Come preannunciato, gli effetti della crisi climatica che la nostra epoca ha generato sono sempre più espliciti e invasivi. Gli anelli più delicati dell’ecosistema sono ovviamente i contesti in cui gli effetti risultano più visibili.
Dal punto di vista molto specifico del nostro mestiere osserviamo ormai da più di dieci anni un peggioramento della salute e della vitalità delle api. Ma è negli ultimi quattro o cinque che il fenomeno è ancora più evidente.
La fionda artigianale in legno
Di Captain Swing [QUI IL PDF]
La nascita della fionda così come la intendiamo oggi risale a non oltre l’invenzione della gomma vulcanizzata da parte di Charles Goodyear nel 1839 (brevettata nel 1844). Il primo modello prodotto commercialmente è la Zip-Zap in ghisa del 1918, ma l’aumento di popolarità e diffusione si ha solo nel secondo dopoguerra a partire dal modello Wham-O in legno di frassino e, soprattutto, grazie alle infinite varietà delle realizzazioni artigianali.
Fionda modello Zip-Zip, 1918
Fionda modello Wham-O, 1948
L’antenato della fionda è la frombola, la cui origine è sconosciuta ma che certamente risale a tempi preistorici, costituita da due corde unite da una tasca contenente l’oggetto da lanciare. Tenendo un’estremità legata al dito, la frombola viene fatta roteare velocemente per poi aprire la mano e lasciare libera la seconda estremità, in modo che la forza centrifuga faccia partire il proiettile in velocità. Arma tipica delle società nomadi e pastorali, il più famoso esempio di utilizzo è la storia biblica di Davide e Golia, del X sec. a.C.: com’è noto, il piccoletto armato di un sasso, tanto coraggio e fede nel suo Dio ha la meglio sulla violenza bruta del gigante. In guerra era impiegata dai reparti di frombolieri, non direttamente arruolati nell’esercito romano ma presenti in truppe ausiliarie di soci o alleati. Talvolta le corde erano montate su lunghi bastoni (mazzafionda) che prolungando il braccio del lanciatore permettevano una maggiore gittata e consentivano di scagliare proiettili di piombo pesanti fino a 400 grammi.
Antico fromboliere
La frombola attraversa tutto il Medioevo: è un’arma “povera”, utilizzata come strumento da caccia e insieme agli attrezzi agricoli per la difesa da parte dei contadini, mentre le armi vere e proprie erano appannaggio delle classi sociali più abbienti. In età moderna compare incidentalmente anche sulle pagine di Galileo, per confutare le argomentazioni non scientifiche di un gesuita che coi giri di frombola sosteneva si potesse nientemeno che cuocere le uova[1]. Oggi fionde e frombole continuano a essere strumenti di semplice realizzazione e di discreta efficacia. Al di là dell’uso ludico, sono protagoniste di tutti quei contesti di rivolta popolare in cui volano pietre, amplificando i lanci. Le abbiamo viste nelle piazze occidentali e, in mano a giovani palestinesi, sono diventate nell’immaginario collettivo uno dei simboli dell’Intifada.
Palestinesi contro soldati israeliani, Beitunia-Ramallah, ottobre 2013
Le componenti
Il telaio di una fionda, detto “forcella”, è la parte rigida e biforcuta che si tiene in mano. Le forcelle possono essere di vari materiali: metallo, plastica, legno. Anche un semplice tondino di ferro opportunamente ripiegato per fargli assumere la classica forma ad Y può diventare un telaio da fionda. Le forcelle in legno possono venire ritagliate da tavole multistrato, con il vantaggio di poterne scegliere e disegnare la forma, oppure possono essere prese direttamente dai rami degli alberi. Quasi tutti i tipi di legno vanno bene, nelle nostre zone appenniniche tra i tagli più adatti abbiamo roverella (quercia), ciliegio, carpino, faggio, castagno, orniello (frassino). Anche l’olmo si presta bene per la sua flessibilità, tanto che la forcella può essere addirittura modellata direttamente sull’albero, posizionando per tempo dei tutori che faranno prendere al ramo in crescita la forma voluta. Per creare forcelle da legno naturale l’aspetto più importante è che il taglio venga effettuato al momento giusto: l’ideale è durante la luna vecchia di febbraio, in tal modo il ramo resterà privo, o quasi, di linfa.
Forcelle grezze
L’elastico è la componente più importante, è lui che immagazzina e rilascia energia e che fa la differenza in una fionda. Gli elastici possono essere tubolari oppure piatti, in lattice o gomma. I tubolari, nonostante vengano utilizzati per motivi di praticità in quasi tutte le fionde commerciali, hanno bisogno di un’elevata forza di trazione in rapporto alla potenza di uscita e garantiscono minore precisione rispetto a quelli piatti; nelle armerie o nei negozi di caccia e pesca si trovano, come pezzi di ricambio, già pronti e completi di toppa.
Elastico tubolare con toppa
Per quanto riguarda gli elastici piatti, vanno bene quelli semplici a fascetta, in gomma, che si trovano comunemente in cartoleria, mentre se si vuole andare sul lattice il miglior tipo è il Thera-Band, di solito utilizzato per esercizi di fitness e per fisioterapia. Thera-Band è reperibile in fasce elastiche di differenti lunghezze, larghe circa 15 cm, che andranno ritagliate per ricavarne strisce adatte al lancio. È disponibile in diversi colori, che indicano diverso spessore e resistenza: dal beige (“extra sottile”, 0,1 mm di spessore) al giallo, rosso, verde, blu, nero, argento, per finire con il colore oro (“massima resistenza”, 0,6 mm di spessore); con un allungamento del 100% della misura iniziale si esercita una forza che va dai 0,9 kg dell’elastico beige ai 9,8 kg dell’oro.
Fasce elastiche Thera-Band
La toppa portaproiettile deve essere morbida ma robusta, se è troppo fina rischia infatti di strapparsi ai lati dove è fissata all’elastico. Può essere in cuoio, pelle di canguro (leggerissima, robusta e morbida), ma anche in materiali di origine non animale. Le munizioni più comuni sono biglie di vetro o acciaio e sassi, tenendo presente che più il proiettile è sferico meglio seguirà la traiettoria impressa dal lancio. Altre componenti accessorie, non necessarie in una fionda di semplice realizzazione artigianale, sono il sostegno che si appoggia sull’avambraccio per impedire al polso di piegarsi, lo stabilizzatore centrale, le bande di mira tra i bracci della forcella e ulteriori diversi strumenti (una fionda dotata del supporto adeguato può, ad esempio, anche scoccare frecce).
La costruzione
Tenendo fermi i principi base della meccanica di una fionda e facendo sempre attenzione alle regole di sicurezza e buon senso, non c’è limite alla fantasia nella costruzione (su internet si possono trascorrere giornate intere a leggere e discutere sui forum specializzati, quasi tutti in inglese, in genere però frequentati da ambigui appassionati di armi e patiti di caccia). Vedremo qui di seguito i passaggi per la costruzione di un modello base di una semplice ed economica fionda in legno naturale.
Gli strumenti
Gli strumenti necessari sono: una sega per tagliare il ramo, un buon coltello, una raspa tonda e della carta vetrata. Servirà un taglierino per gli elastici piatti e un trapano nel caso si vogliano usare elastici tubolari; utile ma non indispensabile una pinza fustellatrice per praticare i buchi sulla toppa.
La scortecciatura della forcella
La forcella
Il punto di partenza è la scortecciatura e sgrossatura preliminare della forcella. I bracci vanno ridimensionati fino a renderli uguali tra loro, l’impugnatura può essere resa completamente liscia o con le scanalature per il posizionamento delle quattro dita. Una fionda di medie dimensioni ha bracci lunghi 10 cm, con una distanza tra le loro estremità sempre di 10 cm.
Sgrossatura preliminare della forcella
Una volta sagomata, la forcella andrà modellata (se si è scelto con cura il ramo adatto, questo passaggio potrebbe anche essere saltato). Prima di procedere a questa operazione è bene lasciarla qualche ora sopra una fonte di vapore, anche una semplice pentola con acqua bollente, in modo che il legno si ammorbidisca. La “messa in forma”, per la quale ci si può aiutare con dei morsetti, riguarda due aspetti. Il primo è il punto di biforcazione, che deve prendere la giusta curvatura, per questo vi si incastra un tondino o un’asticella di legno mentre un filo di ferro tiene in tiro le estremità dei bracci verso l’interno. Il secondo aspetto è l’asse di allineamento dei due bracci rispetto al piano dell’impugnatura. La forcella rimane in forma fino ad avvenuta asciugatura, la cui durata dipende dalle condizioni climatiche: se c’è vento caldo sarà sufficiente qualche giorno, altrimenti sono necessari anche un paio di mesi. Una scorciatoia per asciugare e togliere la linfa al legno è l’utilizzo del forno a microonde; avendo cura di avvolgere la forcella in uno scottex o in un canovaccio si imposta il programma defrost per quattro cicli di un minuto ciascuno, lasciando riposare il legno tra l’uno e l’altro. Va ricordato che se il legno è stato tagliato dalla pianta nel periodo della luna vecchia di febbraio l’operazione di asciugatura sarà ridotta al minimo.
Forcelle in asciugatura
Si passa poi a realizzare le guide per gli elastici. Se si monteranno elastici piatti va praticata con la raspa tonda un’incisione circolare profonda qualche millimetro a distanza di circa mezzo centimetro dalle estremità dei bracci. Se si useranno elastici tubolari vanno invece creati con il trapano due fori, prima con una punta piccola da 4 e poi ripassando il buco con una punta da 8; nei bracci della forcella dovranno rimanere almeno 5 mm di spessore per parte (quindi il diametro complessivo del braccio non deve essere inferiore ai 18 mm). Un’ulteriore variante consiste nel praticare un taglio verticale sulle cime dei bracci, profondo circa un paio di cm, su cui poi si potrà andare a fissare il comune elastico piatto di gomma.
Forcelle con guide per elastici in tre varianti
La fase seguente è la sfinatura, da fare con carta vetrata fine per rendere ben liscia la superficie del legno. Successivamente la forcella va messa a bagno in una soluzione antitarlo, poi passata con impregnante ad acqua e infine leggermente strofinata con carta vetrata finissima per togliere la patina superficiale. Se invece di far risaltare il legno naturale la si volesse decorare è possibile utilizzare in questa fase colori acrilici. Come ultimo passaggio, la forcella va trattata con cera d’api (o prodotti alternativi vegetali). È preferibile che il legno venga riscaldato prima di ricevere la cera, così da assorbirla meglio, quindi si procede a strofinare con un panno di lana per togliere l’eccesso e rifinire la forcella fino a lucidarla: queste operazioni riescono meglio se fatte al caldo, davanti al camino o a una stufa.
Gli elastici
La distanza tra il polso teso in avanti e il punto sulla guancia fino al quale si tende l’elastico, detto “punto di ancoraggio”, è in un adulto di circa 70-80 cm. Per garantire una vita abbastanza lunga all’elastico, senza sottoporlo a eccessive sollecitazioni, bisogna prevedere un allungamento di circa tre o quattro volte la sua misura iniziale. Pertanto, in linea di massima, possiamo utilizzare elastici di 23-25 cm., considerando che qualche centimetro andrà perso per i fissaggi alla forcella e alla toppa. Oltre alla lunghezza un altro fattore da considerare è la rastrematura o conicità. Un elastico più largo alla forcella e più sottile alla toppa sviluppa un’accelerazione maggiore, ma tende ad usurarsi più velocemente; è particolarmente utile tenere in considerazione questa caratteristica quando l’elastico viene ritagliato da fasce Thera-Band.
In rete si possono anche trovare dei fogli di calcolo che in base a una serie di parametri da impostare (apertura del tiratore, peso dei proiettili, tipo di bande elastiche e bilanciamento tra potenza sviluppata e loro durata) indicano lunghezza e fattore di rastrematura ideale dell’elastico, o degli elastici nel caso ne vada utilizzato più di uno per lato[2]. Per gli elastici tubolari si parla invece di pseudo-rastrematura, che può essere ottenuta in due modi: utilizzando, a partire dalla forcella, un tubolare con potenza maggiore seguito da un tubolare con potenza inferiore, legati da opportuna giunzione, oppure non fissando l’estremità dell’elastico alla forcella ma facendolo tornare indietro verso la toppa in modo che per una certa lunghezza risulti doppio.
Ritaglio delle bande elastiche da una fascia Thera-Band
L’elastico piatto va fissato alla forcella posizionandolo nella scanalatura già predisposta, facendo attenzione che tutte le parti del legno a contatto con l’elastico siano ben levigate. Per stringere e legare si può utilizzare un comune cordino o, meglio, striscioline di Thera-Band larghe 2-3 mm e lunghe 5-6 cm, da arrotolate attorno all’elastico mentre quest’ultimo viene mantenuto in tensione. Giunti a metà della strisciolina si pone uno spago ad asola, vengono fatti ulteriori giri e quindi va inserita l’estremità nell’asola, in modo che tirando lo spago l’estremità della strisciolina finisca sotto i giri precedentemente fatti, fissando in sicurezza l’elastico.
Nel caso di elastici tubolari, questi vanno inseriti nei buchi fatti con il trapano e fissati inserendovi una pallina di acciaio da 8, cioè dello stesso diametro del buco che, sommato allo spessore della gomma, terrà saldamente fermo l’elastico.
Elastico tubolare fissato alla forcella
La terza variante di fissaggio alla forcella riguarda i comuni elastici a fascetta che, se non vengono tagliati per ricavarne strisce singole, possono essere adoperati nella loro forma circolare. In tal caso si utilizza la forcella con taglio verticale sui bracci, in cui infilare l’elastico per poi rigirarlo su se stesso: ogni lato della fionda avrà così doppie fasce elastiche.
Elastici di gomma a fascetta fissati alla forcella
Ulteriore modalità di fissaggio di elastici di gomma, con cordino annodato
Quando infine si fissano gli elastici alla toppa portaproiettile va tenuto conto che è di fondamentale importanza la simmetria della fionda, pertanto la lunghezza dell’elastico utile deve essere uguale in entrambi i lati. Anche in questo caso si possono utilizzare striscette di Thera-Band o un semplice cordino. Nel secondo caso è bene eseguire il nodo di tipo “constrictor knot”, che garantisce ottimo fissaggio e stabilità sotto tensione.
Fasi di realizzazione del constrictor knot
Tre tipologie di fionde in legno naturale costruite artigianalmente
Il tiro
Se usare una fionda è tutto sommato facile, molto meno lo è colpire il bersaglio. Come nel tiro con l’arco, il corpo va tenuto in posizione laterale, non frontale, rispetto alla traiettoria di mira. Lo sguardo va rivolto al bersaglio con un angolo di circa 40°. La posizione della forcella, a seconda delle abitudini, può essere con i bracci in verticale oppure paralleli al terreno.
Per prendere bene la mira bisogna conoscere qual è il proprio occhio dominante. Esattamente come per le mani, per cui si è destri o mancini, anche per gli occhi ce n’è uno che usiamo di preferenza. Un semplice test per sapere qual è l’occhio “migliore” consiste nell’allungare le braccia davanti a sé e avvicinare le mani lasciando un piccolo foro tra loro in cui inquadrare un oggetto a media distanza. Le mani dovrebbero diventare sfuocate, mentre l’oggetto rimanere chiaro e a fuoco. Ora basta chiudere alternativamente prima un occhio poi l’altro; quando è aperto uno dei due occhi l’oggetto esce dall’inquadratura, quando è aperto l’altro occhio l’oggetto rimane all’interno della finestra: quest’ultimo è il proprio occhio dominante, col quale prendere la mira.
Il punto di ancoraggio dove arriva la mano che tende l’elastico è sulla guancia, all’incirca all’angolo della bocca. Più si abbassa il punto di ancoraggio più la traiettoria del proiettile andrà verso l’alto, e viceversa.
Fionda umana utilizzata durante una rivolta a San Cristobal, Venezuela, febbraio 2014
Disclaimer
Una fionda non ben costruita è uno strumento pericoloso: ricevere l’elastico in velocità su un occhio o il proiettile su un dito non sono esperienze piacevoli! Ricordatevi sempre che una fionda non è un giocattolo e può esprimere potenze anche molto superiori ad armi che richiedono per l’acquisto licenze specifiche (come armi ad aria compressa con potenza maggiore di 7,5 joule) e, quindi, può procurare lesioni gravi a se stessi e ad altri. La legge, inoltre, non è affatto tenera verso chi gira per strada o, peggio, partecipa a manifestazioni pubbliche armato di fionda “senza giustificato motivo”. In nota trovate i riferimenti normativi[3]. Sapevatelo!
[1] Ne Il saggiatore Galileo confuta quanto affermato da Lotario Sarsi (sotto il cui nome si cela il gesuita Orazio Grassi) che, partendo dal moto delle comete, aveva finito per tirare in ballo anche antiche testimonianze sulle conseguenze della velocità di una frombola sulle uova: “io non posso non ritornare a meravigliarmi – scrive Galileo – che pur il Sarsi voglia persistere a provarmi per via di testimonii quello ch’io posso ad ogn’ora veder per via d’esperienze. […] Se il Sarsi vuole ch’io creda a Suida che i Babilonii cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò; ma dirò bene, la cagione di tal effetto esser lontanissima da quella che gli viene attribuita, e per trovar la vera io discorrerò così: «Se a noi non succede un effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d’esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia la vera causa: ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono, anzi, se fusser calde, si raffreddano più presto; e perché non ci manca altro che l’esser di Babilonia, adunque l’esser Babiloni è causa dell’indurirsi l’uova, e non l’attrizion dell’aria», ch’è quello ch’io volevo provare”. Per inciso: sulle caratteristiche delle comete, il gesuita aveva ragione.
[3] La legge 18 aprile 1975, n. 110, “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”, all’art. 4 “Porto di armi od oggetti atti ad offendere” (con le successive modifiche introdotte dal d. lgs. 26 ottobre 2010, n. 204), prescrive: “Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona […]. Il contravventore è punito con l’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da 1.000 euro a 10.000 euro. Nei casi di lieve entità, riferibili al porto dei soli oggetti atti ad offendere, può essere irrogata la sola pena dell’ammenda. La pena è aumentata se il fatto avviene nel corso o in occasione di manifestazioni sportive. […] Chiunque, all’infuori dei casi previsti nel comma precedente, porta in una riunione pubblica uno strumento ricompreso tra quelli indicati nel primo o nel secondo comma, è punito con l’arresto da sei a diciotto mesi e con l’ammenda da 2.000 euro a 20.000 euro”.
Lo Spaccio popolare autogestito (Spa). Un’esperienza di autogestione a Bologna
Intervista a due partecipanti dello Spa a cura di A. Soto
Eat the Rich
Che cosa è lo Spaccio popolare autogestito (Spa)?
Un luogo in cui diffondere e condividere le pratiche e i temi inerenti alla sovranità alimentare. Lo spazio trova collocazione fisica all’interno del circolo anarchico Berneri di Bologna. È un lungo banchetto di legno in cui vengono spacciati prodotti alimentari (pasta, riso, vino, cereali, caffè, farine, friselle, olio, zucchero, tisane, miele, legumi, passate di pomodoro, mandorle, cipolle, patate, aglio etc.) al prezzo che ci viene fatto dal produttore, senza alcun ricarico.
Quando e perché è nato lo Spa?
Nel febbraio del 2016 come forma di esperimento. Da subito si è fondato su due cardini: mantenere i prezzi il più possibile popolari, rispettare e valorizzare sia i lavoratori e le lavoratrici sia l’ambiente. E si è dato alcuni fondamentali obiettivi: allargare e approfondire le dinamiche autogestite di produzione e consumo fuori da qualsivoglia logica speculativa; rafforzare i legami e le reti già esistenti tra produzione e consumo in un’ottica di mutuo aiuto e di relazioni umane e sociali liberate e in continua liberazione; supportare e dare visibilità alla rete dei produttori libertari e alle esperienze di lotta e autogestione.
Spaccio popolare autogestito
Con che modalità si svolge?
È aperto tutti i lunedì dalle 18.30 alle 21.00 in modo da avvicinare a questo nuovo progetto i compagni e le compagne che arrivano per un appuntamento, quello della cena popolare del lunedì, già da tempo consolidato e partecipato.
In cosa si differenzia da un mercato?
Nell’assenza di un profitto, nella divulgazione di tutte le informazioni necessarie a rendere l’avventore consapevole attraverso schede dettagliate dei produttori e dei prodotti e nella ricerca del minimo impatto ambientale, attraverso la distribuzione di prodotti sfusi o con un imballaggio minimo.
Alcuni degli organizzatori dello Spa fanno anche parte del Gruppo informale di acquisto zapatista (Giaz): mi spieghi cos’è?
È il frutto dell’esperienza decennale di un manipolo di compagni che ha esperito le contraddizioni del gruppo di acquisto e se ne è voluto emancipare dando vita a una comunità.
Lo Spaccio popolare autogestito presso il Circolo anarchico Berneri di Bologna
Che rapporti ha con lo Spa? Perché “informale”? Perché “zapatista”?
Aver partecipato attivamente alla vita di vari Gas bolognesi ha dato la possibilità a un gruppo di compagne e compagni di mettere a fattor comune un bagaglio di esperienze che è stata la base per formulare i criteri di scelta condivisa dei prodotti da avere nello spaccio. Informale perché non ci riconosciamo nel gruppo di acquisto ormai soggetto istituzionalizzato, zapatista per la continua tensione nella ricerca della creazione di una comunità, perché decliniamo “io” in “noi” e perché siamo sicuri che il capitalismo sia il nemico da combattere sempre e ovunque si annidi.
Giaz e Spa fanno parte di una rete più larga, la rete Eat the Rich, che coinvolge, tra l’altro, mense e realtà di autoproduzione: quale è il ragionamento dietro tutto ciò?
La rete nasce dall’esigenza di legare le storie dei singoli gruppi senza negare ad ogni realtà la propria identità e specificità, nell’intento di render più efficaci le forme di lotta. Essa vuole essere una risposta pratica e politica ai ricatti delle istituzioni cittadine con l’organizzazione di mense, cene sociali, gruppi di acquisto e distribuzione, mercati biologici e a km0, laboratori di autoproduzione. A partire dal cibo inteso come accesso a un pasto di qualità e a misura delle tasche di tutti, la rete costruisce possibilità di resistenza e attacco alla miseria diffusa. È impegno dei “mangiatori di ricchi” estendere questa rete nell’ottica di associare produttori e consumatori che fanno dell’autogestione e della critica pratica alle leggi mercantili la loro caratteristica, perché credono strategica la creazione di reti cittadine attorno a nodi e bisogni centrali per una “buona vita”. La sfida che pone la rete è scatenare processi politici e allargare l’autogestione a ogni aspetto della vita, proprio a partire da un bisogno come “un buon pasto” e dalla organizzazione di questo bisogno.
Che ruolo ha giocato e gioca Campi Aperti (associazione di agricoltori e consumatori che sostiene l’agricoltura biologica e contadina) in queste dinamiche? Una realtà radicata e di stimolo, mi verrebbe da dire, condividi?
Certo, all’interno dei mercati di Campi Aperti è possibile sperimentare la sovranità alimentare nelle città, cioè la difesa della piccola agricoltura contadina nelle campagne attraverso la creazione di una relazione diretta tra produttore e coproduttore (non più solo consumatore). Sono i compagni di viaggio ideali nella costruzione di un’alternativa al sistema economico dominante.
Lo Spa utilizza il più possibile una logistica partecipata. Cos’è?
È la presa di coscienza che la logistica è l’anello debole nella catena della distribuzione dei prodotti. È la spinta all’autorganizzazione nel trasporto e nello stoccaggio di tutto ciò che transita nello spaccio. È la partecipazione attiva della comunità che mette a disposizione il proprio mezzo, sia esso automobile o bicicletta, e lo trasforma da individuale a collettivo per il trasporto dei prodotti da portare allo spaccio.
Lo Spaccio popolare autogestito presso il Circolo anarchico Berneri di Bologna
E i magazzini diffusi cosa sono?
I magazzini diffusi sono la terminazione naturale di questo processo: chi dispone di un luogo adeguato in cui stoccare le merci lo mette a disposizione per lo spaccio. Un garage, una cantina, una dispensa diventano magazzino da cui lo spaccio può approvvigionarsi quando ne ha necessità.
Possiamo dire che lo Spa è una modalità per allargare e rafforzare, o approfondire, le dinamiche di autogestione in molteplici ambiti: produzione, consumo, trasporto, tra gli altri. Si dà così forma a “un mondo” altro, caratterizzato da rapporti sociali e umani scevri dallo sfruttamento e dal comando, all’interno di una visione coscientemente ecologica: dico bene?
Assolutamente sì e inoltre diventa luogo fisico in cui condividere saperi ed esperienze legati alla sovranità alimentare.
Lo Spa distribuisce prodotti di determinate realtà e collettivi di autoproduzione: quali? Che caratteristiche hanno?
Si passa da produttori locali che partecipano ai mercati di Campi Aperti, ma che per scelta di non competizione evitano di portare determinati prodotti in questi mercati in quanto già distribuiti da altri (vedi le farine), attraverso realtà libertarie come quelle della torrefazione Malatesta (Lecco) o della comune Urupia (Salento), fino ad arrivare a finanziare, attraverso l’acquisto di saponi, la riappropriazioni da parte degli operai di fabbriche fallite in Grecia (Viome di Salonicco); senza dimenticare le autoproduzioni come le passate di pomodoro che vengono distribuite seguendo i criteri della trasparenza nella formazione del prezzo, evidenziando ogni singolo passaggio e conseguente costo.
Post-terremoto: percorsi di autocostruzione con le balle di paglia
Di Luigi
La ricostruzione delle zone terremotate, a distanza di un anno dal sisma e nonostante le molte e ripetute promesse delle istituzioni, appare ancora un lontano miraggio. Almeno fino a novembre nelle zone rosse, ovvero i centri storici e gli agglomerati rurali più danneggiati, non si potrà spostare nemmeno una pietra (ordinanza del Commissario straordinario alla ricostruzione, n. 25 del 23 maggio). Le SAE (soluzioni abitative di emergenza), cioè le tanto attese “casette”, arrivano con il contagocce, gli sfollati hanno fatto posto ai turisti estivi negli alberghi della costa e ognuno continua ad arrangiarsi come può per mantenere dignità e vivere sociale. C’è chi parla, a ragione, di “strategia dell’abbandono” per questo tratto di montagna appenninica. Noi abbiamo provato a esplorare l’intrigante anche se non facile strada dell’autocostruzione con balle di paglia, in compagnia dell’architetta ascolana Sara Campanelli la cui intervista trovate nella seconda parte dell’articolo.
Per un abitare non convenzionale
Le sequenze sismiche che nella seconda parte del 2016 hanno colpito le zone appenniniche del centro Italia, oltre alla tragedia dei morti e feriti, hanno distrutto o seriamente lesionato moltissime abitazioni, ponendo i residenti di fronte all’urgenza di trovare un nuovo tetto. Nell’immediato dell’emergenza si dorme in tenda, in roulotte, da amici e parenti lontani, poi si contano i giorni, le settimane e i mesi parcheggiati in qualche alberghetto sulla costa, con la lontana speranza che prima o poi si aprano i cantieri per la ricostruzione. Intanto i più fortunati ricevono un container di latta, torrido in estate e gelido in inverno, che trasforma ogni goccia di pioggia in martellate assordanti, oppure casette temporanee prodotte da qualche ditta aggiudicatrice di qualche appalto al ribasso, che arrivano, come abbiamo visto ad Amatrice, già gonfie di umidità e di mille altri difetti. Oltre a essere impersonali e tristi come la burocrazia che le ha prodotte. Per non parlare del famigerato “modello” dell’Aquila con le sue costosissime C.A.S.E. piazzate nel mezzo del nulla, prive di qualunque identità e i cui abitanti sono e rimangono, per sempre, ospiti.
Anche se ad ogni disastro tutti si affrettano a dire il contrario, sappiamo per esperienza che la ricostruzione calata dall’alto affoga nella lentezza esasperante della burocrazia ed è terreno fertile per speculatori senza scrupoli. Ci chiediamo allora se siano pensabili percorsi immediati di autocostruzione dopo l’emergenza terremoto, nell’attesa che sia possibile ristrutturare le precedenti case o in alternativa ad esse. Senza, con questo, volerla fare troppo semplice: l’autocostruzione di un edificio presuppone, al di là dei vari permessi per poterlo fare in maniera legale, una discreta capacità e tanta buona volontà, disponibilità di un terreno e di sufficiente denaro, l’esistenza di un tessuto sociale di aiuto e supporto nell’impresa. Tanto fattori che rendono quest’ipotesi non facilmente percorribile e nemmeno si può pretendere che in determinate situazioni sia la più adatta.
Ai profani può sembrare un azzardo, ma in realtà perfino chi non ha mai giocato con i Lego potrebbe diventare costruttore della propria casa, avviando un percorso che coinvolge e mette in relazione un gruppo di persone, dalla progettazione alla realizzazione. L’autocostruzione non è infatti un atto solitario. Così come non dovrebbe esserlo il successivo abitare. Non si tratta, quindi, solo di mettere in piedi un luogo abitabile ma anche di cominciare a ritessere quei legami sociali che il sisma, e ancor prima lo spopolamento delle zone rurali e montane, hanno messo a dura prova. Come scrive Andrea Staid nel suo ultimo libro Abitare illegale, “costruire recuperando le architetture vernacolari, la memoria popolare e la saggezza di costruire creando ambienti di vita sani e confortevoli, risparmiando energia, producendo un’impronta ecologica minima, crea occasioni di nuova coesione sociale, proprio per questo è ostacolata dai poteri forti che, lasciando fare, perderebbero il grande business che arriva dopo ogni emergenza”[1].
Il percorso di autocostruzione delle abitazioni può diventare un buon viatico per mettere in piedi un tessuto sociale il cui obiettivo a lungo termine non sia solo la trasformazione della vita quotidiana in piccole comunità marginali, ma l’apertura di percorsi alternativi e conflittuali all’organizzazione sociale determinata dall’industria e dalle metropoli. D’altra parte, mantenendo i piedi per terra, le relazioni sociali sono processi che si costruiscono sul lungo periodo e non è ragionevole pianificare artificialmente relazioni di comunità che possano durare nel tempo. Né si può confidare sul fatto che l’unione delle forze per risolvere l’urgenza della questione abitativa determini di per sé la condivisione di valori di autogestione e solidarietà.
In ogni caso, il problema principale è che la maggior parte di noi non detiene più quel saper fare necessario che si tramandava di generazione in generazione, prima che la mercificazione di ogni dettaglio della vita lo facesse cadere nell’oblio. Non siamo più capaci di realizzare un tavolo o un cesto di vimini, figuriamoci di costruire una casa! Scrive, ancora, Staid: “gli esseri umani hanno quasi sempre costruito la propria abitazione con l’aiuto di qualche familiare o amico e questa pratica funzionava. Sono state le società industriali a cambiare questa dinamica, a togliere con leggi e cavilli burocratici la possibilità di costruirsi la propria casa: stiamo parlando di una storia recente, degli ultimi due secoli, fino ad allora durante quasi tutta la storia dell’umanità la costruzione delle abitazioni è stata un’attività informale e su piccola scala”[2].
La sfida è allora quella di cercare di riprendere in mano, individualmente e collettivamente, uno dei tanti saperi che la società industriale ha fatto dimenticare. Anche se, finché le tecniche di costruzione non torneranno a essere un patrimonio collettivo comune, è necessario che il gruppo di autocostruttori sia coordinato da esperti, cioè da coloro che hanno esperienza, che hanno già provato e sperimentato, che siano professionisti del settore o semplicemente persone capaci. Per mantenersi all’interno di quanto prescritto dalla legge è inoltre indispensabile la presentazione di un progetto firmato da un professionista abilitato e l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine di ottenere il “permesso di costruire”. Come base di questo percorso, se si vuole costruire “in regola”, mantenere rapporti pacifici con l’ufficio tecnico comunale è senza dubbio consigliabile.
Sappiamo che qualche resistente dell’entroterra, con l’aiuto di solidali e al di fuori della burocrazia dei regolamenti edilizi, si è già costruito case più o meno provvisorie in legno, a fianco dell’abitazione lesionata. Quello su cui vorremmo porre l’attenzione in questa sede è però un materiale da costruzione antico e allo stesso tempo innovativo: le balle di paglia. La casa in paglia non è la casa del porcellino sfigato ma un edificio solido e durevole, oltre che economico, ecologico, confortevole e antisismico.
L’edilizia in terra cruda impastata con un trito di paglia ha radici antiche, anche nei nostri territori, benché si trattasse di un’architettura povera, spesso strutturalmente precaria, che ha lasciato traccia in molti toponimi come Pagliare, Casette, Cascine, Casalina, Casine, o con radice Capann-. Ancora nel 1934, l’Indagine sulle case rurali in Italia segnalava nelle Marche, in particolare nel maceratese e nell’ascolano, 1.401 abitazioni costruite in terra e paglia con la tecnica detta a maltone[3]. Un contadino di Sant’Elpidio a Mare ricorda così la costruzione collettiva delle abitazioni che coinvolgeva famiglia e vicinato: “quando si costruiva una casa di terra era una festa per noi bambini, perché si riuniva tutto il vicinato e le donne si tiravano su le sottane per pistare la terra che doveva diventare morbida come la massa del pane”[4]. Sono le case dei braccianti giornalieri, dei poveri, di chi si arrangia a sopravvivere nell’economia contadina, che nel dopoguerra, con l’esodo dalle campagne, vengono abbandonate alla rovina. In quelle superstiti l’anima in terra viene il più possibile occultata, quasi si trattasse di un marchio di misera e infamia, e chi continuava ad abitarle nei decenni successivi svelava con un misto di reticenza e pudore cosa si nascondeva sotto l’intonaco[5]. Oggi la paglia è un materiale edile di tutta dignità, con cui si realizzano case perfino più belle e accoglienti di quelle convenzionali.
Dopo i terremoti dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia nel 2012 ci sono stati diversi esempi di ricostruzione autogestita, anche in paglia, talvolta osteggiati dalle autorità locali e nazionali. Un caso abbastanza noto è quello del villaggio di Pescomaggiore, un piccolo borgo di origini altomedioevali alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a una decina di chilometri dall’Aquila, dove il sisma ha danneggiato o distrutto buona parte delle abitazioni. Qui il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, in realtà nato già due anni prima del terremoto per contrastare il progressivo abbandono del paese, ha deciso di realizzare un villaggio autocostruito e autofinanziato su terreni concessi in comodato da alcuni compaesani a poche centinaia di metri dal paese. Con le balle di paglia e l’aiuto di centinaia di volontari, tra 2009 e 2013 sono state realizzate alcune unità abitative a minimo impatto ambientale, che hanno rimesso in moto un tessuto solidale oltre a essere costate al metro quadro circa un quinto rispetto agli alienanti appartamenti del progetto C.A.S.E. Una volta superata l’emergenza abitativa il nucleo di nuove case potrebbe conoscere una nuova destinazione sociale e turistica[6]. Un altro esempio finito all’attenzione delle cronache, questa volta nel modenese, è la casa in canapa, legno e calce di Mina Bardiani, costruita nel terreno antistante la vecchia abitazione inagibile[7].
Vecchia casa in terra e paglia a Ponte Torale (Corridonia)
Costruire edifici con balle di paglia
Le case di paglia nascono in Nebraska nella seconda metà dell’Ottocento, con l’arrivo dei pionieri in zone povere di pietre e legname da costruzione e la contestuale nascita delle macchine imballatrici. La tecnica cade successivamente in disuso, a vantaggio del cemento e dei materiali prodotti industrialmente, fino alla sua riscoperta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e al nuovo impulso datole negli anni Novanta da Barbara Jones, che ha saputo adattarla alle esigenze climatiche britanniche. La prima costruzione documentata, in Nebraska, risale al 1886, seguita in rapida successione da altre ancora oggi in buono stato di conservazione; in Gran Bretagna la prima casa è del 1994, in Italia del 2004, a Pramaggiore in provincia di Venezia.
La paglia è un sottoprodotto della coltivazione dei cereali, si tratta in sostanza dello stelo della pianta morta, da non confondere con il fieno che è invece erba verde essiccata. È un materiale flessibile che va trattato con tecniche proprie per sfruttarne al meglio le caratteristiche naturali e originali, piuttosto che sforzarsi di impiegare le balle semplicemente come fossero mattoni extra-large. Le modalità di realizzazione di una casa in paglia sono due (ma vi possono essere anche approcci ibridi): la tecnica detta “Nebraska” o autoportante, in cui le balle sorreggono il peso del tetto, oppure l’utilizzo del legno per la struttura portante e delle balle per il riempimento delle pareti.
Al momento, in Italia non è possibile costruire edifici con muri in paglia autoportanti, ma la normativa tecnica è in fase di aggiornamento e le NTC 2017 (Norme tecniche per le costruzioni), in uscita entro fine anno, potrebbero intervenire e modificare questo aspetto. Resta fondamentale, in ogni caso, progettare un buon tetto e delle buone fondamenta, ossia un buon cappello e buoni stivali per la casa. Le fondamenta non devono necessariamente prevedere una gettata di calcestruzzo, anzi, ci sono diversi metodi che presentano vantaggi in termini di resistenza all’umidità, economicità, facilità di costruzione, bellezza e impatto ambientale, perfino copertoni d’automobile riempiti di ghiaia – tecnicamente potremmo chiamarli “giunti elastomerici” – possono essere una valida soluzione. Per quanto riguarda l’intonaco è importante l’utilizzo di un materiale traspirante, come la calce o la terra cruda.
Nonostante la paglia sia un materiale facilmente infiammabile, le case in paglia sono perfettamente resistenti al fuoco. Questo perché le balle, oltre a essere racchiuse all’interno dell’intonaco, essendo molto compresse non consentono l’alimentarsi di eventuali fiamme. È lo stesso discorso che si può fare per la carta: se è facile bruciare un foglio è invece molto difficile dar fuoco a un elenco telefonico. In ogni caso, bisogna prestare attenzione in cantiere alla paglia sciolta che inevitabilmente si deposita durante la costruzione. Maggior pericolo proviene invece da acqua e umidità, causa di muffe e funghi: inutile dire che le balle vanno mantenute asciutte prima, durante e dopo la costruzione, in particolare sui lati superiore e inferiore. Anche la resistenza ai terremoti è un punto a vantaggio delle case in legno e paglia, che si comportano molto meglio di altri edifici in mattoni e cemento. Sono infatti più leggere e flessibili, per questo sviluppano minore accelerazione durante una scossa e assorbono le ondulazioni senza produrre rotture strutturali. La paglia è inoltre un ottimo isolante sia acustico che termico, mantiene cioè il calore in inverno e il fresco in estate permettendo di conseguenza un notevole risparmio sui costi di riscaldamento e climatizzazione, risparmio che arriva anche all’ordine del 75% all’anno rispetto alle comuni abitazioni moderne[8].
Il risparmio energetico è sul lungo termine una delle principali voci di economia, mentre per i costi di realizzazione si ha ovviamente una grande differenza tra l’autocostruzione e la costruzione affidata a un’impresa specializzata del settore. La paglia è infatti un materiale di per sé molto economico, una balla costa intorno agli 1-2 euro e per una casa di 150 mq ne occorrono circa 400, ma la manodopera incide molto. Tutto dipende dalle proprie capacità, da quanto tempo e determinazione si hanno e dalle braccia di parenti e amici che arrivano in aiuto. Aiuto che può essere ricambiato, andando così a costruire un circuito solidale. Un’altra valida via per il risparmio è l’organizzazione di corsi di formazione in cantiere, non mancheranno i volontari che arrivano per imparare la tecnica e, intanto, danno una mano alla costruzione. Ci sono poi i costi legati agli altri materiali e all’attrezzatura e, infine, va tenuto presente il coinvolgimento, di solito ben remunerato, di una serie di progettisti, certificatori, collaudatori e anche professionisti vari per tutto quanto non si è grado di gestire in autonomia (impianti elettrici e idraulici, infissi etc.). Ipotizzando una stima realistica dei costi, con l’autocostruzione e il contenimento al massimo delle spese si può arrivare a dover sborsare sugli 800 euro al mq.
Pilgrim Holiness Church, Nebraska 1928
Intervista a Sara Campanelli di Ascoli Piceno, socia di ARIA Familiare (Associazione rete italiana autocostruzione), architetta specializzata in architettura naturale dello studio arch.Officina e dello spin-off dell’Università di Camerino EcCo Italy.
Cos’è e di cosa si occupa l’associazione ARIA Familiare?
ARIA è un’associazione nazionale che promuove l’autocostruzione e l’autorecupero abitativi, prediligendo l’uso di materiali naturali, locali e sostenibili. In particolare, l’intento di ARIA è di trovare una via legale e percorribile da tutti per l’autocostruzione ed è quanto è riuscita a fare finora in Toscana, con una delibera inserita nel regolamento edilizio regionale. L’autocostruzione implica infatti una relazione collaborativa tra un insieme di persone che aiutano gli autocostruttori proprietari, siano familiari, amici, volontari o corsisti che vengono a imparare la tecnica. Ma la presenza di questi soggetti è un grosso problema dal punto di vista del rispetto di quell’infinità di regole che riguardano la sicurezza nel cantiere.
Anche se a livello burocratico ci sono ancora cose da affinare, nel 2015 la Regione Toscana ha emanato le “Linee di indirizzo per la sicurezza nei cantieri di autocostruzione e di autorecupero” che sono un buon traguardo raggiunto da ARIA e, soprattutto, un ottimo punto di partenza perché ora chiunque voglia intraprendere questa strada verso l’autocostruzione può farlo in maniera tutto sommato tranquilla. Grazie a quella determina (la 251 del 2015), le aziende sanitarie di riferimento della regione hanno ora idea di che cosa significhi lavorare in autocostruzione e quindi è tutto più semplice. Nelle altre regioni invece l’autocostruzione non è contemplata, a meno che non ci sia un progettista particolarmente convinto e preparato che riesca a trovare dall’altra parte un ufficio tecnico comunale in grado di capire queste cose e, appunto, un’Asur che non vada a bloccare il cantiere.
Qui in provincia di Ascoli Piceno, a Grottammare, ad aprile dell’anno scorso abbiamo realizzato in legno e balle di paglia un ampliamento di 40 mq di una casa. Abbiamo organizzato un corso e la gran parte della struttura è stata tirata su in cinque giorni con il lavoro di dieci corsisti. Per prima cosa ho però dovuto spiegare all’ingegnere quello che avevamo in mente, anche perché è difficile trovare tecnici che siano già preparati su questo tipo di architettura autocostruita. Noi siamo stati fortunati perché l’ingegnere, oltre a fare il calcolo della struttura portante, è andato all’Asur riuscendo a far loro capire come, con un piano di sicurezza adeguato, il lavoro sarebbe stato fattibile. Alla fine ce l’abbiamo fatta a fare tutto in regola, ma non è stato semplice, tanto che a un certo punto sul cantiere è arrivata la macchina dell’Asur e… panico: sono scappati tutti! [ride]
In realtà, la Regione Marche indice ormai da diversi anni un bando di concorso che destina dei fondi all’autocostruzione. Ma si tratta di un approccio molto limitato perché passa attraverso la cooperative, quindi più soggetti, più famiglie che volessero partecipare al bando e autocostruire una o più abitazioni devono riunirsi in cooperativa, con tutte le complicazioni che questo comporta. ARIA Familiare vuole invece che sia data la possibilità anche al singolo individuo di autocostruire, o autorecuperare, in maniera più snella.
Il progetto di Grottammare non era però affiliato ad ARIA, anche perché è nato in poche settimane, i proprietari volevano andare molto spediti e quindi non c’è stato il tempo per aprire l’associazione di riferimento sul cantiere. ARIA è infatti un’associazione nazionale che sta iniziando a configurarsi a livello locale tramite associazioni federate che gestiscono i cantieri in autocostruzione. Così è ad esempio per ARIA Familiare Rimini che ha seguito i lavori, grandi e importanti, di due abitazioni.
Cingoli (MC), casa di paglia 45K
ARIA può essere un riferimento per il mutuo appoggio tra chi ha intenzione di autocostruire la propria casa? Penso a un circuito di solidarietà in cui si va come volontari ad aiutare nella costruzione di case di altri e poi, a loro volta, altri volontari daranno una mano nell’autocostruzione della propria casa.
ARIA dovrebbe fare proprio questo, sia a livello nazionale che a livello locale. Creare dei circuiti di muto appoggio e solidarietà è quello che tutti noi auspichiamo. Nel riminese questo meccanismo si è innescato: i cantieri di Susanna e Giampietro a San Lorenzo in Correggiano e di Alice e Sauro a Viserba sono partiti quasi contestualmente e c’è stato uno scambio attivo tra i due. Noi che eravamo volontari abbiamo dato una mano da uno, poi fatto il corso dall’altro e magari la sera ci si incontrava e si cercava di cenare e stare insieme. Si è creato a livello umano un bel circuito.
Inoltre c’è da dire che questi cantieri possono offrire delle buone opportunità. A Grottammare hanno partecipato ai lavori persone che non conoscevo, tra cui due giovani architetti, un ingegnere, studenti, due disoccupati. Uno di questi disoccupati è stato poi qualche mese anche nel cantiere di Rimini e ora sta portando avanti una sua attività. Più in generale, si stimola il recupero di tutta quella fascia di artigiani, di persone che sanno lavorare il legno o altri materiali, che il mercato dell’edilizia convenzionale mette spesso da parte, ma le cui abilità sono invece di fondamentale importanza.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Dopo l’esperienza di Grottammare com’è continuato nelle Marche il percorso di ARIA, anche in relazione al terremoto e alle possibilità, se ce ne sono, di una ricostruzione autogestita?
Dopo il cantiere di Grottammare, sulla scia di quanto fatto in Toscana da ARIA Familiare, noi progettisti marchigiani abbiamo cercato di spingere in quella stessa direzione, coinvolgendo il presidente dell’ordine degli architetti di Ascoli, Valeriano Vallesi, che è sensibile a queste tematiche, e trovando una sponda istituzionale in Anna Casini, che è un’architetta ascolana ed è anche vicepresidente della Regione Marche. Da parte della Regione c’era un certo interesse, anche perché loro avevano già quel bando per l’autocostruzione in cooperativa, di cui ti ho detto, che però andava sempre deserto. Abbiamo organizzato una bella conferenza ad Ancona, dove abbiamo affrontato tutte le tematiche connesse all’autocostruzione, alla fine io ero molto fiduciosa e speravamo davvero di riuscire a far inserire anche da noi una delibera sul modello di quella toscana. Era il 16 giugno 2016, il 24 agosto c’è stata la prima forte scossa di terremoto, che ha interrotto tutto.
Io sento di avere in mano un minimo sapere sui materiali naturali in edilizia, una prospettiva di costruzione e ricostruzione diversa da quella tradizionale, diversa dalle solite casette appaltate che arrivano e non arrivano, con i loro giri di soldi, e allora mi sono chiesta che cosa potessi fare io, da ascolana e soprattutto da tecnico progettista, per questa situazione. Come posso mettere a servizio quelle quattro competenze che ho? Il giorno dopo il terremoto, il 25 agosto, ero per qualche motivo nella zona di Amatrice, in quei posti inavvicinabili, dove ho conosciuto una ragazza che ha un fratello che fa l’allevatore lì. Ho pensato che avrei potuto fare il progetto di una stalla, i fondi non erano un problema perché tantissime persone erano pronte a fare una donazione. Avrei potuto trovare dei volontari per realizzarla, cioè i giocatori di rugby della squadra ascolana che già avevano scavato giorno e notte ad Arquata del Tronto, e avrei coinvolto anche degli artigiani, tra i tanti che conosciamo con lo spin-off universitario (di cui poi ti parlerò), che si occupano di materiali per edilizia non convenzionale. Avevo parlato con Laura Comella, presidente di ARIA Familiare, e avevamo il loro appoggio; c’era già anche un nome per il progetto, un gioco di parole simpatico sui verbi allevare e alleviare: “Noi alleviamo pecore e paure”. Insomma potevo fare tanto, ma poi nella realtà non si riesce a fare niente perché a livello burocratico, di leggi, di permessi, abbiamo le mani legate.
Qualche settimana dopo mi ha contattato una famiglia di Amatrice che aveva perso la casa, aveva perso tutto, ma si era già autorganizzata per costruire una piccola casetta sul terreno di una vicina che glielo avrebbe dato gratuitamente. Il terreno non era edificabile, ma pensavano che in quel particolare contesto di emergenza se uno si poteva autofinanziare una piccola struttura anziché stare nelle tende o nelle roulotte non avrebbe incontrato troppi ostacoli. Da noi volevano capire la differenza tra le casette in legno tradizionali e quelle in paglia, per poter decidere cosa costruire. Sono quindi andata ad Amatrice, insieme alla mia collega Isabella Cocci e al presidente dell’ordine Valeriano Vallesi e abbiamo spiegato i vantaggi di queste tipologie abitative. Siamo anche rimasti a pranzo, accampati nella cucina: la cosa che mi ha fatto più riflettere sono stati i loro sguardi persi. Purtroppo anche quel progetto non è andato avanti perché il Comune non ha rilasciato i permessi.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Va detto che questi ostacoli posti da parte delle amministrazioni sono, almeno in parte comprensibili, perché si tratta di zone di Appennino spesso protette e sottoposte a vincoli e anche, soprattutto, perché c’è il timore di una ricostruzione affrettata, come già successo in passato, con strutture fatte senza criterio che magari alla prossima scossa vanno giù. Parlare di “autocostruzione” nel post-sisma, qui da noi, è veramente difficile, perché per autocostruzione la mentalità comune si immagina quelle superfetazioni fatte nel dopoguerra, ampliamenti vari, ammassi di metri cubi che hanno poi subito vari condoni e sono diventati volumetrie che purtroppo vediamo oggi in giro. Posso anche capire questa diffidenza, ma comunque rimane per me molto doloroso dal punto di vista umano. Gli sguardi di quelle persone di Amatrice mi hanno fatto capire che l’autocostruzione, per l’esperienza che ho io dei cantieri vissuti, sarebbe un buon metodo per ridare loro la speranza di una comunità che si è persa con il terremoto. Perché il vicino di casa è morto, l’altro è andato a finire nell’albergo a San Benedetto e tu stai in questa situazione di vuoto: l’autocostruzione è perfetta a livello umano, perché non basta dare una casetta o un container a queste persone, ma ci si deve preoccupare dal punto di vista psicologico, di sensazioni, di comunità da ritessere.
In seguito è nato un coordinamento costituito da otto ordini degli architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori delle province di Ascoli e limitrofe, che coprono tutto il territorio del cratere, chiamato “Fermi restando in epicentro”. In quei giorni ci siamo molto confrontati, c’erano sempre mille telefonate. Una delle proposte venne da Valeriano, che propose di farci assegnare dei container dalla Protezione civile per utilizzarli come presidio sul territorio, in modo che le persone sarebbero potute venire da noi a chiedere qualunque informazione per capire come muoversi nella burocrazia, come ripartire, come cominciare a ricostruire. Ma allora, ho pensato, invece di farci dare un container perché non realizziamo noi stessi un piccolo modulo in paglia insieme ai residenti del posto? Bastava trovare un comune che ci offriva uno spazio. Passata l’emergenza la casetta sarebbe rimasta all’amministrazione, che ne avrebbe potuto fare una sede per le associazioni, un presidio turistico o quello che volevano. L’idea è stata accolta con favore dal coordinamento. Ma anche su questo ci hanno tagliato le gambe. Anche perché, c’è da dire, le scosse ci sono state per molti mesi a seguire e ogni nuova scossa rimetteva tutto da capo. E poi noi non siamo lo studio Boeri che può contare su sponsor importanti, viene qui, costruisce il Polo Food e trova la strada spianata per fare tutto. Certo, noi non ci siamo scordati la proposta fatta, ma a parte che ogni tanto si ripete una scossa, l’ultima l’abbiamo sentita pochi giorni fa, dobbiamo trovare un’amministrazione comunale consapevole e studiare proprio a livello di piani regolatori in che punto sia possibile posizionare la struttura.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Al momento, che tu sappia, ci sono cantieri per case in balle di paglia, in autocostruzione o meno, aperti nella zona del sisma?
Dopo il terremoto sono venuti fuori diversi contatti, abbiamo tenuto anche varie conferenze in cui ci invitavano a parlare di questa tipologia costruttiva. Una signora di Roccafluvione, con casa inagibile, diceva che avendone la possibilità avrebbe voluto ricostruire con questa tecnologia, poi ha però avuto altre problematiche. Lo stesso una famiglia tra Camerino e San Severino ci ha contattato e vorrebbe iniziare i lavori, vedremo nei prossimi mesi quello che riusciremo a fare, cercando anche di ammortizzare le spese con l’autocostruzione. Il problema è che di solito l’autocostruzione funziona in questo modo: il padrone di casa ospita a dormire i volontari, si preoccupa dei pasti ecc., ma come puoi capire in una condizione post-sisma, dove gli stessi residenti hanno perso tutto, ospitare altre persone è complicato. Come si fa, banalmente, a preparare da mangiare se non c’è una cucina agibile…?
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Chi ha una casa da ricostruire, penso più che altro a case singole fuori dai centri storici, perché immagino che nei centri storici ci siano tutti altri vincoli e problemi, è consigliabile che pensi a paglia e legno, piuttosto che a mattoni e cemento?
“Noi non vogliamo più vedere pietre”: questo ho sentito dire da loro. Una casa come quella crollata non la vogliono più. Spesso si tratta di case in pietra, magari già carenti nelle fondazioni, sulle quali sono stati fatti successivamente lavori che ne hanno appesantito la struttura. Oggi penso sia auspicabile avere una casa fatta con struttura portante in legno, quindi con una risposta alle scosse molto migliore della pietra o del cemento armato, coibentata con un materiale come la paglia dalle ottime capacità di isolamento. Così si ha una casa molto più leggera ed elastica che anche se torna chissà quale terremoto rimane in piedi, oltre ad avere vantaggi in termini economici, soprattutto per la grande efficienza termica che presentano queste costruzioni.
Per i centri storici effettivamente la situazione è diversa. Non so come si metteranno le cose, se si vorrà ricostruire tutto “com’era e dov’era”, ma c’è tanta gente che si oppone a questa idea. Quello che noi proporremo saranno comunque le metodologie di autocostruzione e l’utilizzo di materiali naturali, non penso solo alla paglia ma anche, ad esempio, a mattoni fatti in calce e canapa o in argilla cruda, che però vanno intonacati e si perde la pietra faccia a vista com’era prima. Al momento, comunque, cosa si andrà a fare ancora non è chiaro a nessuno.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Prima hai accennato allo spin-off dell’Università di Camerino (cioè, in poche parole, una società che si appoggia a un’università e ne utilizza economicamente i risultati della ricerca), puoi raccontare come nasce e cosa si prefigge di fare?
Devo partire da una decina di anni fa, quando sui banchi dell’università io e Isabella abbiamo incominciato a studiare queste tecniche di costruzione e allora non c’erano così tante persone interessate a questo mondo. Ricordo quando andammo dalla professoressa e dal fisico tecnico, con i quali adesso condividiamo lo spin-off, e proponemmo di studiare la paglia come materiale da costruzione: “e che famo la capanna dello zio Tom?” fu la prima risposta! Da lì però è nato tutto il discorso, fino ad oggi. Nel frattempo, per la tesi di laurea sono stata in Sud America a studiare le case fatte in terra cruda con la tecnica del pisé, poi, uscita dall’Università, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio che mi ha portato a Vienna per un po’ di tempo. Lì ho lavorato in uno studio con alcuni dei pionieri della passive house del Nord Europa. Ho imparato tante cose dal punto di vista dell’efficientamento energetico, ma il punto debole è che per quelle soluzioni ci vogliono un sacco di soldi e grazie… se ho tutti quei soldi è facile fare la casa passiva, più interessante è invece riuscire a mantenere quei livelli ma con attenzione ai costi, alla portata di budget limitati.
Nel 2013 sono rientrata in Italia e da allora lavoriamo allo spin-off, anche se si è ufficialmente costituito quest’anno con il nome EcCOItaly. Quello che vogliamo generare è una rete di piccole imprese che lavorano nel campo dei materiali edili naturali (paglia, legno, canapa, sughero, calce ecc.), anche per riattivare il concetto dell’artigianato, creare quindi una sorta di database di aziende selezionate con l’obiettivo di superare quell’edilizia convenzionale che ha devastato le nostre coste e le nostre colline. Dentro lo spin-off faremo anche formazione, faremo ricerca sui materiali, abbiamo un fisico tecnico che studia il mondo dell’edilizia visto dall’estrazione dei materiali fino al loro smaltimento ultimo, stiamo anche cercando di capire come collaborare con l’associazione ARIA Familiare. Insomma, ci sono tante cose in ballo. L’idea di fondo è stimolare una condizione diversa dell’abitare.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Note
[1]Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017, p. 152.
[3]Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Indagine sulle case rurali in Italia, Roma, Istituto poligrafico, 1934. Cfr. Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
[4]Augusta Palombarini, Le case di terra, in Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 180.
[8]Cfr. Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011, p. 20.
Bibliografia
Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987
Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011.
Athena Swentzell Steen [et al.], Le case in paglia: come costruire edifici, uffici, capanne o cottage sostenibili, economici, efficienti e sicuri utilizzando le balle di paglia, Bologna, Arianna, 2013.
Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017.
Castelcavallino è un piccolo borgo sulle colline marchigiane, a pochi km da Urbino. A volerlo cercare sulla mappa, se non si è della zona, quasi scompare nella costellazione di paesi e piccoli agglomerati di case e vite dell’entroterra pesarese. Un luogo piccolo e poco abitato, essenziale nelle sue possibilità eppure sconfinato: da qui la vista spazia sulla campagna e sui rilievi sinuosi dove si alternano colori e stagioni, e con lei viaggiano l’immaginazione, l’introspezione, la creatività.
Perché tante parole per un puntino su una mappa? Perché Cavallino Rivista, progetto editoriale autoprodotto di sette giovani disegnatori e disegnatrici della Scuola del Libro di Urbino, oltre a portare il nome di questa piccola frazione, sembra racchiudere in sé proprio tutte le sue caratteristiche. Un progetto piccolo con uno sguardo ampio, un’opera prima essenziale in tutto il suo processo creativo, di realizzazione e diffusione, che aspira a contenere ed esprimere soggettive tanto personali quanto universali.
Abbiamo chiesto a Samuele Canestrari, uno degli autori, di raccontarci alcuni aspetti di questo progetto, dal legame con il territorio alla sua realizzazione pratica, dalla scelta dell’autoproduzione fino alle prospettive sul futuro e la crescita di questo “piccolo Cavallino”.
Cavallino rivista #1 – copertina
Cavallino è un borgo quasi abbandonato dove un po’ per caso, un po’ per necessità ci siamo rifugiati. Eravamo in sette, disegnatori, a stretto contatto ogni giorno. Abitavamo tutti la stessa piazza, dello stesso minuscolo paesino. Avevamo tutti gli occhi pieni dello stesso panorama. Ci siamo raccolti intorno a questo progetto dopo mesi e mesi di produzione individuale. È stata una fase cruciale, nonostante sia stata una ricerca fatta in singolo, uno ad uno, in uno spazio intimo e privato, in cui ci si nutriva dei propri
autori di riferimento, talvolta confrontandoci, e scambiandoci le nuove scoperte. Era marzo e il nostro percorso di studi stava finendo. Avevamo tutti bisogno di trovare una forma al nostro lavoro. Nel momento in cui abbiamo pensato di fare una rivista, l’idea di rivolgerci a una casa editrice non ci ha neanche sfiorato. Avevamo i disegni, i computer, la voglia di fare. L’autoproduzione ci ha permesso in prima persona di partecipare attivamente a ogni tappa del processo fino alla composizione di un corpo libro. Ci ha dato la possibilità di autodeterminarci in ogni singola scelta (compreso l’investimento economico) frutto di confronto e dialogo tra di noi. Era un percorso che conoscevamo solo a grandi linee prima di intraprenderlo, ad ogni passo il libro cresceva e noi con lui. L’idea che avevamo all’inizio, cioè quella di riuscire ad andare in stampa in due settimane ora ci fa tenerezza.
Insieme all’autoproduzione, uno degli aspetti più interessanti di Cavallino Rivista è la sua “diffusione”. Da un lato perché i suoi autori e autrici oggi non abitano più le case del borgo, ma sono sparsi in diverse province e stati; dall’altro perché la rivista stessa, distribuita solo in poche librerie e realtà indipendenti, viene portata in giro per presentazioni e festival e viene diffusa soprattutto in queste occasioni che sono prima di tutto incontri e scambi tra persone.
Il nostro intento non è quello di creare un gruppo chiuso e fisso di persone, anzi è nel nostro interesse l’idea di guardarci intorno, aprirci e lasciarci attraversare. Da queste condizioni e dal nostro desiderio di crescere ancora è nata l’idea di una casa editrice fondata sullo stesso principio, la fiducia dello sguardo dell’altro e la ricchezza che questo ci dona, la possibilità di stupirci davanti a qualcosa che credevamo di conoscere. Cavallini edizione nasce come piattaforma di sostegno per chi ha il materiale e il bisogno di arrivare a una forma, a un oggetto da poter stringere tra le mani, di cui poterne scegliere la carta, lo spessore, il colore, l’involucro. Noi seguiamo ogni passaggio, consigliando e ragionando insieme, mettendo a disposizione la nostra voce, l’attenzione, e quello che abbiamo imparato in questa piccola ma importante esperienza. Il risultato è una co-autoproduzione.
Da: Cavallino rivista #1
Rivista e casa editrice: come si diceva, da una realtà piccola e per certi aspetti fortemente locale le strade che si aprono sono senza confini. Samuele ci ha raccontato che in cantiere ci sono già diversi progetti di pubblicazione che viaggiano in parallelo con un nuovo numero della rivista. Quello che ci ha colpito del primo volume è la preponderanza delle illustrazioni rispetto alla scrittura e la scelta di un segno grafico che è più intimista ed emotivo che narrativo. Non c’è un vero e proprio tema a condurre le storie sebbene in tutte si possono trovare dei riferimenti al quotidiano degli autori, alla dimensione dell’abitare, una casa, un paese o uno stato d’animo. Tutte le storie sono state montate partendo dai disegni, alcuni già pubblicati, altri inediti, tutti messi in comune e riassemblati seguendo le suggestioni visive prima, e delle parole poi.
Un’esperienza da conoscere e sostenere, coraggiosa e sicuramente intraprendente sia per l’età di disegnatori e disegnatrici, che per il pregio di volersi inserire in un panorama editoriale in cui illustrazioni e fumetti stanno conoscendo una nuova fortuna. Non è facile incontrare la rivista in rete, un po’ come lo è per il borgo di Castelcavallino sulla mappa, per questo consigliamo a tutte e tutti di seguire la pagina Facebook (facebook.com/ cavallinorivista) e trovare l’occasione di incontrare in carne, ossa e carta questo giovane progetto editoriale.
L’autoproduzione del blu. Dalla pianta (il guado) alla tintura delle stoffe
Di Luigi
Reccipe fiore de guato e impasta insiemi cum orina e aceto forte e fanne uno migliacio e secalo al sole. E se ello bianchigiasse, metice piu fiore de guato e cusì fa tanto che habia bello collore; poi ne fa peze e fornisscelo de seccare e sera facto. Segreti per colori, manoscritto bolognese 2861, XV sec.
Isatis tinctoria, da A. Masclef, Atlas des plantes des France, 1893, v. 2, tav. 38
L’utilizzo delle piante tintorie ha accompagnato la storia dell’umanità almeno fino a quando la chimica, sintetizzando i colori in laboratorio, ne ha determinato il pressoché totale abbandono. Negli ultimi decenni questa tradizione antica è stata riscoperta come innovazione, dando impulso a un settore economico in costante espansione, grazie alle tasche di quella gente alla moda che odia il fango sotto le scarpe ma adora la carezza del cotone naturale, biologico e solidale, tinto con colori vegetali ed ecosostenibili. Le aziende marchigiane hanno presto fiutato l’affare, mettendo in rete imprenditori agricoli e tessili, supportati da dipartimenti universitari di botanica, agraria e chimica, al fine di meccanizzare la produzione, standardizzarla e ritagliarsi una fetta di mercato.
“Introduzione dei coloranti naturali nel settore industriale del tessile marchigiano” è stato un progetto di questo tipo, lanciato nel 2009, che ha coinvolto le università di Ancona, Camerino e Pisa insieme alla società cooperativa Oasi Colori di Lamoli, produttrice su larga scala pigmenti e coloranti vegetali, e ad alcune imprese del settore come Dondup-Arcadia di Fossombrone e Cariaggi Spa di Cagli[1]. La prima è un gruppo di abbigliamento – o meglio fashion house – marchigiano che ha fatto proprio, senza alcun pudore, il nome di un antico lama tibetano (Mingyar Dondup) e con le sue collezioni di alta classe punta alla conquista delle vetrine della moda internazionale. Qualche anno fa, al grido “Rivestiamoci di benessere!”, aveva messo in commercio l’apposita linea “Essentia” e lanciato il progetto Natural Colors, il cui protagonista principale era un jeans al guado di cui davvero si sentiva la mancanza. Esperimento commercialmente fallito: oggi il jeans è fuori produzione. Cariaggi Spa è invece una filatura specializzata nella lavorazione del pregiato cashmere. Anche quest’azienda ha puntato sui colori naturali, in particolare sul blu estratto dalle foglie di guado, con un’idea ben precisa da mettere a bilancio: “la nostra sfida era di rendere attuale l’utilizzo di questo particolare colore applicandolo alle logiche di produzione moderna e industriale”[2].
Si tratta insomma, per rimanere in tema di colori, di una bella passata di green-washing aziendale. E se la “filiera marchigiana del guado” per portafogli gonfi, dopo un lancio carico di aspettative sta da qualche tempo perdendo colpi, iniziative simili si vanno sviluppando in altri distretti industriali. L’intento con cui pubblichiamo questo articolo è quanto mai distante da quello di un capitalismo che per mantenersi à la page riempie i report aziendali di parole come “artigianato”, “tradizione” e “territorio” come fanno, tanto per citare un esempio, gli innovatori del progetto TeSSITURA del Casentino e Valtiberina toscana, per i quali “la tintura con coloranti naturali non vuole e non deve essere sostitutiva della tintura chimica, ma deve esistere come alternativa, fiore all’occhiello dell’azienda che la propone, nell’ottica di un recupero delle tradizioni storiche e artigianali e, quindi, di valorizzazione del territorio”[3].
Non ci interessano affatto le rosee prospettive di una nuova economia di mercato che metta a profitto il guado e le altre piante tintorie, con la sua filiera certificata e garantita, quello che vogliamo stimolare è invece la riappropriazione di un’arte dimenticata, un altro tassello da sottrarre all’economia delle merci e da vivere in maniera, se vogliamo, genuina e clandestina.
Livorno 1812
Dal paese della cuccagna al laboratorio di chimica
Il guado (Isatis tinctoria) è una pianta da sempre conosciuta e apprezzata per le sue proprietà tintorie legate al colore blu. Testimonianze del suo antico utilizzo provengono da India, Medio oriente e Nord Africa, mentre in Europa ha la sua massima diffusione solo in epoca tardo Medioevale. Le ragioni di questo ritardo sono dovute al fatto che il colore è anche una costruzione culturale: nelle società europee mediterranee il blu ha rivestito per tutta l’antichità e l’alto medioevo un marginale ruolo simbolico, per i Romani ha addirittura connotazioni negative in quanto identificato con il colore dei barbari che avevano l’abitudine di colorarsi il corpo per spaventare i nemici; “tingere” qualcosa, nel mondo civile, equivaleva a dire colorarlo di rosso. Solo a partire dal XII secolo il blu va incontro a una progressiva valorizzazione, fino a un totale ribaltamento della prospettiva in età moderna: a un tratto, il blu, diventa bello[1].
La coltivazione e il commercio del guado cominciano quindi ad assumere una notevole rilevanza economica, in particolare in Turingia e nei territori occitani compresi tra le città di Tolosa, Carcassonne e Albi, tanto da dare origine all’espressione pays de cocagne – paese della cuccagna – per indicare un luogo di straordinaria abbondanza e prosperità: le coques o cocagnes erano i pani di pasta tintoria pronti per la vendita. Anche in Italia, tra XIV e XV secolo, il guado è alla base di flussi commerciali essenziali per lo sviluppo economico di numerosi comprensori. Viene lavorato in Umbria (il nome della città Gualdo Tadino deriva da questa pianta), nelle zone appenniniche delle Marche settentrionali (Montefeltro, alta valle del Metauro e del Foglia, Massa Trabaria), in alcuni territori toscani (aretino, Val Tiberina), piemontesi e liguri, ma anche in altre parti del paese. Il suo pigmento blu trovava impiego, oltre che per la colorazione dei tessuti, in molti settori artistici, dalla miniatura dei manoscritti alla decorazione della terracotta, ai quadri dei grandi artisti rinascimentali: ha avuto largo impiego, ad esempio, in numerosi dipinti di Piero della Francesca, il cui padre era un ricco mercante di guado di San Sepolcro.
Il declino dell’Isatis tinctoria comincia nel XVI secolo quando il suo blu viene soppiantato dalla materia tintoria estratta dall’Indigofera – da cui il nome “indaco” –, una pianta proveniente dalle Indie orientali (Indigofera tinctoria) e occidentali (Indigofera anil), che presentava rese nettamente superiori, migliore uniformità cromatica e maggiore facilità di lavorazione. Malgrado gli editti protezionistici a difesa della pianta e dell’economia locale, la coltivazione del guado, non più redditizia, viene progressivamente abbandonata fin quasi a perderne la memoria.
Fasi della lavorazione del guado in un disegno del 1752.
Solo agli inizi del XIX secolo si assiste a un accenno di ripresa per le fortune del guado, quando il blocco dei rapporti commerciali con l’Inghilterra disposto da Napoleone, noto come Blocco continentale (1806), interrompe anche le rotte di importazione dell’indaco rendendo necessario recuperare le tecniche, ormai desuete, di estrazione del pigmento blu da piante locali. Con decreto imperiale vengono banditi dei premi in denaro per chi fosse riuscito a trovare i migliori e più redditizi metodi per la coltivazione e la lavorazione del guado oppure a scoprire un’altra pianta da cui estrarre colore di qualità paragonabile a quello dell’Indigofera delle Indie e delle Americhe. Nella finestra temporale del primo decennio del secolo si mobilitano quindi agronomi e chimici, che danno alle stampe diversi manuali sia in lingua francese che in italiano.
Il definitivo oblio sopraggiunge qualche secolo più tardi, quando i coloranti sintetici prodotti industrialmente, meno costosi, dalle tinte più costanti e di maggior tenuta, mettono fuori mercato l’uso dei coloranti naturali (che d’altra parte, soprattutto nelle vaste coltivazioni indiane, si reggevano su uno sfruttamento brutale della manodopera locale da parte dei colonizzatori europei). La struttura molecolare dell’indaco viene determinata nel 1878, quattro anni dopo viene realizzata la prima sintesi chimica e nel 1897 due fabbriche tedesche avviano la produzione dell’indaco di sintesi su scala industriale, messo in commercio a un prezzo inferiore di due marchi al chilo rispetto a quello naturale. Peccato che in cambio dell’economicità e di un colore perfetto, le tinture sintetiche siano anche inquinanti e nocive, determinando un grosso impatto ambientale nella fase di produzione e lasciando sui tessuti residui tossici causa di sempre più frequenti reazioni allergiche e dermatiti da contatto.
Se la tinta naturale è una tinta viva, capace di vibrare in confronto all’immobilità dei colori di sintesi, va anche detto che, all’interno delle colorazioni naturali, c’è stata storicamente notevole differenza tra le vesti dei ricchi e quelle del popolo, potendo i primi contare sul lavoro raffinato e sofisticato dei tintori, gli altri su procedimenti più rudimentali di estrazione e fissazione delle tinte, non a caso i colori delle vesti della gente comune hanno sempre avuto un aspetto più o meno slavato. Ma oggi, con pochi strumenti di uso comune, possiamo permetterci di controllare e guidare il procedimento produttivo, magari mettendo nel tino qualche composto più efficace dell’urina di cavallo, per autoprodurre a basso costo tinte “da signori”.
Isatis tinctoria
Il guado è una pianta a ciclo biennale, appartenente alla famiglia delle Brassicaceae o Cruciferae, che cresce in modo diffuso e spontaneo con tendenza a diventare infestante lungo strade, ferrovie, su terreni incolti e rocciosi. È presente su tutto il territorio nazionale fino a 2.000 metri di altitudine; nel caso venga coltivata si giova della vicinanza con le leguminose, mentre è bene allontanarla dalle altre piante orticole. Il primo anno presenta solo un’abbondante base di foglie disposte a rosetta, nel secondo anno va a seme innalzando un fusto tra 40 e 120 cm., con una caratteristica fioritura gialla da maggio a luglio.
Guado, primo anno
L’impiego fondamentale di questa pianta riguarda l’estrazione del colore blu, ma in passato è stata anche utilizzata come pianta medicinale per far fronte a carenze di ferro e stati di debilitazione, per stimolare la crescita dei bambini, per curare scorbuto e altre patologie e, per le sue proprietà astringenti e cicatrizzanti, come impacco esterno contro dermatiti, piaghe e ferite. È impiegabile come foraggio per gli animali, anche se ha sapore amaro, ma raramente viene usata nell’alimentazione umana per la sua non facile digeribilità (la parte commestibile sono le infiorescenze prelevate nel mese di aprile con i fiori ancora in boccio, che chi ha lo stomaco buono può mangiare bollite e condite con limone).
Guado, secondo anno, in fiore
Il colorante è contenuto nelle foglie prodotte nel primo anno di vita della pianta, essendo la concentrazione abbastanza bassa è necessario utilizzarne abbondanti quantità, raccolte in piena maturazione, prima che comincino a presentare segni di ingiallimento. Il taglio non danneggia la pianta, che farà crescere nuove foglie consentendo quattro o cinque raccolte per stagione, a distanza di circa venti giorni l’una dall’altra. A fine estate le proprietà tintorie vanno riducendosi, per questo motivo era solitamente proibito che l’ultimo raccolto venisse mescolato con i precedenti ed era tradizionalmente fissato un termine ultimo di raccolta, che alcuni statuti medievali dell’Italia centrale indicano per il 29 settembre.
L’estrazione del pigmento blu, ieri e oggi
Le foglie di Isatis tinctoria contengono due composti organici complessi (glucoside indacano e estere isatanoB) non solubili in acqua; la sostanza colorante (indigotina) non è quindi disponibile direttamente ma va ricavata attraverso una precisa lavorazione. La resa non è molto elevata, considerando che da un chilo di foglie si ottengono non più di uno o due grammi di colore.
Negli anni Settanta e Ottanta, lo studioso di storie locali Delio Bischi ha riportato alla luce nel territorio appenninico del Montefeltro diverse macine in pietra con particolari scanalature, spesso riadattate come basamenti di croci, edicole e altre costruzioni, ipotizzando un utilizzo diverso da quello delle macine per grano e olive. Si trattava infatti di macine da guado utilizzate nelle antiche pratiche di lavorazione di questa pianta, che riducevano le foglie fresche in poltiglia.
La pasta così ottenuta era dapprima lasciata riposare per un paio di settimane su graticci o su un piano inclinato, dando avvio a una prima fermentazione con l’accortezza di controllare costantemente la presenza di eventuali incrinature della superficie, da chiudere per evitare il proliferare di vermi; successivamente la pasta veniva modellava in pani o palle (coccagne) che di nuovo, rigirandoli spesso, erano lasciati stazionare in luoghi ariosi e ombreggiati mentre al loro interno proseguiva il processo di fermentazione. I pani venivano modellati grazie all’aiuto di apposite scodelle in legno, il loro peso e le loro dimensioni erano precisamente regolamentati. Dopo alcune settimane, diventati ben duri, erano consegnati al macero. Qui venivano sbriciolati in acqua, urina e aceto (o vino) e lasciati macerare per almeno quindici giorni. Si può immaginare che l’odore emanato dai maceri da guado non fosse dei migliori e infatti diversi documenti d’archivio testimoniano come loro ubicazione venisse il più delle volte dislocata fuori dalle mura cittadine. A fine macerazione, la pasta di guado veniva essiccata e ridotta in polvere, quindi venduta ai tintori.
Palla di guado macinato: la ‘cocagne’
Con l’arrivo sul mercato dell’Indigofera tinctoria, che dal XVI secolo va a sostituire progressivamente il guado, viene messo a punto un diverso procedimento di estrazione del pigmento indaco, ossia per ossigenazione. Tale procedimento viene esteso anche al guado ed è quello che ancora oggi continua a essere sperimentato e messo a punto, con molte e diverse varianti.
Come indicazioni di massima per un corretto procedimento si possono considerare le seguenti annotazioni, da perfezionare in base all’esperienza e alle attrezzature di cui si dispone. Le foglie fresche, lavate e tagliate a pezzettoni vanno lasciate macerare in acqua calda a 80°C per mezz’ora, in alternativa si possono lasciare in infusione per uno-tre giorni a temperatura ambiente; diventata l’acqua grigia-verdastra, si filtra la soluzione togliendo le foglie dopo averle ben strizzate, si attende il raffreddamento e si aggiunge una base forte per alzare il Ph. Si può utilizzare liscivia, che si ricava trattando la cenere con acqua bollente, oppure calce spenta o soda caustica. Rimestando il tutto con forza, più volte, nel giro di qualche ora si fa prendere ossigeno all’acqua: il colore cambia virando su toni verde-blu, la schiuma da bianca diventa azzurra. In questo modo l’indacano contenuto nelle foglie si ossida dando origine all’indaco che, non essendo solubile, precipita sul fondo del contenitore. Quando, dopo alcune ore, la parte liquida rimane di colore giallo, perdendo tutti i toni del blu, l’operazione è conclusa. Si procede quindi con la filtrazione, raccogliendo il primo liquido che fuoriesce e rimettendolo nel filtro, a quest’operazione seguono un paio di lavaggi con acqua della massa di colore, quindi l’asciugatura all’aria o al calore di una stufa per qualche giorno e infine la raccolta del colore in forma solida. Un’ultima fase consiste nel riporre i pani di colore così ottenuti in barili chiusi, per tre settimane circa, in modo che possano trasudare l’umidità in eccesso, quindi dopo un’ulteriore asciugatura all’aria di qualche giorno, il blu è definitivamente pronto.
Macina da guado, Apecchio (PU)
La tintura
Le tecniche degli antichi procedimenti di tintura, malgrado la loro importanza economica e sociale, sono rimaste conosciute in modo solo approssimativo attraverso testimonianze indirette, come i libri contabili in cui erano registrati quantità e qualità degli ingredienti utilizzati o gli statuti medievali di Arti più importanti (Arte della lana e della seta) che controllavano l’attività tintoria regolandola sulle proprie esigenze, pertanto, tali documenti, tramandano “tutto quello che il tintore non doveva fare; ma più raramente ciò che il tintore avrebbe dovuto fare; mai, o quasi mai, come avrebbe operato in concreto”[4].
Per procedere alla tintura delle stoffe non è necessaria la mordenzatura, cioè il trattamento delle fibre con una sostanza come l’allume di rocca che aiuta la materia colorata a fissarsi sul tessuto, ma basta un lavaggio con sapone neutro. La tecnica della “tintura al tino”, prevede la preparazione di un “bagno colore” in cui immergere il tessuto o il filato. Anche per la tintura, come già per l’estrazione del colore, i procedimenti e le sostanze da utilizzare conoscono una vasta gamma di varianti, l’essenziale è che il Ph sia alto e che la tintura avvenga in assenza di ossigeno. Per fare questo si possono usare elementi chimici come soda e idrosolfito di sodio che agisce da agente riducente, ma anche calce spenta (o liscivia) e fruttosio lavorano adeguatamente, seppure con minor forza.
Per 100 grammi di tessuto si sciolgono in un bicchiere 10 gr. di idrosolfito di sodio ai quali si aggiungono 2 gr. di soda caustica (è una buona idea indossare guanti da cucina); in alternativa 20 gr. di calce spenta e 30 gr. di fruttosio. A parte vanno sciolti 10 gr. di pigmento di guado in acqua tiepida e poi vi si unisce poco alla volta la soluzione precedente (c’è chi preferisce sciogliere il guado in un po’ di alcol). Il tutto si inserisce in una pentola contenente tanta acqua in modo che la stoffa da tingere possa starci comodamente. Si porta a 50-55°C e si lascia riposare un quarto d’ora. Preparato così il bagno colore è il momento di immergere delicatamente la stoffa, che avremo precedentemente lavato e tenuto in acqua per una ventina di minuti.
Ricordarsi che va evitato il contatto con l’ossigeno, per questo è vietato mescolare energicamente e formare bolle d’aria. L’operazione di tintura, a seconda di come abbiamo preparato il bagno, della quantità di pigmento usato e dell’intensità del tono che vogliamo raggiungere, va da una singola immersione di pochi minuti a ripetuti bagni di colore; un ottimo risultato si ottiene dopo un primo bagno di 15-20 minuti. Appena si estrae la stoffa dalla pentola, per i primi trenta secondi ci si chiederà dove abbiamo sbagliato, vedendola appena velata di un pallido color verde, ma subito dopo, come per magia, a contatto con l’ossigeno dell’aria apparirà rapidamente e vistosamente un bellissimo colore blu. La tonalità definitiva si vedrà dopo circa mezz’ora. Infine, prima di stenderla per l’asciugatura, è bene risciacquare la stoffa sotto acqua corrente.
Palle di guado macinato: la ‘cocagne’
Un ringraziamento speciale a Michelina, vera artigiana della tintura, e non solo. Per conoscere le sue creazioni e partecipare ai suoi corsi: https://www.facebook.com/michelina.evacresce
Note
[1] Cfr. Michel Pastoureau, Blu: storia di un colore, Milano, Ponte alle Grazie, 2002.
[1] Cfr. L’economia verde sfida la crisi, Rapporto Green Italy 2012, http://www.symbola.net/assets/files/Rapporto_GreenItaly_2012_1358333078.pdf
[2]Tinctoria. La Cività dei colori, intervista a Cristiana Cariaggi, membro del Cda di Cariaggi, http://www.pittimmagine.com/corporate/fairs/uomo/news/2015/cariaggi.html.
[4] Giovanni Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, Milano, Giuffrè, 1970, p. 6.
Cagli – Convento dei Cappuccini – Una macina da guado a supporto di una colona romana con croce
Bibliografia
Jean Pierre Casimir Puymaurin, Notizia intorno al guado (Isatis tinctorum) della sua coltura e de’ mezzi d’estrarne l’indaco, Milano, Stamperia Reale, 1810.
Charles Philibert de Lasteyrie du Saillant, Del guado e di altri vegetabili da cui si può estrarre un color turchino colla descrizione della coltura del guado della preparazione del pastello dei diversi metodi per ottenere la fecula turchina e della maniera di applicarla alla tintura, Roma, F. Bourlié, 1811.
Giuseppe Morina, Del guado e modo da estrarne l’indaco, Napoli, A. Trani, 1811.
Istruzione sulla cultura e preparazione del pastello isatis tinctoria e sull’arte di estrar l’indaco dalle foglie di questa pianta, pubblicato per ordine di s. e. il sig. conte dr. Sussy ministro delle manifatture e del commercio, tradotto da A. Vignozzi, Livorno, Tip. Vignozzi, 1812.
[Gaetano Cioni], Istruzioni sulla coltivazione del guado (Isatis tinctoria) applicabili singolarmente alla Toscana, pubblicate dal direttore della imperiale Fabbrica dell’indaco di Firenze il 6 luglio 1813, Firenze, G. Piatti, 1813.
Franco Borlandi, Note per la storia della produzione e del commercio di una materia prima: il guado nel Medio Evo, in Studi in onore di Gino Luzzatto, v. 1, Milano, Giuffrè, 1949, p. 297-324.
Giovanni Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, Milano, Giuffrè, 1970.
Maria Elda Salice, La tintura naturale: come preparare lana e seta per la tintura, come ottenere una vasta gamma di colori dalla cocciniglia, dal caffe, dall’ortica, dalla betulla, dall’indaco, dal te…, Milano, Sonzogno, 1979.
Gudrun Schneider, Tingere con la natura: storia e tecniche dell’arte tintoria, Milano, Ottaviano, 1981.
Sandro Pignatti, Flora d’Italia, Bologna, Edagricole, 1982, v. 1, p. 381.
Delio Bischi, Le macine da guado, in «Proposte e ricerche», 1989, n. 23, p. 63-79.
Delio Bischi, I “Maceri da guado”. Persistente problema nei secc. XIII- XVIII, in «Atti e Memorie», Deputazione di storia patria per le Marche, a. 96, 1991, p. 323-332.
Delio Bischi. L’industria del guado (Isatis tinctoria L.) e il riuso delle mole nella provincia di Pesaro e Urbino (sec. XV-XVII), in «Esercitazioni della Accademia agraria di Pesaro», ser. 3, a. 24, 1992, p. 109-130.
«Proposte e ricerche», 1992, n. 28 (contiene gli atti del convegno “Vegetali per le manifatture nell’Italia centrale: secoli XIV-XIX”, Sanseplocro, 1991).
Michel Pastoureau, Blu: storia di un colore, traduzione di Fabrizio Ascari, Milano, Ponte alle Grazie, 2002.
Un trattato universale dei colori: il ms. 2861 della Biblioteca universitaria di Bologna, edizione del testo, traduzione e commento a cura di Francesca Muzio, Firenze, Olschki, 2012.