[Recensione]. Storie della buonanotte per bambine ribelli (#7)

La richiesta di uguaglianza è una stupidaggine
se porta le donne a governare.
Louise Michel

Storie della buonanotte per bambine ribelli
Storie della buonanotte per bambine ribelli

 

STORIE DELLA BUONANOTTE PER BAMBINE RIBELLI. Francesca Cavallo, Elena Favilli, Milano, Mondadori, 2017.

C’era una volta un progetto editoriale, sostenuto dal basso e diretto a un pubbli­co particolare, fatto di bambine, ma non bambine qualsiasi: bambine ribelli. Tutto bene fin qui, se non fosse che quel pro­getto alzò un grande polverone fatto di critiche ed elogi, che sollevarono diversi quesiti interessanti… In che misura quel libro, il risultato di un progetto finanziato con un crowdfunding da oltre un milio­ne di dollari, si rivolge alle future ribelli? E i bambini? Non dovrebbe far riflettere anche loro sul ruolo sociale che le don­ne dovrebbero avere? E poi in che modo sono state scelte le vite da raccontare e che cosa si intende per ribellione? Si può davvero considerare Margaret Thatcher, per citare una delle cento donne del libro, una ribelle o un esempio da seguire? Di sicuro, rivolgersi solo alle bambine cela il messaggio che le storie di donne ribelli va­dano lette soltanto alle femmine, mentre le storie che riguardano gli uomini pos­sono essere adatte a entrambi: un mes­saggio intriso di sessismo e sicuramente poco costruttivo per un immaginario femminista che dovrebbe coinvolgere en­trambi i generi. In secondo luogo la ribellione non andrebbe confusa con arrivismo e successo; e la que­stione di genere che si dovrebbe far comprendere alle future donne e ai futuri uomini è tutt’altro dal messaggio della “self made woman”. Questo non è femminismo. E per finire, una riflessione sul linguaggio: sono davvero storie adatte a bambine e bambini delle brevi biografie in cui non viene utilizzata una contestua­lizzazione tale da permettere loro di im­medesimarsi e rielaborare autonomamen­te le storie, ma è necessaria un’interpreta­zione da parte degli adulti? La proiezione di un immaginario “da grandi” sul mon­do infantile non è limitante per la libera esplorazione di sé? Queste sono soltanto alcune delle critiche, pienamente condi­visibili, che si sono alternate a recensioni più positive. Ma forse in tutto ciò non è stato preso in considerazione un punto di vista fondamentale: il loro, quello delle future generazioni cui si rivolge il volume. Crediamo sia importante capire come vengono vissute, almeno alcune di queste cento storie, da coloro cui sono destinate. Così lo abbiamo chiesto a Marina, 4 an­ni, e a Lorenzo, 6 anni, due piccoli abitanti delle tondeggianti colline marchigiane che hanno letto il li­bro insieme ai loro genitori.

Marina, hai letto il libro “Storie della buo­nanotte per bambine ribelli”?
Si.
Che cosa ne pensi?
Che è bello.
Cosa ti è piaciuto di più, le immagini o le storie?
Le storie.
Perché? Di che cosa parlano?
Parlano di donne che sono ribelli.
E che cosa fanno queste donne?
Fanno delle imprese.
Invece tu Lorenzo che cosa ne pensi?
Che è un libro bello anche per me.
Perché?
Perché sono delle storie di donne che so­no vissute veramente e che hanno fatto delle imprese.
Che tipo di imprese hanno fatto?
Me ne ricordo una di una surfista – si riferisce alla storia di Maya Gabeira – che un giorno viene travolta da un’onda. Questa donna sta per affogare e si rompe diverse ossa ma, dopo essersi curata, rico­mincia a surfare.

Chissà come mai, viene da chiedersi, un bambino di sei anni è rimasto colpito dalla storia di una donna “qualunque” e non dal vissuto della ex first lady Michel­le Obama o della candidata presidenziale Hillary Clinton, ad esempio? Forse, agli occhi liberi di un bambino, è proprio lì che sta la ribellione, nella quotidianità, nelle storie di vita comune, nella forza delle scelte che ogni giorno vanno in dire­zione ostinata e contraria, e non nell’arri­vismo tipico di una società patriarcalmen­te intesa.

A voi il giudizio finale, ma un consiglio redazionale ci sentiamo di darvelo: ru­batelo, strappate le biografie che con la ribellione hanno meno di niente a che vedere e, soprattutto, cercate di aiutare le piccole lettrici e i piccoli lettori a tro­vare un livello empatico all’interno delle storie, tale da permettere loro di chiedersi come si comporterebbero in situazioni si­mili, confrontandosi con il proprio essere. Magari la fantasia delle vostre piccole let­trici e lettori immaginerà delle alternative veramente ribelli per quelle biografie che proprio non ci convincono.

[Recensione]. Figli della libertà (#8)

Figli della libertà
Film documentario di Lucio Basadonne e An­na Pollio, 78 minuti, Italia, 2017
Recensione di Vittorio

Figli della libertà
Figli della libertà

 

È una calda sera di inizio estate. Siamo in giro con la solita compagnia di amici di Se­nigallia e il nostro corredo di otto bambini indisciplinati e rumorosi. Nella incantevole frazione fortificata di Piticchio di Arcevia è prevista la proiezione di Figli della liber­tà all’interno della programmazione di un piccolo festival a tema ecologico. Quale opportunità migliore per solleticare le no­stre sensibilità libertarie in tema di educa­zione? Anche i più piccoli hanno assistito alla proiezione, alcuni con interesse, altri addormentandosi sulle sedie dopo la lunga giornata di giochi e bagni al mare. Io inve­ce mi sono arrabbiato. La protagonista è la piccola figlia di Lucio e Anna, che affronta con ironia e leggerezza un percorso di edu­cazione libertaria a Genova mentre i suoi genitori documentano altre esperienze in giro per l’Italia. Il film, costruito con la stes­sa tecnica narrativa del precedente Unlear­ning, fallisce completamente negli obiettivi dichiarati, annoia a livello narrativo e indi­spone per la superficialità con cui affronta l’argomento dell’educazione libertaria.

Alla fine della proiezione era presente l’au­trice e ne approfitto per provare ad aprire un dialogo. Dopo un primo assonnato si­lenzio iniziano alcune domande molto ge­nerali, poi arrischio la mia: « Cosa significa per voi educazione libertaria?» La risposta disegna una conoscenza superficiale del te­ma dove le diverse esperienze di educazione libertaria vengono associate senza distin­zione di qualità e storia dei diversi progetti all’educazione parentale, descrit­ta come facoltà di ogni famiglia di scegliere la migliore educazio­ne per i “propri” figli.

Qui sta il principale proble­ma dell’approccio proposto dal film: l’educazione parentale non è l’edu­cazione libertaria, che nelle sue esperienze più consapevoli si allaccia a una storia di almeno trecento anni di sperimentazioni e progetti pedagogici ispirati da filosofie politiche principalmente di stampo anar­chico, comunista libertario e socialista. La pedagogia, inoltre, proprio perché riflette sulle pratiche dell’educazione, è necessaria­mente orientata a una lettura universalista del fenomeno educativo e quella ispirata da principi egualitari si propone di miglio­rare l’educazione di bambini e bambine a partire da una critica degli ostacoli sociali e culturali che la impediscono. In Figli del­la libertà invece l’unica forza in campo è la volontà delle “famiglie”, questa istituzione

sociale funesta e fortemente conservatrice che non viene per nulla criticata né messa in questione con il risultato di trovare in primo piano le teorie aristo-freak di Erika di Martino, blogger di professione che pro­muove da anni l’educazione parentale come alternativa alla scuola pubblica.

Sul suo sito www.controscuola.it si trova la sintesi di questo pensiero appa­rentemente ingenuo ma in real­tà fortemente classista: “lei e suo marito non credono che la scuo­la allo stato attuale possa dare ai loro bambini l’opportunità di imparare e sperimentare fino in fondo ciò che è veramente importante nella vita. Es­si amano stare insieme ai loro figli, seguirli mentre crescono ed esplorano il mondo e pensano che la loro educazione sia respon­sabilità della famiglia, non dello Stato”. Di­ciamolo a chi ha entrambi i genitori lavora­tori e assenti per ore o giorni da casa, ai figli degli integralisti di ogni religione, alle ma­dri single, a chi ha figli disabili e una pen­sione minima. Da questo orizzonte viene totalmente cancellato il significato sociale e comunitario dell’educazione per ricondurla a una scelta privata e quasi intima dove l’e­go dei genitori finisce per schiacciare quello dei figli, costretti a sopportare madri e padri 24 ore su 24.

L’educazione libertaria descritta da Figli del­la libertà diventa un rifugio per privilegiati che non hanno le capacità o le forze di af­frontare le contraddizioni del sistema edu­cativo come contraddizioni sociali e politi­che e scelgono la ritirata come strategia di presunta salvezza personale. Non si accenna neanche alle difficoltà anche nelle relazio­ni lavorative tra organizzatori e insegnanti che emergono nell’ambito delle esperienze di piccole scuole autogestite, dove spesso l’auto-sfruttamento, la dequalificazione e la mancanza di welfare vengono taciute in nome dell’ideale “alternativo”. Insomma, l’aggettivo libertario nei contesti descritti dal documentario di Basadonne e Pollio corrisponde a individualista ed elitario.

Questo documentario è un’occasione man­cata, perché sicuramente nel campo della educazione libertaria esistono piccoli pro­getti alternativi come quelli che abbiamo descritto anche noi (Serendipità a Osimo, ad esempio) che articolano la sperimenta­zione in una capacità di leggere in modo critico la relazione con il sistema educati­vo statale e il contesto socio-economico in cui la scuola libertaria si inserisce. Esistono inoltre esperienze consapevoli come la Re­te per l’educazione libertaria che dialoga in modo costruttivo anche con chi lavora nella scuola pubblica. La storia di questo docu­mentario è purtroppo è anche lo spaccato di una situazione di confusione e di super­ficialità in cui spesso si fermano le buone intenzioni di cambiare il proprio piccolo mondo senza approfondire le ragioni della critica sociale e il significato nobile e impe­gnativo della parola libertà.

[Recensione]. Recuperando el paraíso (#8)

Recuperando el paraíso
Film documentario di Rafael Camacho e José Arteaga, 72 minuti, Messico, 201
Recensione di Vittorio

“Alla riconquista del paradiso” è per me la traduzione che rende meglio l’idea dell’in­tensità del concetto di “recuperar” per le comunità povere del Messico indigeno e contadino.

Recuperando el paraíso
Recuperando el paraíso

 

È un documentario indipendente che rac­conta la resistenza del paese di Santa Maria Ostula nella costa dello stato di Michoacan, che come molte altre, stanno soffrendo da anni la violenza del crimine organizzato. Gli autori sono due giovani registi con già molta esperienza nel mondo dei media di­gitali e militanti, impegnati da anni nelle lotte di base a Città del Messico e in diverse altre regioni del paese.

Le riprese hanno inizio nel 2009, quando gli abitanti di Ostula fondano il centro abitato di Xayacalan sui terreni che gli erano stati sottratti dal governo per es­sere distribuiti a dei privati. A partire dalla riconquista di queste terre la repressione aumenta con omicidi e sparizioni forzate. Il clima di terrore provoca la fuga di decine di famiglie e in questo modo dei gruppi crimi­nali, in accordo con il governo, iniziano a utilizzare quei terreni come base per le pro­prie operazioni. Nel 2014 durante la ribel­lione armata dei gruppi di autodifesa nello stato di Michoacan, raccontata magistral­mente da un altro documentario “Cartel Land” di Matthew Heineman del 2015, gli abitanti che erano stati espulsi con la forza, decidono di ritornare alle proprie terre libe­randole dal crimine organizzato e iniziano la ricostruzione delle case e il lavoro della terra che per anni era stata intoccabile.

I registi del documentario sono entrati in contatto con la comunità che abita Santa Maria Ostula nel 2009, quando in veste di giornalisti indipendenti hanno rac­contato il processo di occupazione delle terre e la formazione del primo nucleo di polizia comunitaria nel­lo stato di Michoacan. Tuttavia la repressione violenta raggiunse un tale livello di pericolosità da im­pedire la prosecuzione del lavoro di documentazione negli anni successivi. Nel 2014, durante l’insurrezione armata, i registi hanno accompagnato le forze di Autodifesa nella loro avanzata fino alla co­sta e sono arrivati così a Xayacalan dopo cinque anni di assenza. In questo modo hanno ripreso il racconto da dove si era interrotto, documentando anche le atro­cità commesse dal crimine organizzato.

Il film racconta, osservando con sensibili­tà e in maniera partecipante, le assemblee popolari, l’organizzazione delle forze di autodifesa, le relazioni tra la vita quotidia­na e la grande guerra del narcotraffico che da almeno dieci anni sconvolge il Messi­co. L’autonomia per le comunità indigene e popolari significa autogoverno, demo­crazia diretta e autodifesa armata e si in­scrive nella tradizione secolare di resisten­za alla colonizzazione prima e ai latifondi poi. L’esperienza politica della comunità di Ostula, come quella di centinaia di altre esperienze meno note, rappresenta oggi l’unica base umana e politica per ri­sollevare un paese devastato dalla forma più avanzata ed efficace di neoliberalismo: il narcotraffico organizzato.

La storia del giornalismo indipendente in Messico a fianco delle rivolte e delle sperimentazioni politiche popolari risale almeno ai primi anni dello zapatismo e conta al suo interno numerose produzio­ni e figure degne di nota. La relazione tra i reporter impegnati nella documentazio­ne dal basso e i movimenti sociali ha dato luogo a numerosi collettivi di produzione e distribuzione di materiali multimediali che spesso, come questo documentario, vengono autofinanziati anche con l’aiuto della rete internet. Fuori dalle comunità zapatiste più note, molti territori indigeni e contadini del Messico hanno visto na­scere in questi ultimi dieci anni esperienze di autogoverno, spesso dettate dall’urgen­za dell’autodifesa contro poteri politici corrotti e narcotrafficanti.

L’esperienza delle Comune di Oaxaca nel 2006 ha segnato uno spartiacque politico importante per la pratica dell’autonomia politica in contesti urbani e un esempio che è stato seguito con alterne fortune da decine di comunità più o meno grandi. In quella occasione perse la vita un uomo che in questo contesto è giusto ricordare, il documentarista indipendente Bradley Will di Indymedia New York, ucciso da un gruppo di paramilitari a Oaxaca il 27 ottobre del 2006 mentre raccontava la vi­ta dei difensori delle barricate della città. Anche a quelli come lui è giusto dedicare il successo e la diffusione di questo nuovo utile documentario.

 Per sostenere il progetto:
www.indiegogo.com/projects/recovering-paradise/

 Per contattare gli autori, per info e pre­sentazioni:
www.facebook.com/recuperandoelparaiso/