Un posto a sedere su tutte le corriere!
Di Valerio
Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973
Nel novembre del 1973, dopo l’ennesimo incidente verificatosi a causa del soprannumero di studenti che per andare a scuola prendeva la corriera, il Coordinamento Cittadino Studenti Medi di Fano lanciò la mobilitazione generale. Sciopero ad oltranza in tutte le scuole e blocco totale dei mezzi pubblici che transitavano per il Pincio.
La proposta della mobilitazione passò per pochi voti, gli studenti dei partiti della sinistra istituzionale tentarono in tutti i modi di bloccare la mobilitazione ma, purtroppo per loro, il tempo della mediazione, delle petizioni, degli appelli era abbondantemente scaduto. Era invece giunto il momento della lotta, dell’azione di forza.
Quello che non si sapeva, era come avrebbero reagito gli studenti fuori sede di fronte a tale iniziativa: avrebbero partecipato allo sciopero o si sarebbero recati a scuola? E gli altri studenti, quelli che a scuola ci andavano in bicicletta, avrebbero solidarizzato con i loro compagni seguendoli in una lotta che si preannunciava lunga e dura? Dopo le varie assemblee studentesche, molti dubbi assalirono i giovani compagni della sinistra…
Fortunatamente, a fugare tali e tanti dubbi arrivò il giorno dei blocchi. L’appuntamento per i compagni dei collettivi era fissato per le sei della mattina, si dovevano bloccare le prime corriere che da Fano partivano alla volta di Urbino (ITIS e Scuola d’arte), poi sarebbe toccato ai mezzi che portavano i geometri a Pesaro e le maestre a Fossombrone. Si immaginava che quella mattina sarebbe potuto accadere qualche tafferuglio, ma credevamo che parte degli studenti fuori sede fosse decisa a entrare a scuola e quindi bloccare le corriere sarebbe stato molto difficile e l’azione si sarebbe forse trasformata in un atto puramente dimostrativo, invece…
Mercoledì 14 novembre.
Appena arrivati alla stazione delle corriere ci raggiunsero decine e decine di studenti, le cosiddette “sardine”, quelli che ogni mattina erano obbligati a salire su quei mezzi sgangherati e stracarichi. Nessuno di loro salì sui pullman, anzi tutti parteciparono al blocco, più il tempo passava, più la massa degli studenti aumentava, decine, centinaia, migliaia di studenti bloccarono il Pincio sdraiandosi davanti a quei mezzi antiquati. Oltre alle corriere anche i tram furono bloccati. Verso le dieci di quella mattina un corteo spontaneo si mosse dalla stazione delle corriere per andare a manifestare sotto il deposito di Vitali. Il traffico andò in tilt e la città impazzì. Il pomeriggio i compagni dei collettivi si ritrovarono in assemblea, bisognava scrivere un nuovo manifesto, stampare altri volantini e soprattutto coordinare il blocco del giorno dopo.
Giovedì 15 novembre.
Quel giorno la mobilitazione fu grandiosa: tutte le scuole vuote con gli studenti al Pincio a bloccare le corriere. Non solo, ma anche a Urbino, Pesaro e Fossombrone gli studenti scioperarono e si misero a bloccare il traffico.
Venerdì 16 novembre.
Terzo giorno di mobilitazione generale. La lotta dal Pincio era dilagata in tutta la provincia. La mobilitazione però cominciava a mostrare i volti dei molti nemici, primi fra tutti quelli delle ditte private che lucravano su questa situazione, poi i politici perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, infine i presidi che non solo avevano le aule completamente vuote, ma vedevano nascere agguerriti collettivi che ne mettevano in discussione il potere e oltre al posto su cui sedere chiedevano la mensa gratuita per chi era costretto a rimanere il pomeriggio, il rimborso del materiale didattico (libri e quaderni) per chi non poteva permetterselo, criticavano la didattica (cosa studiare, per chi studiare) e infine ritenevano di giudicare l’idoneità dei professori preposti all’insegnamento.
Alle nove circa di quel venerdì mattina, oltre agli studenti e alle corriere comparvero, d’un tratto, le verdi camionette del battaglione Senigallia.
Una, due, tre, quattro… dieci, venti!
I celerini, dopo essere scesi dai mezzi, si schierarono più o meno all’incrocio tra viale Gramsci e via Roma, si avvicinarono agli studenti convinti che con qualche spinta e qualche manganellata avrebbero risolto velocemente la faccenda.
Invece gli studenti resistettero! Si disperdevano durante le cariche ma poi tornavano a contrastare i poliziotti e tenere bloccate le corriere. Quella mattina si sviluppò una tale baraonda che si concluse solo verso mezzogiorno. A quel punto tutte le corriere e i tram bloccati rientrarono vuoti nei rispettivi depositi. Così fece la celere che se ne tornò in caserma.
Con parecchie contusioni e qualche bernoccolo, gli studenti avevano vinto la loro battaglia. Difatti, qualche giorno dopo, arrivarono al Pincio mezzi nuovi fiammanti e tutti gli studenti fuori sede ebbero a disposizione il posto su cui sedere.
Grazie a quella mobilitazione e agli scontri del Pincio si formarono collettivi politici in tutti gli istituti superiori. Contemporaneamente i compagni della Federazione giovanile comunista furono quasi tutti espulsi dal partito. Fu proprio dall’epurazione di quel gruppo che nacque Lotta continua, e fu così che Fano da tranquilla città di provincia si ritrovò in prima linea nel conflitto politico e sociale che, di lì a poco, avrebbe attraversato l’Europa.
Se Urbino è morta, noi no Il Collettivo per l’autogestione, la città ducale e tutto il resto
Di Pimpi detto “il Sindaco”
Illustrazione di Leonardo Altieri
Urbino non sta troppo bene. L’Università, sempre più azienda, riesce a far tutt’uno dei concetti di cultura, merce e spettacolo e dopo le lauree honoris causa ad Arrigo Sacchi, Oscar Farinetti e Valentino Rossi conferisce, a dicembre 2015, il Sigillo di ateneo niente meno che ad Albano Carrisi. Felicità! In Comune è insediata una destra neanche troppo camuffata dal grottesco avanzo di cabaret del sedicente “assessore alla rivoluzione”, Vittorio Sgarbi. Le iscrizioni all’Università sono in calo e la Lega in crescita, non è un bel periodo. Da sempre Urbino si specchia nei suoi studenti, ma spesso si gira dall’altra parte; da troppo tempo li sfrutta per i piccoli guadagni di bottega o per nutrire le miserie del potere accademico. E a chi non si adatta al rassicurante modello di studente con portafogli aperto e testa china sui libri ci pensano le ordinanze comunali e una piazza militarizzata. In assenza di forti movimenti sociali a livello nazionale è molto difficile coltivare uno spirito libero e critico nell’ambiente studentesco locale. Eppure c’è chi ci riesce, incredibilmente e con grande generosità.
Manifestazione studentesca a Urbino, 21 ottobre 2013
Erano i primi di ottobre del 2012 quando sbarbato e deluso dai risultati del test d’ammissione a fisioterapia, approdai a Urbino. Un borgo bellissimo, surreale, quasi un campus universitario. In tutta quella bellezza mi saltarono subito all’occhio delle locandine appese ovunque: riportavano la scritta “waiting for…” sotto la celebre foto dell’anarcosindacalista arrestato descritta dal motto “Sarà una risata che vi seppellirà”. Una storia curiosa che conobbi meglio quando una mattina rividi il manifesto sotto un gazebo di studenti del collettivo dell’aula C1 autogestita. Al tempo era un collettivo in fase di scioglimento dopo lo sgombero dell’aula C1 e la diaspora militante, tipica dei collettivi caratterizzati da una composizione studentesca. Si trattava di una campagna contro la repressione, in risposta alle numerose denunce arrivate ai militanti del movimento studentesco urbinate.
Conobbi meglio quei ragazzi e quelle ragazze nei giorni successivi durante le varie assemblee. In quei giorni a Urbino diversi studenti e studentesse si avvicinarono alla campagna contro la repressione e si creò di conseguenza un nuovo collettivo, sulla linea politica del vecchio: il Collettivo per l’autogestione. Il nome venne scelto dopo una riflessione politica sull’esigenza prioritaria che legava tutti gli studenti e le studentesse del nuovo collettivo: quella di uno spazio sociale autogestito che da dieci mesi Urbino non aveva più, dopo lo sgombero della C1. La prima azione pubblica di protesta a cui partecipai fu l’occupazione dell’aula C2 di Magistero. Andò malissimo. Dopo cinque ore c’erano venti sbirri in Università, reparto DIGOS, questore e tutto l’apparato repressivo in funzione su di noi: decidemmo di uscire. Eravamo appena nati, insicuri e senza certezze sulla continuità e la tenuta del neonato collettivo. La risposta politica successiva però fu ottima. Decidemmo così di aprire una vera e propria campagna sugli spazi a Urbino: liberammo l’anfiteatro dello studentato Tridente con due giorni di autogestione e iniziammo a comunicare con la città – intesa come cittadini “autoctoni” e studenti – evidenziando il problema dell’assenza di spazi, tanto che perfino in paese avevano iniziato a parlarne. Nel frattempo, dal “fronte opposto”, l’Università con la compiacenza dei rappresentanti studenteschi varava un regolamento per l’utilizzo dell’aula C3 ad uso delle attività studentesche. Assurdo! Di fatto esisteva già un regolamento per le iniziative studentesche nelle aule, pieno di punti restrittivi fatti per tenere ben lontani gli studenti dalla pratica dell’autogestione delle strutture universitarie. Proprio a causa dei regolamenti gli studenti di fatto non avevano spazi per iniziative autonome nell’Università.
Occupazione degli uffici ERSU di Urbino, 5 novembre 2014
Viste le circostanze, il 15 maggio del 2013, con un buon numero di persone di diverse facoltà abbiamo occupato l’aula C3 di Magistero: la Libera Biblioteca De Carlo, in riferimento alla posizione politica e sociale del famoso “architetto partigiano” sulla gestione e l’utilizzo degli spazi. Era il primo traguardo per noi ma soprattutto il punto di partenza, lo zero. Avevamo uno spazio da riempire di politica e socialità. Il Collettivo per l’autogestione è riuscito a mantenere aperto uno spazio di contatto importante con gli abitanti di Urbino rappresentato da “(R)esistenze Anomale, festival delle resistenze d’oggi”. (R)esistenze Anomale è l’emblema del contributo in termini di partecipazione sociale e politica che gli studenti e le studentesse di Urbino possono dare contro l’ignoranza, la superficialità provinciale e il neofascismo. Il festival cerca infatti di attualizzare, attraverso iniziative e attività ludico culturali, l’importanza della resistenza partigiana, indicando ogni anno le nuove resistenze e i nuovi fascismi in una società fatta di individualismo sfrenato, profitti e repressione sociale. Nel 2013 era arrivato al quarto anno di attività, in programma come di consueto durante la settimana del 25 aprile. Quell’anno si parlava della resistenza dei popoli in lotta: un’analisi ad ampio raggio fra Palestina, Paesi Baschi, Chiapas e Val Susa, sottolineando e valorizzando alcuni particolari aspetti della resistenza partigiana. Ciliegina sulla torta del festival, senza ombra di dubbio, furono le due serate di concerti in Piazza della Repubblica, la piazza principale di Urbino. Tanta gente, tanta partecipazione, tanto movimento.
Il collettivo era ormai nato e rodato e nell’anno accademico 2012/2013 è riuscito a stare sulla politica territoriale in modo incisivo, mantenendo l’aula occupata e producendo contributi analitici e militanti anche in rapporto alle principali iniziative politiche nazionali di movimento. Negli anni successivi l’impegno fu quello di rilanciare in modo forte la Libera Biblioteca De Carlo e le attività politico culturali sul territorio provinciale, in particolar modo cercando di creare una piattaforma comune con le realtà politiche anticapitaliste di Pesaro e Fano. Partimmo in pompa magna verso due date, lo “sciopero sociale” del 18 ottobre 2013 costruito dalla “Rete lavoratori, precari, disoccupati, studenti” a Pesaro e la sollevazione generale del 19 ottobre 2013. Il primo andò benissimo: aderirono i sindacati di base, ci fu un’amplia composizione studentesca e i contenuti furono molto validi, particolarmente sentiti dalle tante persone presenti al corteo. Il 19 ottobre andò diversamente: 70 mila persone, concentramento del corteo in una gremita piazza San Giovanni a Roma, enorme la composizione popolare dei lavoratori, degli studenti e degli occupanti di case. Era un dato numerico e sociale davvero ottimo: da anni non si vedeva una piazza così! Alla fine della giornata però mancava qualcuno. Mancavano Rafael e Jei-Jei, due compagni che conoscevo ormai bene. Il primo militante del CSA Oltrefrontiera di Pesaro ma con alle spalle dieci anni di attivismo studentesco a Urbino, il secondo un giovane compagno del nostro collettivo. In serata gli avvocati di movimento ci comunicarono l’arresto. Eravamo distrutti. La carica della polizia era durata poco e aveva coinvolto lo spezzone in cui eravamo collocati… il corteo si era disperso, ma non avevamo pensato al peggio. Eravamo stati assieme fino a dieci minuti prima. E invece li avevano pescati nei viali adiacenti il Ministero dell’Economia, a random e senza tante spiegazioni come sempre.
Studenti di Urbino contro lo Sblocca Italia, Ancona, 12 dicembre 2014
Visto l’accaduto decidemmo di aprire una campagna per la liberazione di tutti i compagni arrestati in quella giornata. Restammo stupiti dalla solidarietà ricevuta in quei giorni. L’assemblea e il corteo spontaneo in centro a Urbino nei giorni successivi contarono centinaia di persone solidali con la causa e con i loro amici. La gioia più grande arrivò quattro giorni dopo con la liberazione improvvisa di tutti gli arrestati. Fu bellissimo. Così come fu speciale un altro corteo due giorni dopo: tanta gente dietro un unico striscione “sporchi, brutti e cattivi, tana libera tutti”. Il nostro slogan ironico e amareggiato era la risposta alle infamità del Resto del Carlino che attraverso lettere anonime e titoloni in prima pagina con i cognomi dei nostri compagni, aveva fatto una vera e propria campagna diffamatoria degna del titolo “pennivendoli dell’anno”.
Da quel momento in poi siamo riusciti a riprendere con più serenità i nostri percorsi quotidiani: la rete provinciale, con la questione “diritto alla casa” in testa, la Libera Biblioteca De Carlo e le attività culturali annesse, l’antifascismo militante, le lotte ambientali e tanta socialità… come sempre. Abbiamo creato relazioni con altre realtà politiche e studentesche sul territorio nazionale e abbiamo organizzato una nuova edizione di (R)esistenze Anomale, questa volta completamente dedicata all’abbattimento delle istituzioni totali: dalle carceri agli OPG. L’unica tematica su cui non eravamo riusciti a suscitare interesse e aggregazione era quella relativa all’Università stessa. Forse a causa del riflusso a livello nazionale, forse per nostri limiti e forse per una diversa composizione sociale degli studenti frequentanti dopo i tagli ai fondi per le borse di studio del DdL Gelmini. Sinceramente non saprei, ma sarebbe stata solo una questione di tempo. Infatti a settembre 2014 un’assemblea pubblica diede il via al percorso di lotta riguardante gli idonei non beneficiari. Questi ultimi sono studenti che pur essendo idonei ai criteri di assegnazione delle borse di studio, non rientrano nell’assegnazione delle stesse a causa dei tagli alle risorse per il diritto allo studio. Gli studenti e le studentesse “senza pane” hanno cercato immediatamente di organizzarsi per ottenere quello che spettava loro.
Urbino, studenti contro il Jobs Act, 14 novembre 2014. Foto di Miranda
È nata così l’Assemblea per il diritto allo studio di Urbino, che attraverso cortei “rumorosi”, presidi, invasioni degli uffici della sede dell’ERSU (Ente per il diritto allo studio della Regione Marche) e solleciti formali è riuscita a ottenere il pagamento delle borse a febbraio 2015! Fu una lotta vinta, che ci diede un’enorme soddisfazione, perché si trattava di noi e dei nostri più cari amici e compagni, del loro studio e della loro permanenza a Urbino. Una battaglia che è continuata anche nei primi mesi del nuovo anno accademico 2015/2016. Infatti una parte della quota conquistata durante le lotte non era stata ancora erogata e il problema degli idonei si era riproposto di nuovo. L’Assemblea per il diritto allo studio ha ripreso il passo grazie a chi l’ha sempre seguita e a chi puntualmente è stato colpito dalla questione materiale riguardante la vertenza in atto. Noi “vecchi” nel frattempo abbiamo sperimentato la classica diaspora militante e ci chiedevamo sfiduciati: “il collettivo come farà? il collettivo andrà avanti?”. Il collettivo alla fine c’è ancora, lotta per le borse di studio e sta andando avanti su tutti i fronti possibili. Questo è un dato eccezionale: a Urbino, piccola città e piccolo ateneo, ogni anno un gruppo di studenti e studentesse antifascisti e anticapitalisti si organizza, dà contributi alle lotte e mette in gioco la propria testa, i propri cuori e i propri corpi cercando di riequilibrare la bilancia della diseguaglianza e dello sfruttamento. È una situazione particolare, paesana ma allo stesso tempo meticcia, su cui nessuno scommetterebbe ma che ogni anno esiste e ritaglia il suo posto nello scenario purtroppo resistenziale che caratterizza le lotte in tutto il paese.
Urbino è morta, perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata: è vietato bere alcolici in piazza e per strada, non esistono spazi sociali liberi all’esterno dell’Università e l’anfiteatro del Tridente, uno dei pochi spazi dei collegi universitari che era ancora utilizzabile per eventi ludici ricreativi, è serrato con un portellone antincendio dalle 19 in poi. Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità.
Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.
bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.
Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economica di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.
L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorgersene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribuita sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei politici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.
Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei giovani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Giovani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso producono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:
«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.» A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.
Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono comunque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:
«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualcosa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…» V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.
Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di subordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.
commenti da FB
Garanzia giovani: il circo dei tirocini
Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione economica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il progetto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormente colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.
Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruotano attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Manpower e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamento professionali.
I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:
«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccupazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.» G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.
Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.
A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corollario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pagati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.
Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:
«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’azienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?» E.B., donna, 26 anni, Senigallia.
A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:
«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del contratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.» A.S., donna, 30 anni, Ancona.
Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Marche, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spesso coprono forme di sfruttamento:
«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di esperienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.» M.R., donna, 20 anni, Macerata.
Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:
«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?» V.T., donna, 28 anni, Camerano.
Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupati? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:
«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.» G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.
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Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso
Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’invecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi aggrappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’italiana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?
A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’alto, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o imprese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.
E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in questa regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surreale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffondere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’ambiente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.
Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni vengono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddistinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in competizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.
Pesaro, marzo 2017 – Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro
Le risposte
È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma purtroppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contraddizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.
Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvicinerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.
Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinunciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresentanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle esperienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.
Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di collegamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle lamentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.
Se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare
Di Libera Biblioteca De Carlo
Urbino, Libera Biblioteca De Carlo.
“Urbino è morta perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata. […] Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità”.
Questo è ciò che scriveva Pimpi più di due anni fa, nell’edizione di gennaio [#2, ndr.] di Malamente, e ci piacerebbe dire che abbiamo fatto la rivoluzione, che la città è piena di spazi e libera dalla repressione, ma purtroppo le cose non stanno così. Urbino, ancora oggi, si porta dietro l’immagine di città-campus, una città pensata a misura di studente, piccola per conformazione, circondata da mura, quasi un museo a cielo aperto, ma anche un luogo dove divertirsi e trovare momenti di svago. L’Urbino composta dai suoi cittadini si affianca all’Urbino degli studenti, a tal punto che le due dimensioni si ibridano e si confondono, sovrapponendosi e mischiandosi in quella che è, appunto, definita come una vera e propria città-campus. Un’immagine che appare accattivante e invitante riuscendo così ad essere convincente per quella parte di studenti che devono decidere dove passare i prossimi anni della loro vita. Peccato che questa sia l’Urbino di quarant’anni fa!
Già Pimpi aveva descritto alcune problematiche della realtà urbinate: la mancanza di spazi liberi all’esterno dell’università, l’ordinanza anti-alcol e le numerose misure repressive nei confronti di chi osa dissentire. Ma se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare. Anche se il ricambio generazionale e la dimensione universitaria portano questa città a essere un luogo di passaggio per studenti e studentesse, noi siamo qui oggi e continuiamo a batterci per gli stessi ideali. Il Collettivo per l’Autogestione non esiste più, o meglio, si è trasformato in quella che oggi è la Libera Biblioteca De Carlo che, a sua volta, ha adattato le sue pratiche conflittuali sulla base dei nuovi componenti che la animano. Il fulcro delle lotte in questi ultimi due anni è stata proprio la mancanza di spazi e l’opprimente controllo sociale. Non a caso in conseguenza alle politiche portate avanti dal Comune abbiamo sentito l’esigenza, nell’aprile del 2017, di aderire all’Assemblea per il diritto alla città insieme ad altri studenti e cittadini di Urbino. Alle modalità di gestione dell’ordine pubblico, repressive e limitanti, abbiamo quindi risposto creando momenti di dialogo, confronto e socialità, cercando di rendere nuovamente fruibili tutti quegli spazi che una volta potevano essere vissuti appieno dalla comunità.
Lavori di restauro all’aula occupata autogestita C3.
In tale clima siamo riusciti a organizzare una mobilitazione che ha raggiunto il suo apice l’8 maggio 2017, giornata in cui più di 400 studenti, e non, hanno popolato la piazza scontrandosi direttamente con il sindaco e la sua giunta in merito alle politiche intraprese negli ultimi anni. Il Comune infatti, in un’escalation di misure repressive volte a limitare l’accesso agli spazi pubblici e alla criminalizzazione dello studente, non ha fatto altro che accrescere il conflitto tra le diverse soggettività che animano la città. È stata proprio la piazza, luogo per antonomasia di discussione e incontro, a ritrovarsi di fronte a un emblematico svuotamento e a una perdita di significato a causa dell’eccessiva militarizzazione e chiusura dello spazio urbano. Per questo motivo, proprio da lì abbiamo deciso di rivendicare il nostro diritto a vivere la città. Impossibile negare che avevamo riposto numerose speranze nell’assemblea e nella mobilitazione dell’8 maggio. Purtroppo, a distanza di un anno, ci siamo resi conto di non essere riusciti a indirizzare verso veri e propri risultati pratici quelle potenzialità; forse per inesperienza, forse per un’analisi poco corretta o forse ancora non lo abbiamo capito!
Da questo percorso si è consolidata ancora di più la collaborazione tra i due soggetti che da tempo vivevano l’aula occupata ex C3: il Collettivo e La Sociologica, che hanno deciso di costituirsi come soggetto unico mettendo in comune le proprie pratiche e le proprie prospettive nella Libera Biblioteca De Carlo.
Essendo un collettivo universitario, abbiamo deciso per quest’anno di oc¬uparci in particolare dell’università e dei suoi mutamenti a partire dalla scelta presa dal nostro ateneo di aderire all’accordo tra CRUI e Ministero della giustizia. Tale accordo, che si palesa con una progressiva militarizzazione dell’istituzione universitaria, si configura come la base di un progetto molto più ampio. Se le sue fondamenta ci restano oscure, abbiamo potuto notarne chiare conseguenze nella costituzione del master in comunicazione strategica organizzato in collaborazione con il 28° Reggimento Pavia di Pesaro, con il conferimento del Sigillo di Ateneo al Capo della polizia e della Pubblica sicurezza Franco Gabrielli, regista della discutibile gestione delle situazioni emergenziali di Ventimiglia e de L’Aquila e con tutta un’altra serie di eventi-vetrina, volti a consolidare l’immagine di un’università propensa alla sicurezza e al decoro.
In piazza per il Diritto alla Città, 8 maggio 2017
Noi non ci siamo mai tirati indietro dal contestare il corteggiamento dell’università nei confronti dell’esercito e delle forze dell’ordine. Non l’abbiamo fatto prima e non lo faremo tanto meno ora, soprattutto dal momento in cui l’ateneo ha stretto accordi con i Carabinieri e la Guardia di finanza per la riduzione del 30% delle tasse per le forze dell’ordine e i loro familiari, dimostrando come un diritto di tutti possa divenire sempre più esclusivo. La repressione subita durante questi eventi è stata la solita degli ultimi anni: divieto di accesso alle aule in cui sono tenuti questi teatrini, la Digos che ci segue come ombre, la presenza del questore durante la contestazione ad Alfano, le telecamere puntate addosso, ma nulla al di fuori dell’”ordinaria repressione”. Come nel film L’odio, “il problema non è la caduta ma l’atterraggio” avvenuto quando durante la consegna del Sigillo di Ateneo al Generale Toschi della Guardia di finanza sono state attuate delle procedure di sicurezza anti-terrorismo, con il solo problema che il terrorista in questo caso era lo studente.
L’ironia della sorte ci riporta a venerdì 17, data carica di simbolismi all’interno del senso comune. Quella mattina ci siamo presentati all’ingresso dell’università dove stava avendo luogo il conferimento del Sigillo al Generale e il benvenuto ci è stato dato da un massiccio dispiegamento di carabinieri, poliziotti e finanzieri. A rigor di quella stessa ironia, in quanto studenti l’ingresso ci è stato negato, onorandoci esclusivamente della possibilità di poter manifestare le nostre “dimostranze fuori” (cit). Naturalmente non è mancata la volontà di oltrepassare lo sbarramento, tentativo che, seppur fallito nel suo intento, ha avuto il merito di concretizzare quella tensione che già si percepiva nell’aria. Difatti, una volta aperto lo striscione, ha avuto inizio il gioco del tiro alla fune con la Guardia di finanza che è andato a concludersi con una nostra “vittoria” portando, però, a un successivo inseguimento del nostro compagno che stringeva il premio tra le mani. La caccia al lupo si è conclusa con il rilascio di un calcio a un altro dei nostri che cercava di capire le intenzioni dell’uomo in divisa.
Il finale di alcune storie si mostra chiaro fin dall’inizio, ma in questo particolare caso la violenza che ne è scaturita è stata del tutto nuova nel contesto universitario urbinate. Il culmine dello scontro è stato raggiunto nel momento in cui un compagno è stato atterrato e sbattuto contro il muro per poi essere successivamente trascinato per i capelli all’interno dell’ateneo, spazio trasformatosi improvvisamente in una caserma. Il ragazzo ha subito il solito trattamento riservato alle “zecche”: insulti, minacce di violenza, di arresto ecc. Dopo una mezz’oretta, in cui non sono mancati atti intimida tori per coloro che si trovavano all’esterno, il compagno viene denunciato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e finalmente rilasciato dal “Commissariato degli Studi di Urbino”. Tutta la vicenda era stata ripresa da una compagna alla quale è stato letteralmente strappato il telefono dalle mani e poi riconsegnato dopo aver cancellato i video che testimoniavano gli eventi di quella mattinata. Il saluto, infine, ci è stato dato da un “tornate da dove siete venuti, è meglio per tutti!”.
Se il finale non è sempre prevedibile, al contrario la morale è sempre presente. Ciò che emerge dalla giornata di venerdì 17 è la chiara volontà di reprimere il dissenso al fine di facilitare la costruzione di una facciata pulita, ordinata e sicura, voluta dall’ateneo. Questo aspetto si è palesato in diverse circostanze, come il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico in cui ancora una volta ci è stato negato l’accesso all’interno del polo didattico Volponi, o quando siamo stati minacciati di denuncia per aver organizzato un pranzo sociale nella nostra aula occupata autogestita. A distanza di poco più di un mese dal fatidico venerdì 17, abbiamo ricevuto la visita di un responsabile delle sedi universitarie che, attraverso un ulteriore uso scontato delle intimidazioni più volte sentite, ci ha costretti ad annullare la “Fejolada Popular”. Ora, il problema non risiede assolutamente nei fagioli, questo è abbastanza chiaro, ma in un episodio repressivo avvenuto questa volta non fuori, ma proprio all’interno dell’ateneo. Visto l’accaduto abbiamo deciso di rispondere chiamando un’assemblea pubblica con l’obiettivo di discutere in merito a queste pratiche ormai sempre più frequenti che ogni giorno si presentano in modo esponenziale sulla nostra pelle. Il nostro slogan “Non ci avrete mai come volete voi. Viva i fagioli!”, tragicamente ironico, ha rappresentato poi la nostra presa di posizione nei confronti della papabile denuncia all’autorità di pubblica sicurezza se avessimo organizzato l’evento.
Aula C3, Libera Biblioteca De Carlo, “Fejolada Popular”.
Da cinque anni la Libera Biblioteca De Carlo è un esperimento di autogestione, un luogo dove poter sviluppare un pensiero critico, uno spazio di aggregazione e autorganizzazione dove si incontrano diverse esperienze. Sono numerose le persone che hanno attraversato e attraversano tuttora l’aula e non poche sono le attività organizzate: dalle presentazioni di libri, ai cineforum, alle assemblee e pranzi sociali. Uno spazio che possiede una propria unicità in una realtà piccola come quella di Urbino; uno dei molti spazi progettati dall’architetto Giancarlo De Carlo dove risiede l’idea dell’università orizzontale e partecipata, dell’incontro e del confronto, della diffusione e condivisione. In molti si sono dati da fare per rendere più accogliente questo unico spazio libero a disposizione degli studenti. La partecipazione e le idee si sono mostrate sempre più numerose nel lavoro pratico svolto quotidianamente: siamo riusciti a sbarazzarci di una moquette ormai rovinata sostituendola con un parquet, abbiamo creato una biblioteca autogestita, riordinando, catalogando e mettendo a disposizione più di duemila libri. Come realtà autorganizzata che porta avanti una politica dal basso, abbiamo potuto realizzare tutto questo attraverso la vecchia e buona pratica dell’autofinanziamento. Naturalmente, non sono mancate visite indesiderate che, con occhio attento, controllavano che il lavoro non andasse oltre la sostituzione del pavimento visto che, da parte nostra, c’era anche l’intenzione di ridipingere le pareti dell’aula per completare il lavoro di restauro. Fino a quando la manovalanza autogestita va a sostituire un obbligo di manutenzione dell’ente, va tutto bene, ma se poi si tratta di creare qualcosa come un murales, espressione libera di una socialità organizzata, l’unica risposta dallo stesso ente è una minaccia di denuncia (perché il pavimento glielo abbiamo fatto noi, ma poi il muro se lo devono pulire loro!).
Se Urbino era morta, oggi ne troviamo le macerie che continuiamo a raccogliere una a una, mettendo in gioco le nostre stesse teste, cercando di riequilibrare una socialità sempre meno libera che tocca da vicino tutte e tutti noi studenti. E come diceva l’ormai non più sbarbato Pimpi, continueremo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino da anni ha intrapreso, trovandoci la maggior parte delle volte dalla “parte sbagliata” della barricata, che in fin dei conti non è nemmeno così male!