autobomba che dovrebbe sorprendere le guardie ed esplodere all’interno del Viminale. Torna quindi in Italia con il compito di raccogliere informazioni su abitudini e itinerari del duce.
Dimostrazione per Sacco e Vanzetti in Union Square a New York, 9 agosto 1927
Per
i compagni è un militante fidato, per la polizia un informatore dal nome in
codice “Romagna”. Nel maggio del 1938 due antifascisti, Luigi Tocco e Luigia
Battaini, consegnano a Buda in un bar di Milano il denaro necessario
all’attentato. Ma il progetto sfuma e in agosto Tocco e Battaini sono
arrestati.
Nel
febbraio del 1942 la prefettura di Forlì ottiene da Roma la cancellazione del
suo nome dal novero dei sovversivi perché “serba regolare condotta politica […]
non dà luogo a rilievi [e] in varie occasioni si è reso utile al locale
organismo dell’OVRA”.
Nel
1944 muore la madre. Con la Liberazione riprende il suo posto nel movimento
anarchico locale, distribuisce la stampa libertaria e affigge «Umanità Nova»
sotto i portici di corso Vendemini. È conosciuto come un uomo colto e amante
della campagna. Muore il 1° giugno 1963 dopo essere stato ricoverato due mesi
presso il locale ospedale di Savignano. Lascia al nipote Vittorio alcuni libri
anarchici e una colt a tamburo. I funerali si svolgono in forma civile e la sua
figura viene ricordata sulla stampa anarchica dalle due parti dell’oceano.
Chi
è stato davvero Mario Buda? Un militante molto deciso o un abile
doppiogiochista? C’è davvero lui dietro alcune delle pagine più eclatanti della
lotta contro le autorità statunitensi? È stato un informatore, una spia o un
provocatore? E se sì, da quando? E ancora: le notizie che avrebbe dato alla
polizia avevano davvero qualche valore? Fino a che punto ha spinto il suo
doppio gioco e in favore di chi?
Troppi, ancora, i punti oscuri. Il mistero continua. Le ricerche anche…
Tecnici analizzano i resti della bomba di Wall Street, settembre 1920
Fonti utilizzate
Archivio centrale dello Stato, Casellario
politico centrale, b. 882, fasc. 3, “Buda Mario”.
Archivio centrale dello Stato, Confinati
politici, b. 162, fasc. “Buda Mario”.
Hugo Rolland, Il caso Sacco e
Vanzetti: nella storia e nella leggenda, manoscritto, Hugo Rolland Papers,
folder n. 86, International Institute of Social History, Amsterdam.
AB [Amedeo Bertolo], Infiltrati,
spie e provocatori nel movimento anarchico, «Bollettino dell’Archivio
Pinelli», n. 14, 1999.
Gli anarchici italiani negli Stati Uniti
d’America,
in Un trentennio di attività anarchica 1914-1945, Forlì, L’Antistato,
1953, pp. 121-176.
Paul Avrich, Sacco and Vanzetti in
Id., Anarchist voices. An Oral History of Anarchism in America, Edinburgh-Oakland,
AK Press, 1995, pp. 87-188.
Id., Ribelli in paradiso. Sacco, Vanzetti
e il movimento anarchico negli Stati Uniti, a cura di Antonio Senta, Roma, Nova
Delphi, 2015.
Robert d’Attilio [et al.], La salute è in voi.
Sacco, Vanzetti e la dimensione anarchica, Villafalletto, 2017.
Mike Davis, Buda’s Wagon. A Brief
History of the Car Bomb, Londra, Verso, 2007.
Carlo Donati, La prima autobomba? Un
carretto, «Quotidiano nazionale», 29 mar. 2007.
Lucio Febo, Buda, Mario, in Dizionario
biografico degli anarchici italiani, Pisa, BFS, 2003, v. 1, pp. 268-270.
Mimmo Franzinelli, I tentacoli
dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista,
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Morte di San Francesco, uno dei frati trascrive il Testamento, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Sorella povertà
Alla morte di Francesco (1226),
la scelta tra povertà o non povertà divide l’ordine da lui fondato in due
correnti: gli Spirituali, fedeli allo spirito della Regola e al suo Testamento,
praticanti la povertà assoluta, e i Conventuali, più propensi ad accomodarsi
con il mondo, ovvero ad accettare donazioni, godere di rendite e fissare in
conventi la propria stabile dimora.
Per la Chiesa in quanto
istituzione e sistema di potere, la concezione della povertà volontaria è
qualcosa di destabilizzante ed è infatti una delle principali leve con cui
viene attaccato il suo dominio nel basso medioevo. In fondo la povertà non
sarebbe che un mezzo per raggiungere la perfezione
e quindi l’eterna salvezza dell’anima, ma affermarla e praticarla finiva con il
mettere in discussione l’intero apparato di potere ecclesiastico che non
avrebbe potuto reggersi con i forzieri vuoti. Quindi, se da una parte non
sembra opportuno rinnegare in toto la povertà come valore cristiano, dall’altro
la Chiesa è ben attenta a contenerla entro precisi limiti, circoscritti dalla
catena dell’obbedienza che legava gli Ordini mendicanti alla casa madre di Roma.
Le Marche sono una delle aree di
maggior radicamento della corrente spirituale-pauperistica, che si raccoglie attorno
a Pietro da Macerata detto Fra Liberato e Pietro da Fossombrone detto Angelo
Clareno. Insieme a loro, le fonti registrano altri predicatori marchigiani di sorella povertà, come Corrado da Offida,
Tommaso e Trasmondo da Tolentino, Francesco da Falerone, Giovanni da Bolognola,
Vincenzo da Camerino, Francesco da Mondavio, Bonaventura da Cagli. Ulteriori zone
di influenza spirituale sono la Toscana con Ubertino da Casale e la Francia
meridionale con Pietro di Giovanni Olivi; quest’ultimo aveva indossato l’abito
francescano intorno al 1260 a Béziers, cittadina dove ancora aleggiava il
ricordo del genocidio di uomini, donne e bambini perpetrato appena qualche
decennio prima, per estirpare l’eresia catara, dal rappresentante pontificio Arnaud
Amaury al grido: «Uccideteli
tutti! Dio saprà riconoscere i suoi»[1].
Con il Concilio di Lione del 1274
papa Gregorio X, oltre a invocare una nuova crociata per la liberazione della
Terra santa, colpisce duramente gli ordini mendicanti togliendo loro il voto di
povertà e proibendo il formarne di nuovi. Gli Spirituali sono chiamati a
rientrare nei ranghi dell’ordine francescano egemonizzato dall’altra e più
potente fazione. Ma non tutti sono disposti ad accettare di buon grado quella
che ritengono un’indebita imposizione. Può il Papa contestare la Regola della
povertà, ispirata divinamente a
Francesco?
Il rifiuto parte proprio dalle Marche, scatenando l’inizio della persecuzione nei confronti dei frati dissidenti. Tra loro Angelo Clareno, nato con il nome di Pietro intorno al 1255 a Chiarino, tra Loreto e Recanati, ed entrato a quindici anni nei francescani di Fossombrone (o, forse, di Cingoli). Insieme ad altri viene segregato in convento, privato di confessione e sacramenti, inibito a colloqui con soggetti esterni, fino a quando oltre dieci anni dopo, nel 1289, il nuovo ministro generale dell’ordine Raimondo Gaufridi lo spedisce missionario in Armenia, insieme a Pietro da Macerata e qualche altro confratello ritenuto d’intralcio nella penisola.
Angelo Clareno, Artista sconosciuto, XVI secolo
Le «tribolazioni» francescane
Nel 1294 l’elezione a pontefice
di Celestino V, l’ex eremita Pietro da Morrone, sembra ribaltare le carte in
tavola. I più ferventi fautori della povertà evangelica ottengono infatti l’autorizzazione
a staccarsi dall’ordine sempre ben presidiato dai gaudenti Conventuali,
formando un’apposita congregazione di Pauperes
eremite domini Celestini. Clareno, intravedendo finalmente un auspicato futuro
di povertà e ascesi, fa rientro in Italia. Ma, come si sa, Celestino V è il
papa del gran rifiuto; dopo neanche
un anno di pontificato, messo sotto pressione dai maneggi di potere, capisce
che guidare la Santa sede non è cosa per lui e si dimette. Chiusa parentesi. La
prima decisione del nuovo papa Bonifacio VIII (1294-1303) è annullare tutte le
concessioni e i privilegi concessi dal suo predecessore: per gli Spirituali
rincomincia a tirare una brutta aria. Gli altri, i Conventuali, covano vendetta
contro quei miserabili frati che vorrebbero ridurre la comunità a campare senza
conventi, senza soldi, dispersa fuori dalle città: ai loro occhi sono tutti
quanti “dolciniani”, cioè eretici della peggior specie, senza sfumature né
eccezioni, da liquidare con ogni mezzo necessario.
Fra Liberato e Angelo Clareno emigrano di nuovo in cerca di un po’ di pace, questa volta in Grecia, ma anche lì li raggiunge la condanna del nuovo papa che li bolla come ribelli a ogni religione approvata e, lo si può immaginare, in quell’epoca ricevere una tale condanna, tanto più per un frate, erano dolori assicurati. Fra Liberato si fa coraggio e decide di tornare in patria per incontrare Bonifacio VIII e provare a farlo ragionare: l’Inquisizione non aspettava altro e solo per un soffio il frate riesce a sottrarsi alle grinfie del segugio domenicano Tomaso d’Aversa, per chiudersi fino alla fine dei suoi giorni nell’eremo di S. Angelo della Vena. Clareno capisce che è il caso di restare ancora un po’ in Grecia e solo dopo la morte di Bonifacio VIII rimette piede in Italia. Trascorre quindi alcuni anni ad Avignone dove, sotto l’ala protettrice del cardinale Giacomo Colonna, spera vanamente di ottenere qualcosa da papa Clemente V (1305-1314) o, almeno, di scongiurare un doloroso strappo tra i poveri eremiti e madre Chiesa.
Celestino V benedice Angelo Clareno e al confratelli, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Niente da fare, anzi la
situazione peggiora ancora con papa Giovanni XXII (1316-1334), acerrimo nemico degli
Spirituali che, da parte loro, nella reciproca accusa di eresia, lo considerano
nientemeno che il precursore dell’Anticristo: «perversus, maleficus, blasphemus, maledictus, a Deo
maledictus»[2].
Con la bolla Sancta Romana Ecclesia (1317),
dalla cattività avignonese il papa prende
di mira proprio i Francescani insubordinati, ricordando loro che l’obbedienza
al successore di Pietro è una virtù superiore alla povertà e, per ben
imprimerlo nelle loro teste, nel 1318 a Marsiglia fa bruciare sul rogo quattro Spirituali
irriducibili. La condanna papale è aggravata nel 1323 con la bolla Cum inter nunnullos che intende chiudere
la questione dichiarando una volta per tutte eretica la tesi della povertà di
Cristo e degli apostoli. In sostanza, i frati potevano essere poveri quanto
volevano, ma non era loro concesso di mettere in discussione la gerarchia
ecclesiastica e l’autorità del pontefice. Complessivamente, nell’arco di un
secolo e mezzo, si contano almeno una cinquantina di bolle pontificie inerenti
la repressione dei Francescani dissidenti[3].
Clareno, scomunicato, si
autodifende con passione e convinzione con una Epistola excusatoria e inizia a peregrinare tra vari monasteri raccogliendo
attorno a sé i cocci del francescanesismo spirituale. Con chi è ancora disposto
a seguirlo nonostante minacce, ritorsioni e repressione fonda il gruppo dei fratres de paupere vita, i Fratelli
della vita povera, o Fraticelli, organizzati come ordine francescano
indipendente che ormai non riconosceva più l’autorità della meretrix magna, ovvero di quella Chiesa
romana traditrice del Vangelo di Cristo.
Per confortare compagni e
discepoli condannati dalla Chiesa e braccati dall’Inquisizione, mostrando loro
le ragioni provvidenziali di tanto soffrire, Clareno scrive un Liber chronicarum contenente la storia
delle «sette
tribolazioni»
subite dal piccolo nucleo di francescani di cui egli stesso è parte ad opera di
chi ha abbandonato la via spirituale per quella materiale. Le tribolazioni erano state all’origine profetizzate da Cristo a
Francesco, in questi termini:
«si
daranno ad accumulare denaro, testamenti e legati; di conseguenza senza alcun
pudore si abbandoneranno a litigi, allontanandosi dall’amore alla santa
povertà, umiltà e orazione, e perseguiteranno con astio e maltrattamento quelli
che nella Religione gli si opporranno. […] Crederanno cosa sacroscanta
confonderli e opprimerli con frode; e riterranno giusto suscitare contro di
loro una guerra. […] Correranno dietro la dignità ecclesiale e gareggeranno tra
loro per apparire superiori agli altri. Chi cercherà di essere umile e zelare
la pura osservanza della promessa, procurando di elevarsi alle cose celesti,
sarà disprezzato come pazzo e schernito come inutile e buono a nulla. Quindi
ogni cattivo soggetto riverserà il puzzo della sua condotta contro i frati e
cercherà di scusare e sminuire le proprie scelleratezze»[4].
Nonostante la guida di Clareno, che comunque non ebbe successori della sua tempra, i dissidenti restano frammentati in mille rivoli diversi, come testimoniano i tanti nomi non esattamente sovrapponibili l’uno all’altro: Fraticelli, Fraticelli de paupere vita, pauperes Fraticelli, Fraticelli de opinione, pauperes Fratres, humiles Christi pauperes e altri[5]. Va anche detto che il termine Fraticelli non ricorre quasi mai negli scritti dello stesso Clareno e quando compare è sempre sulla bocca degli avversari, che raccolgono sotto tale nome un po’ tutto quel mondo francescano ai confini tra ortodossia ed eresia[6].
Cristo ispira a San Francesco la Regola, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Un’eresia moderata
Comincia quindi a prendere forma
una rete di contatti tra eremi e monasteri dell’Italia centrale, con al centro
il monastero del Sacro Speco di Subiaco, dove Clareno si era trasferito. I
Fraticelli conducono un’esistenza da eremiti, privi di ogni bene materiale,
vivono in luoghi appartati o ospitati in piccoli conventi, predicano agli
incolti villani e ai vagabondi, mendicano di che mangiare, aiutati per quanto
possibile dalla popolazione locale. Applicando alla lettera la Regola
francescana, potevano possedere solo una o al massimo due tuniche di vile
panno, senza mai sostituirle per tutta la vita: probabilmente non è solo
figurata la definizione di pauperculos
pediculosos (poveretti pidocchiosi) con cui venivano spesso chiamati.
A detta dei loro avversari,
aderivano ai Fraticelli e ai loro amici laici, detti Bizzocchi o Beghini, «quanti erano di costumi
guasti e corrotti, ed inoltre contadini stanchi di faticare ed artigiani
scioperati»[7].
Gente poco raccomandabile, insomma, la cui condotta era un campionario di «errori» e «nefandezze» che turbavano la vita
religiosa, sociale e politica[8].
Peggio ancora se si trattava di donne seguaci della «turba mendicante», che «col pretesto di chiedere
l’elemosina vagano per ville e castelli»,
cosa ritenuta quanto mai sconveniente. Infine, per qualche storico cattolico di
tempi a noi più vicini, l’eresia dei Fraticelli era malvagità assoluta, ovvero comunismo bello e buono:
«adunque i Fraticelli d’opinione furono i seguaci degli eretici Apostolici, dei Manichei, poi degli Albigesi e per conseguenza ancora i padri e gli antesignani del comunismo, del radicalismo e socialismo presente, propugnato da Proudhon, da Owen, da Hegel, da Fourier. Questi dissero: la proprietà è un furto; e i Fraticelli: i beni sono comuni. Ecco il comunismo. Il peggior male del mondo sono i governi; ogni potestà di principe è un avanzo di superstizione pagana. Ecco il radicalismo. La donna è libera, gridava Sansimon [Saint-Simon]; la donna è una preda comune, gridarono questi eretici. Ecco il socialismo misto e sensuale»[9].
Sacro Speco di Subiaco, rifugio di Angelo Clareno
La dottrina dei Fraticelli era
molto affine a quella dei temutissimi Apostolici di Gherardo Segarelli e dei
Dolciniani di Fra Dolcino e Margherita da Trento. La base comune partiva
dall’influenza della filosofia della storia di Gioacchino da Fiore interpretata
come susseguirsi di epoche: all’era del Padre e a quella del Figlio sarebbe
seguita quella dello Spirito Santo, caratterizzata da pace, amore e
solidarietà, in cui la nuova Ecclesia
spiritualis, ecumenica e tollerante, avrebbe soppiantato la vecchia
gerarchia ecclesiastica romana. Tuttavia, mentre i Fraticelli si ritengono
legittimi discendenti dell’ordine fondato da San Francesco, gli Apostolici
considerano i Francescani un ordine tra gli altri e non si ritengono soggetti
alla Regola. Soprattutto, quello dei Fraticelli è un movimento moderato che
cerca di rimanere prudentemente all’interno dell’ortodossia cattolica, seguendo
la via del ritiro dal mondo in eremi solitari, la via della resistenza passiva[10].
Un movimento fatto di «santi
e ribelli insieme»[11].
Tutt’altro radicalismo è dimostrato invece dagli Apostolici, che sulle montagne
della Valsesia, agli inizi del Trecento, resistono in armi alla crociata
dell’Inquisizione, unendo la loro lotta alla guerriglia delle popolazioni
montanare minacciate dalla prepotenza dei vescovi e ferme custodi
dell’autonomia della civiltà alpina. A loro, però, andò decisamente peggio
rispetto ai marchigiani che tutto sommato, a parte qualche rogo qua e là, se la
cavarono chinando il capo. Gli Apostolici vennero massacrati sulla cima del
loro ultimo baluardo, il monte Rubello; le loro guide, Dolcino, Margherita e
Longino furono catturate, torturate e bruciate[12].
La vocazione di Clareno al misticismo eremitico lo tiene lontano dallo scontro in campo aperto e perfino contro il malefico Giovanni XXII, che l’avrebbe assai volentieri abbrustolito in piazza, scrive ai suoi seguaci di non ribellarsi, «ma piuttosto di fuggire dal suo cospetto serbando fede, nel silenzio di eremi lontani, all’ideale da lui calpestato»[13]. Non per questo viene lasciato in pace. Nel 1334 l’inquisitore Simone da Spoleto tenta di catturarlo, vivo o morto, ma l’abate di Subiaco colpito dalla rettitudine e dalla levatura morale del suo ospite non lo consegna; Clareno può così fuggire nel Regno di Napoli fino ad approdare nel convento di S. Maria dell’Aspro, in Basilicata, dove sempre aspettando l’Apocalisse prossima ventura, muore nel 1337.
Gioacchino da Fiore
In quello stesso anno 1337 il
Fraticello Francesco da Pistoia viene consegnato al braccio secolare e fatto
salire sul rogo a Venezia. Altri due compagni sono bruciati a Montpellier nel
1354. Nel 1389 è la volta di Michele Berti da Calci, nella piazza di Firenze[14].
E ancora roghi a Firenze e Fabriano nel 1449-1450. Certo, non tutti si lasciano
martirizzare; i processi danno conto di abiure e ritrattazioni, più o meno
sincere, con conseguenti condanne al carcere, confische dei beni, espulsioni,
penitenze, scomuniche. Sotto processo vanno anche i protettori dei Fraticelli,
come accade nel 1336 ai vescovi e alle autorità di Camerino e Fermo e agli
ufficiali del comune di Matelica accusati di averli accolti, mentre due anni
dopo è la volta della città di San Ginesio[15].
Gli ultimi fuochi
A partire dal pontificato di Bonifacio
IX (1389-1404) la dissidenza eremitica francescana inizia progressivamente a
rientrare nel seno della Chiesa, in un percorso lungo e irto di ostacoli. Nel
frattempo, per non sbagliare, prosegue la persecuzione degli insubordinati. A
combattere una volta per tutte l’eresia dei Fraticelli marchigiani viene
chiamato nel 1425 Giacomo della Marca, poi fatto santo. Si racconta che mentre i
frati bruciavano nella piazza di Fabriano, Giacomo ebbe la prova definitiva che
si trattasse realmente di eretici: al suo naso giungeva infatti il puzzo di
carni arrostite, mentre se fossero stati santi le loro carni sul fuoco
avrebbero senza dubbio emanato buon profumo d’arrosto[16].
Negli anni immediatamente successivi le Marche continuano a essere territorio d’elezione dei poveri eremiti. Nel 1427 la popolazione di San Severino insorge contro il commissario pontificio, Astorgio Agnesi vescovo di Ancona, odiato sia per i suoi modi di governo sia in quanto noto inquisitore dei miti Fraticelli, che si vede costretto a far accorrere in tutta fretta in città le truppe pontificie per soffocare la sommossa. San Severino, scomunicata dal papa Martino V, sarà assolta e riappacificata solo nel 1428. In quello stesso anno, a poca distanza da lì, «ad terrorem et exemplum perpetuum» viene atterrato il castello di Maiolati, nella Vallesina roccaforte dell’eresia. Gli abitanti dispersi trovano scampo nei paesi vicini e solo dopo due anni ottengono la grazia di rientrare, ma con il divieto di ricostruire le mura del paese. Nel frattempo la fine di qualcuno non è ben documentata ma la si intuisce da una coeva nota di spesa degli inquisitori: «oleo et lignis pro comburendo hereticos»[17].
Il persecutore di eretici San Giacomo della Marca
L’ultimo processo inquisitoriale
di cui si ha notizia si svolge a Roma nel 1466 contro alcuni Fraticelli laziali
e di Maiolati, guidati da un certo Fra Niccolò di Cupramontana, sorpresi e
catturati durante un pellegrinaggio verso Assisi. Proprio Maiolati,
Cupramontana e territori limitrofi sono una delle ultime oasi dell’eresia.
Stando alle poco affidabili confessioni del processo, estorte come da prassi
con le peggiori torture, i fratres di
Maiolati sarebbero stati soliti abbandonarsi nottetempo a orge dionisiache,
«e peggio ancora non avrebbero dubitato di
dare la morte appena nato al frutto dei loro mostruosi congiungimenti,
passandoselo di mano in mano in una ridda bacchica intorno a un fuoco
infernale. Né infine avrebbero rifuggito dal ridurre in polvere quelle ossa
innocenti per immergerle nel vino, che conservato in un barilotto sorbivano poi
di volta in volta ad imitazione del mistero eucaristico»[18].
Da questa storia, di cui si
trovano fantasiose varianti distribuite nei paesi della Vallesina, trae origine
l’ingiuria popolare un tempo tipica di queste zone: «sei nato nel barilotto».
Le ultime battute della storia dei Fraticelli, che nel corso del XV secolo avevano fondato la cosiddetta Congregazione dei Clareni, si intrecciano alla storia degli Osservanti, altra corrente francescana che apprezzava la povertà ma con molto meno radicalismo rispetto ai precedenti Spirituali. Figure come Giovanni da Capestrano o Giacomo dalla Marca, dopo essere stati accaniti persecutori dei Fraticelli, recuperano dal movimento l’ideale di semplicità evangelica e, come Osservanti, dimostrano che il saio sbrindellato si può indossare anche all’interno di madre Chiesa. Il loro esempio, unito alla mutata situazione culturale ed ecclesiale, toglie terreno sotto ai piedi dei Fraticelli dando loro quel colpo di grazia che l’Inquisizione non era riuscita a infliggere. Gli eremi di montagna vengono abbandonati in un lento processo che si conclude solo intorno a metà XVI secolo, quando anche gli ultimi sedici insediamenti marchigiani vengono svuotati e i loro occupanti trasferiti nei conventi in prossimità o dentro i centri urbani.
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[1] Secondo la storiografia
più recente questa notissima frase non sarebbe autentica, certamente reale è
invece il massacro di Béziers; cfr. Marco Meschini, L’eretica. Storia della crociata contro gli Albigesi, Roma, Bari,
Laterza, 2010.
[2] Da una lettera di alcuni
Fraticelli al comune di Narni, cit. in Mariano D’Alatri, Fraticellismo e Inquisizione nell’Italia centrale, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 306.
[4] Angelo Clareno, Libro
delle cronache o delle tribolazioni dell’ordine dei Frati Minori, in Fonti Francescane, 3. ed., Padova,
Editrici francescane, 2011, p. 1397-1398.
[5] Cfr. Clemente Schmitt, Introduzione allo studio degli Spirituali e
dei Fraticelli, “Picenum Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 18.
[6] Cfr. Roberto Lambertini, “Non so che fraticelli…”: identità e
tensioni minoritiche nella Marchia di Angelo Clareno, in Società
internazionale di studi francescani, Centro interuniversitario di studi
francescani, Angelo Clareno francescano.
Atti del 34° Convegno internazionale, Assisi, 5-7 ottobre 2006, Spoleto,
Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2007, p. 232.
[7] Giacinto Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, Bologna, Mareggiani,
1876, p. 95
[8] Cfr. Mario Natalucci, Lotte di parte e manifestazioni ereticali
nella Marca agli inizi del secolo XIV, “Studia Picena”, a. 24, 1956, p.
141.
[9] G. Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, cit., p. 90.
[10] Cfr. Francesco Lombardi, Misticismo e utopia nei Fraticelli
marchigiani, in Il mondo delle
passioni nell’immaginario utopico. Giornate di studio sull’utopia, Macerata,
26-27 maggio 1995, a cura di Bruna Consarelli e Nicola Di Penta, Milano,
Giuffrè, 1997, p. 155-173.
[11] Felice Tocco, I Fraticelli, “Archivio storico
italiano”, a. 35, n. 238, 1905, p. 331.
[12] Cfr.: Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara,
Roma, DeriveApprodi, 2002; Tavo Burat, Fra
Dolcino e Margherita: tra messianesimo egualitario e resistenza montanara, [S.l.],
Tabor, 2013.
[13] La lettera di Clareno è
riportata in F. Tocco, I Fraticelli,
cit., p. 342.
[14] Cfr. Anonimo fiorentino, Storia di fra’ Michele minorita, a cura
di Emanuele Trevi, Roma, Salerno, 1991.
[15] Cfr.: Arnaldo Sancricca, I “Fratres” di Angelo Clareno, Macerata,
Simple, 2015, p. 93-120; Mariano D’Alatri, L’inquisizione
francescana nell’Italia centrale del Duecento, con il testo del Liber
inquisitionis di Orvieto trascritto da Egidio Bonanno, Roma, Istituto storico
dei Cappuccini, 1996.
[16] Cfr. Umberto Picciafuoco,
I Fraticelli nel centro Marche e in
particolare a Cupra Montana, in I
Fraticelli: santi o eretici? Atti del convegno, Cupra Montana, 3 ottobre 1997,
a cura di Riccardo Ceccarelli, Cupra Montana, [s.n.], 1998, p. 57.
[17] Cfr. Giovanni Annibaldi, L’azione repressiva di Martino V contro i
ribelli di Jesi ed i Fraticelli di Maiolati, Massaccio e Mergo, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 410-411.
Segnaliamo la pubblicazione del libro Naufragio a terra – La rivolta di San Benedetto del Tronto, dicembre 1970 (Malamente, 2020, 68 p.).
Abbiamo deciso di dedicare alla rivolta di San Benedetto questa pubblicazione per una ragione molto semplice quanto fondamentale: le due giornate che videro un’intera comunità bloccare un intero territorio, tutte le reti viarie, la ferrovia adriatica e la statale, dopo il naufragio del peschereccio Rodi e la morte dei dieci componenti dell’equipaggio, espressero una conflittualità, una capacità di autorganizzazione popolare nonché di autogestione della protesta che crediamo non abbia avuto riscontro nella storia delle lotte nella nostra regione, le Marche, dopo la liberazione dal nazifascismo.
Se nelle grandi città del Nord e non solo, l’apice dello scontro sociale si era raggiunto nel “biennio rosso” 1968/69, nelle Marche fu l’insorgenza sambenedettese, breve quanto radicale, a fare da battesimo al decennio ribelle che attraversò buona parte degli anni Settanta anche nei nostri territori. Per San Benedetto la rivolta non fu una breve parentesi, ma segnò una svolta. Infatti, al di là del lavoro politico-sindacale che si sviluppò ulteriormente nel settore della pesca, le due giornate del dicembre 1970 lasciarono una traccia profonda nella coscienza di una grossa parte degli abitanti della città. Una svolta che nel periodo successivo si manifestò, ad esempio, nelle mobilitazioni politiche di massa per contestare, un paio di anni dopo i fatti del Rodi, i comizi del patron democristiano Forlani e del fascista missino Grilli in occasione delle elezioni politiche del 1972. Dunque la nostra scelta è certamente di carattere memorialistico e storico – non a caso esce esattamente nel cinquantenario di quella rivolta – ma vuole anche evidenziare come una terra da sempre considerata dormiente e assuefatta alla pace sociale abbia espresso anche momenti di alta conflittualità, con l’auspicio che oggi, di fronte a un sistema sociale sempre più intollerabile, sappia trovare nuove energie e ribellarsi come accadde a San Benedetto mezzo secolo fa.
La redazione di Malamente
Il libretto è pronto per essere spedito a chi ne desideri una o più copie (prezzo di copertina 5 euro). Se sostieni un abbonamento a Malamente per l’anno 2021 riceverai il libretto in allegato in omaggio al numero 20 (gennaio 2021), per ordini e altre richieste puoi sempre scriverci a malamente@autistici.org.
Il libro è disponibile anche presso le librerie IODIO e Nave Cervo di San Benedetto del Tronto.
Indice
Malamente, Prefazione
Tommaso La Selva, La memoria è vita
Mario Di Vito, Come muoiono i marinai
Mare in rivolta, intervista di Sergio Sinigaglia a Francesco Vagnoni, Tinello Zazzetta e Alice Zazzetta Documenti (1976):
Renato Novelli, La crisi e il mercato del lavoro della pesca
Testimonianza di un ex pescatore, militante extraparlamentare
Il primo caso si verifica a Saluzzo, in Piemonte, il 28 giugno 1884, proveniente dal Sud della Francia. La malattia che presto comincia a dilagare nonostante i cordoni sanitari dell’esercito è, ancora una volta, il temuto colera. Una malattia di origine batterica, infettiva e contagiosa, che provoca diarrea, vomito e in poco tempo una grave disidratazione: gli occhi si infossano, la pelle si riempie di rughe, la morte attende dietro l’angolo. La trasmissione deriva da cibo contaminato, da poca igiene e scarsa disponibilità di acqua potabile, per questo è più facile incontrarla nei quartieri popolari piuttosto che nelle dimore dei ricchi. Il colera attraversa l’Italia, ad agosto è in Liguria, Toscana, Emilia, a settembre il focolaio peggiore colpisce Napoli. Qui, nel giro di due settimane i malati si contano a migliaia, quasi tutti tra i bassifondi della città, i morti arrivano presto a più di 8.000. Oltre all’esercito, inviato anche a sedare i tumulti popolari che andavano nascendo, arrivano a Napoli alcuni gruppi di volontari. Tra loro chi si batteva per un mondo libero dall’ingiustizia e dalla miseria sociale: anarchici e socialisti.
Gruppo di volontari per l'emergenza colera, Napoli 1884. Seduti a terra, da destra Luigi Musini e Felice Cavallotti
Tra i primi volontari contro il colera di Napoli troviamo Andrea Costa. Era stato uno dei pionieri dell’internazionalismo rivoluzionario anarchico, grande protagonista delle lotte operaie e mito delle plebi romagnole, solo da qualche anno aveva intrapreso il non facile percorso, pieno di spine, violente polemiche, accuse di tradimento e amicizie infrante che l’aveva portato dall’anarchismo al socialismo, fino a sposare la lotta elettorale e a diventare, nel 1882, il primo deputato socialista eletto al Parlamento. Con lui, a Napoli, c’è Luigi Musini, giornalista e uomo d’azione, ex garibaldino, secondo deputato socialista d’Italia. Entrambi affiliati alla massoneria, avevano risposto all’appello del Grande Oriente d’Italia[i] e si erano aggregati alla Croce verde di Giovanni Bovio, gran maestro della loggia napoletana. Musini era medico, Costa gli faceva da infermiere: «si aggiravano fra i bassi di Napoli con le tre stellette massoniche sul petto e la croce verde sul braccio, soccorrendo gli ammalati, bruciando le suppellettili ed i vestiti nei quartieri dove il morbo aveva più colpito»[ii]. In ragione dei servizi prestati durante l’epidemia, saranno nominati membri onorari della loggia partenopea Italia.
Muoversi non era facile. Un caffè, un bicchierino di cognac e subito ci si ritrova alla Farmacia del Tigre, punto di raccolta dei volontari; da lì si parte verso i quartieri popolari con in borsa laudano, etere, chinino, disinfettanti, miscele eccitanti e unguenti. Oltre a evitare il bacillo Vibrio cholerae, Costa e Musini devono anche sopportare il costante pedinamento della polizia (è vero che ormai sono onorevoli deputati, ma erano entrati e usciti di galera si può dire fino al giorno prima). Tanto che il 15 settembre scrivono una protesta pubblica sul giornale “Roma”, suscitando un certo imbarazzo nel governo. Ricorda Musini nelle sue memorie:
«ieri ci capitò un bel caso. Stavamo con Costa girando per il quartiere del mercato a visitar infermi assieme al dottor Calì, quando il vetturino si accorse che un tale in vettura ci seguiva tenendo nota delle abitazioni da noi visitate. Temendo di equivocarci ordiniamo al vetturino di fermarsi artificialmente in vari punti e sempre quell’altro prende nota e ci segue. Allora il Calì smonta per vedere chi è e chiedergli ragione. Tosto lo riconosce per un appuntato di PS che, messo alle strette, confessa»[iii].
Le commemorazioni hanno sempre qualcosa di retorico, eppure ci aiutano a scandire il tempo passato e a non perdere la memoria storica. Un po’ come i compleanni, facciamo finta che non ci interessino ma poi li festeggiamo lo stesso. Nel dicembre 2019 si conteranno cinquant’anni esatti dalla strage di piazza Fontana e dall’assassinio dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Una data che oggi, nell’anniversario, ricordano un po’ tutti: la famiglia Pinelli, gli anarchici, perfino quelle istituzioni che vorrebbero trasfigurare la “strage di Stato” in “ricorrenza di Stato”. Nelle Marche vi invitiamo a seguire le attività del coordinamento “Jesi per Pinelli” del quale fa parte, insieme a molte altre soggettività individuali e collettive, il Centro studi libertari Luigi Fabbri.
Dicembre 1969
Venerdì 12 dicembre 1969: una bomba collocata alla Banca nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, provoca 16 morti (poi saliranno a 17) e oltre cento feriti. Un’altra viene ritrovata inesplosa alla Banca commerciale di Milano, in piazza della Scala. Altre tre scoppiano a Roma, provocando alcuni feriti: una alla Banca nazionale del lavoro e due all’Altare della patria.
È l’inizio della “strategia della tensione”: una strategia che aveva lo scopo di creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione. Individuare i colpevoli a sinistra faceva buon gioco per alimentare condizioni politiche e psicologiche tali da giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario e, così, mettere fine all’ondata di lotte sociali del 1968-’69. La mente sono i servizi segreti, gli alti ufficiali dell’esercito, diversi esponenti delle forze politiche di governo, il braccio sono alcuni militanti di organizzazioni neofasciste. Seguiranno altre bombe, altri morti, altre stragi: Gioia Tauro (1970), il treno Italicus (1974), piazza della Loggia (1974), la stazione di Bologna (1980), con la minaccia sempre incombente di un colpo di Stato reazionario (piano Solo del 1964, tentato golpe Borghese del 1970).
In quel dicembre 1969, come da copione, polizia, giornali e opinione pubblica borghese identificano immediatamente i colpevoli negli anarchici. In molti vengono fermati, tra questi Giuseppe Pinelli, invitato a seguire sul suo motorino una volante per degli accertamenti in questura.
Il 15 dicembre viene arrestato l’anarchico Pietro Valpreda («la bestia che ci ha fatto piangere» per i giornali), innocente, resterà in carcere tre anni. Pinelli, dopo tre giorni di fermo, viene fatto precipitare dal quarto piano della questura di Milano, dalla finestra della stanza dove venivano condotti gli interrogatori, l’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Il questore Marcella Guida, già fascistissimo direttore del confino di Ventotene, ora riciclatosi uomo d’ordine nell’Italia repubblicana “nata dalla Resistenza”, afferma che Pinelli si è suicidato perché colpevole dell’attentato.
Gli anarchici milanesi del Circolo Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli, nella conferenza stampa del 17 dicembre definiscono l’attentato “strage di Stato”; per il Corriere della sera si tratta di «farneticanti dichiarazioni degli anarchici». A Jesi gli anarchici Cesare Tittarelli e Duilio Rosini montano le trombe sopra la macchina e iniziano a girare per la città scandendo lo slogan che è ormai una verità storica: «Pinelli è stato assassinato. Valpreda è innocente. La strage è di Stato»
Epigrafe a Jesi, Piazza Indipendenza, atrio del Comune