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Auto-ricostruzione nel cratere. Come tornare ad abitare i territori colpiti dal sisma (#14)

Intervista di Luigi a Sara Campanelli (ARIA Familiare), Chiara Braucher (Emidio di Treviri) e Stefano Mimmotti. Da Malamente #14, maggio 2019 [QUI IL PDF]

In un precedente numero di Malamente (#8, settembre 2017) avevamo parlato di autocostruzione di case, concentrandoci in particolare sull’utilizzo di legno e balle di paglia. Torniamo ora sullo stesso argomento, calandolo nel contesto della ricostruzione post terremoto dell’Appenino centrale. Siamo stati nei pressi di Camerino, ospitati nella casetta di legno provvisoria di Stefano e Simona, e abbiamo discusso delle possibilità di auto-ricostruzione, in cantieri aperti ai volontari, insieme a Sara Campanelli dell’associazione ARIA Familiare [Associazione rete italiana autocostruzione] e Chiara Braucher del gruppo di ricerca Emidio di Treviri. L’auto-ricostruzione ci sembra particolarmente interessante sia perché consente la riappropriazione comunitaria e la condivisione gratuita di un “saper fare” che non dovrebbe essere esclusivamente delegato a imprese specializzate, sia perché non riguarda solo il mettere in piedi un edificio, ma comporta la creazione di legami sociali sul territorio e la ricostruzione di relazioni umane, a partire dallo stare insieme, volontariamente, attorno a un progetto di vita molto concreto. Ci sembra, insomma, una buona strada per tornare veramente ad “abitare” i territori interni colpiti dal terremoto del 2016 ed evitare che un giorno questi paesi si ritrovino pieni di case ristrutturate ma vuote perché prive di tessuto sociale.

Partiamo da voi stessi: come siete entrati in contatto attorno al tema dell’auto-ricostruzione nel cratere del sisma?

Sara: Con Stefano e Simona ci siamo incontrati per la prima volta nel novembre 2016 a Fermo, a una piccola fiera post sisma dedicata all’edilizia (Riabita). Io era stata invitata a parlare di costruzioni leggere, naturali e loro erano interessati alla possibilità di auto-ricostruirsi la casa che si trova in condizione di inagibilità di tipo E, cioè un edificio che risulta inutilizzabile in ogni sua parte. Mi ricordo una frase che mi disse Simona: “se devo rimanere a Calcina e ricostruire non voglio più avere le pietre intorno a me”. Dopo poco tempo mi hanno chiesto di diventare il loro tecnico incaricato per seguire la pratica sisma, così mi sono iscritta all’elenco speciale dei professionisti abilitati.

Auto-ricostruzione nel cratere. Come tornare ad abitare i territori colpiti dal sisma (#14)

Sciare a tutti i costi. A due passi dal mare. Monte Catria: lo scempio dei nuovi impianti sull’Appennino marchigiano

In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.

QUI IL PDF

Che bello sciare sul Catria

di Luigi

Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.

Protesta dell’associazione Lupus in fabula, luglio 2018

Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa

Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.

Sciare a tutti i costi. A due passi dal mare. Monte Catria: lo scempio dei nuovi impianti sull’Appennino marchigiano

Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino (#8)

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Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]

Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.

Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.

Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).

Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.

A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.

Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.

Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale

Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.

Fig. 1 - Mappa delle placche tettoniche della Terra
Fig. 1 – Mappa delle placche tettoniche della Terra

L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.

Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino (#8)

L’Albero Maestro. Una realtà di “pedagogia del bosco” a Urbino

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Intervista di Luigi a Nicoletta e Serena [da Malamente #12, ottobre 2018] [QUI IL PDF]

La natura non è un posto da visitare. È casa nostra.
Gary Snyder

Il rapporto di molti bambini con l’ambiente naturale è oggi sempre meno diretto, spesso si riduce al palcoscenico di una gita domenicale o alla visita programmata in fattoria didattica, anche perché la quotidianità della vita urbana o semi-urbana ne cattura l’attenzione, loro malgrado, in un mondo di cemento, plastica ed elettronica. Nelle scuole d’infanzia, a parte rare eccezioni in cui qualche nonno è chiamato a piantare pomodori in giardino, si diventa per lo più abili a colorare le fotocopie di un albero senza uscire dai bordi, poco importa se non si è più in grado di riconoscere le piante attorno casa o se non si è mai sentito il profumo di un bosco d’autunno. Anzi, non è infrequente che le nuove generazioni, sempre più abituate a vivere in spazi chiusi, artificiali e igienicamente ipercontrollati, provino sensazioni di disagio quando sono chiamate a uscire dalla propria bolla per entrare in contatto con la materia organica, si tratti di camminare a piedi nudi sulla terra o bere latte appena munto.

Ma ci sono anche bambini e bambine che trascorrono le proprie giornate principalmente all’aria aperta, che sia estate o inverno, tra osservazioni e scoperte, esplorando in libertà il mondo esterno e le potenzialità della propria autonomia. Spesso si sporcano, ogni tanto si sbucciano un ginocchio. Non sanno cosa siano i “lavoretti” uguali per tutti/e e la curiosità è il motore della loro crescita. Li potete incontrare a spasso tra le campagne e i boschi delle Cesane di Urbino: sono i bambini e le bambine di Maestra Natura, un progetto educativo che è da poco entrato nel suo secondo anno di attività, rivolto, per ora, alla fascia uno-sei anni.

Nella sede che domina la vallata da dove, quando l’aria è tersa, lo sguardo può correre fino al mare, i bambini non sono oggetto di un trasferimento di competenze da parte degli educatori, ma soggetti di esperienze vissute, con buona pace di quei genitori ansiosi che i figli non imparino mai abbastanza per “essere pronti” all’ingresso nella scuola primaria, che è in primo luogo imparare a restare buoni e seduti fino al suono della campanella. Inoltre, lo stile educativo di Maestra Natura (e delle molteplici esperienze di outdoor education che si stanno sviluppando anche altrove, anche nelle Marche) non tiene conto solo della sfera cognitiva, perché imparare a gestire fin da piccoli le proprie emozioni e i rapporti umani con gli altri è altrettanto importante che imparare l’inglese e le tabelline e, probabilmente, è una buona strada per iniziare a costruire un futuro di migliore convivenza.

Su Malamente abbiamo già dato spazio a esperienze educative fuori dagli schemi oggi maggioritari, questa volta abbiamo intervistato Nicoletta e Serena, fondatrici ed educatrici dell’associazione L’Albero Maestro, al cui interno si sviluppa anche il progetto Maestra Natura.

Vi chiedo intanto di presentarvi. Da che percorsi personali siete arrivate all’apertura dell’associazione L’Albero Maestro e del progetto Maestra Natura?

L’Albero Maestro. Una realtà di “pedagogia del bosco” a Urbino

Squadristi a Rimini (#8)

Di Chiara Fanelli e Eugenio Salvatori [QUI IL PDF] Estratti dalla tesi di laurea “Il biennio rosso nel riminese”, A. A. 2014/15 Di Eugenio Salvatori La sera del 19 maggio accade il fatto più grave… Squadristi a Rimini (#8)