Eneas, ucciso dal carcere (#2)

Eneas, ucciso dal carcere
Di Gianluca

La storia di Eneas non è finita. Dopo la sua tragica morte nel carcere di Villa Fastiggi il 25 settembre 2015, sua madre e sua sorella, i suoi amici e tanti compagni solidali hanno iniziato a promuovere azioni per denunciare le responsabilità del carcere di Pesaro in quanto accaduto. Un presidio si è svolto sotto le mura dell’istituto e un gruppo di solidali ha continuato a farsi sentire con volantinaggi durante gli orari dei colloqui e organizzando un gruppo di persone che vogliono seguire questo caso; un’inchiesta giudiziaria per “istigazione al suicidio” è in corso. Ad inizio dicembre è arrivata la notizia che la direttrice del carcere verrà trasferita. Noi vogliamo ricordare questa dolorosa storia perché anche nella nostra regione il carcere è un meccanismo di oppressione sociale spesso rimosso fino a quando qualche evento tragico non ci riporta alla realtà.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

La storia che raccontiamo ha il suo epilogo nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, ma potrebbe essersi svolta ovunque, in una delle tante prigioni sparse per il paese, ad una delle troppe persone che entrano in carcere, spesso per reati di lieve entità, e finiscono per non uscirne più.

Anas Zanzami, detto Eneas, di ventinove anni, è un uomo marocchino che ha vissuto in Italia dall’età di sei anni. Viene arrestato ad aprile 2015 con l’accusa di false generalità e resistenza a pubblico ufficiale, reato commesso nel 2011 e per il quale subisce una spropositata condanna ad un anno di detenzione. Proprio il giorno in cui viene denunciato, per ironia della sorte, era riuscito faticosamente a ottenere la cittadinanza italiana. In base al nostro ordinamento giuridico il periodo di condanna inflitto ad Eneas non giustifica una detenzione ma andrebbe scontato con misure alternative al carcere. Infatti, dopo cinque mesi di reclusione Eneas potrebbe ottenere, in teoria, gli arresti domiciliari. L’udienza, che non avrà mai luogo, è fissata per il 21 ottobre 2015. Il carcere di Pesaro, è bene chiarirlo, ha visto negli ultimi anni intensificarsi i problemi di sovraffollamento e le tensioni tra sorveglianti e detenuti, compreso il numero dei suicidi e conseguenti proteste, anche dure, come quella del 2013 seguita al suicidio in cella di un uomo di trentatré anni. Altrettanto nota è la direttrice, Armanda Rossi, conosciuta per i suoi metodi autoritari e discrezionali nella gestione dell’attuale struttura e di quella del suo passato incarico, ovvero il carcere di Campobasso.

Per Eneas l’impatto con la vita carceraria sembra essere stato complicato e tortuoso. Un litigio con il concellino, detenuto con cui divide la cella, e il successivo rapporto degli agenti di custodia contro cui fa ricorso al magistrato di sorveglianza, lo escludono dall’accesso al lavoro e dalla possibilità di un’uscita anticipata. Si inaspriscono i rapporti con i sorveglianti e tra provocazioni e intimidazioni il ragazzo non esce all’aria per parecchio tempo. Decide di farlo dopo più di quattro mesi, ma appena esce viene aggredito da altri due detenuti. La pressione comincia a farsi sentire, la situazione si esaspera. Aumentano i controlli e le minacce, la posta gli viene bloccata e consegnata con criteri arbitrari, una pressione psicologica continua: Eneas capisce e non ci sta, decide di difendersi, reagire, chiedere aiuto a chi gli è vicino. Entra in sciopero della fame, perde parecchi chili, incide sulla propria pelle la rabbia per l’ingiustizia che sta subendo. Viene successivamente trasferito al carcere di Ascoli Piceno sotto osservazione, etichettato come problematico e tossicodipendente.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

Dopo circa un mese viene ricondotto a Pesaro, anche se lui non ha nessuna voglia di tornare a Villa Fastiggi. Riesce ad incontrare la madre a colloquio ma verrà trovato morto poche ore dopo, impiccato. Le autorità parlano di sucidio addebitandone tempestivamente le cause alla fragilità psico-fisica di Eneas e al suo carattere “problematico”. La storia suscita da subito sospetti e rabbia nella famiglia e tra gli amici del ragazzo. Troppe cose non tornano. Dall’esigenza di una carcerazione per simili reati al trattamento subito in carcere, fino alla pessima scelta del suo ultimo trasferimento a Villa Fastiggi. I suoi amici e compagni si mobilitano, si diffonde la solidarietà, si arriva a volantinare davanti al carcere durante le visite. Il 22 novembre 2015 si svolge infine un numeroso presidio sotto le mura della struttura. I solidali si fanno sentire, i detenuti rispondono dalle finestre con piccoli fuochi improvvisati e grida che raccontano altre ingiustizie subite. Sono i primi passi, di certo non gli ultimi, per ricordare Eneas perseverando nella lotta contro il carcere e ciò che rappresenta: l’annullamento delle persone attraverso l’isolamento dal mondo e dai loro affetti, il controllo totale della vita quotidiana, il mantenimento della disciplina attraverso una degradante logica di premi e punizioni.

Di carcere si muore e benché sia importante capire come, non dovremmo mai dimenticare che un suicidio o un omicidio da parte di qualche sorvegliante troppo zelante o una lunga malattia consumata nell’umido della cella, sono comunque il prodotto di una situazione, quella carceraria, che in quanto tale determina sofferenza, morte e vite mutilate. In fondo in carcere non dovrebbe morire nessuno, in carcere non ci si dovrebbe neanche vivere. La prigione va superata. Questa convinzione è il filo che prolunga questa storia al di fuori del carcere, nella lotta che potrà nascere e nei legami che saprà costruire.

Le prigioni andrebbero buttate via (#3)

Le prigioni andrebbero buttate via
Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram

Pubblichiamo una intervista raccolta a febbraio 2016 da Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram, detenuto nella galera di Barcaglione ad Ancona. Alla sua storia abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero #2 e questa volta siamo contenti di far parlare lui in prima persona. La repressione che ha subito ha costretto molti ad aprire gli occhi sulle reali condizioni delle carceri nelle Marche e ha reso visibile anche in provincia il fatto che una inimicizia insanabile separa i ribelli dai tutori dell’ordine della nostra società. Una vendetta legalizzata ha colpito Alessio perché da anni lotta nella strada, con lo sport popolare, a contatto con chi soffre lo sfruttamento e il razzismo sulla pelle. Le sue considerazioni sul carcere ci descrivono una realtà lontana da alcune posizioni radicali ma puramente teoriche che spesso aleggiano sul dibattito anti-carcerario e ci restituiscono un quadro inquietante delle mutazioni soggettive prodotte dalla repressione, dal razzismo e dall’isolamento sociale.

Antony Gormley, A case for an angel
Antony Gormley, A case for an angel

 

Alessio Abram si trova in carcere dal 13 novembre 2015. Sulle spalle una condanna assurda a 5 anni e 2 mesi, poi ridotta a 3 anni e 4 mesi con una udienza tenutasi a metà dicembre. È bene specificare che si tratta di una pena definitiva. Il tutto per il mancato rispetto dell’obbligo di firma in questura per un provvedimento di DASPO che lo ha colpito una decina di anni fa. Si sta parlando di quattro, cinque casi in tutto. Una cosa abnorme da cui come già più volte sottolineato traspare una chiara volontà persecutoria per il suo impegno nei movimenti.
Alessio attualmente si trova da qualche settimana al carcere del Barcaglione dopo che ha passato i primi tre mesi di prigionia a Montacuto. È stato lui a chiedere il trasferimento visto che notoriamente Barcaglione è un carcere dove si sta meglio, o forse è più opportuno dire meno peggio dell’altro.
In questi mesi ha ricevuto e continua a ricevere lettere, messaggi di solidarietà e affetto da tutta Italia e anche dall’estero da parte di compagni, associazioni, gruppi di tifosi. Un sostegno fondamentale per aiutarlo a superare una prova così difficile.
Dal punto di vista dell’iter giudiziario il prossimo 18 maggio è stata fissata l’udienza per discutere la richiesta di affido ai servizi sociali, scelta che farebbe aprire le porte del carcere. Inoltre è in ballo anche il ricorso alla Cassazione per abbassare ulteriormente la condanna ridotta a 3 anni e 4 mesi.
Abbiamo inviato ad Alessio, via lettera, alcune domande per un’intervista incentrata inevitabilmente sulla condizione carceraria.
Ecco le sue risposte.

Antony Gormely, Learning to think
Antony Gormely, Learning to think

 

Come è stato l’impatto con il carcere e quali sono state le tue prime impressioni?

Il carcere è un luogo che non auguri a nessuno. L’impatto è terrificante. Una volta varcati i cancelli subisci subito la prima umiliazione. In piedi completamente nudo con tre appuntati che ti guardano e ti fanno fare le flessioni per vedere se non hai nascosto della droga nel culo. Dopo le foto segnaletiche ti consegnano lo stretto necessario: piatti e forchette, un rotolo di carta igienica, spazzolino, dentifricio, coperta, lenzuola, materasso, cuscini che trascini fino ad arrivare alla tua cella. Capisci subito a caldo che hai perso molto più della tua libertà.

Che tipo di composizione sociale hai trovato, chi sono i reclusi nel carcere di Montacuto e ora a Barcaglione?

Al Barcaglione sono arrivato solo da tre giorni quindi non posso dire nulla. In ogni caso il trasferimento è stato traumatico. A Montacuto ci sono tanti, tantissimi ragazzi stranieri, la maggior parte per reati legati alla droga. C’è molta ignoranza, troppo razzismo, la maggior parte è gente di destra con tanto di simbologia. Questo è il primo impatto. Per noi compagni diventa così ancora più difficile, più dura. Ma poi gradualmente si instaurano rapporti e capisci molte cose.

In passato nel carcere di Montacuto si sono verificati numerosi casi di suicidio per il sovraffollamento. Com’è ora la situazione? Il numero dei detenuti è stato notevolmente diminuito… che contesto hai trovato?

Dicono che sia un carcere con una mortalità alta. Di suicidi o presunti tali. Oggi ad essere sinceri non si vive uno stato di sovraffollamento. Le celle ospitano quattro persone, ma sono dignitose con bidet e doccia in stanza.

Un tempo il carcere era anche l’occasione per acquisire una coscienza politica, capire che alle origini della reclusione ci sono determinate condizioni sociali. Ora quanto è difficile comunicare ai detenuti questo messaggio, favorire una loro consapevolezza?

Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Il primo impatto non è facile. Sin dall’inizio ti accorgi che noi compagni siamo troppo diversi, e non mi riferisco alla differenza dei reati. Il problema reale è che il carcere così com’è concepito non serve a niente. Le prigioni andrebbero buttate via. Ma nel frattempo gli stessi carcerati devono prendere coscienza che i protagonisti di questa battaglia sono loro, siamo noi. Questo risulta assai difficile farlo capire, così come risulta difficile farlo dall’esterno perché siamo e viviamo sotto scacco. Prima si pensa a sé stessi.

Nonostante questo, a Montacuto nei primi tre mesi ho visto qualcuno cambiare e prendere consapevolezza dei propri diritti. Abbiamo vinto una piccola battaglia per ottenere alcune cose per la stanza come un tavolino e il phon. Dopo aver inoltrato una lettera collettiva alla direttrice abbiamo ottenuto la possibilità di tenere 2/3 riunioni collettive. Ora, tramite il garante, abbiamo chiesto di rendere più a portata dei bambini la sala colloqui: togliere le reti vicino alle sbarre che sono di forte impatto traumatico, nonché di controllare i prezzi alti dei prodotti in vendita dentro il carcere.

Quali sono le problematiche maggiori che hai riscontrato e che risposta trovano dalle istituzioni interne?

Le istituzioni? Dove? E quali? Ci sono state delle visite, molto simili a quelle della gente che va allo zoo. Passano, ti guardano e se ne vanno. Il problema principale è capire a cosa dovrebbe servire il carcere.

Che tipo di attività è possibile svolgere e quanto sono utili per i detenuti?

Ci sono delle attività, corsi, ma poca cosa, con la scusa dei fondi sempre più scarsi servono al momento solo a svagarti qualche ora. Certo niente non è, ma ci pensate voi se dentro al carcere ci fossero davvero dei corsi di formazione con possibilità lavorative? Quando esce dalla prigione dopo dieci anni cosa dovrebbe fare un uomo senza soldi e con la fedina penale sporca? È chiaro che così concepito il carcere non serve a niente, come non serve a niente la visita dei parlamentari nelle modalità in cui oggi si svolge. Spero che questa mia testimonianza possa sollecitare chi di dovere per favorire un lavoro serio e costruttivo. Se in questa fase storica proprio non si può fare a meno dell’istituzione carceraria almeno ripensiamola profondamente, altrimenti è chiaro che una volta che ci entri nove volte su dieci ci ritorni.

Infine un’ultima domanda: nell’opinione pubblica è altamente diffusa una cultura securitaria. Cosa ti senti di dire in proposito? Che messaggio vuoi mandare?

Questa domanda meriterebbe davvero una intervista specifica. Si spendesse la metà dei soldi che attualmente si utilizzano per la sicurezza in favore di progetti sociali reali, sicuramente le nostre carceri sarebbero più vuote. In Italia abbiamo una giustizia, mi fa ridere chiamarla così, lenta e troppo arbitraria. Concludo salutando la terza sezione del carcere di Montacuto invitando tutti i ragazzi a continuare in quello che abbiamo iniziato perché siamo noi detenuti per primi che possiamo cambiare qualcosa. Infine un invito alle istituzioni: meno passerelle e più contatti con la popolazione carceraria.

 

 

Difendersi in tribunale, costruire solidarietà nelle strade (#8)

Difendersi in tribunale, costruire solidarietà nelle strade
Intervista di A. Soto al collettivo Prison Break Project

Oggi più che mai, parallelamente ai nostri percorsi di lotta, pensiamo sia importante parlare di repressione. Non tanto per un’attitudine al vittimismo, quanto piuttosto per offrire alle lotte stesse nuovi strumenti di autodifesa ma anche di critica, resistenza e opposizione. Anche nelle Marche e in Romagna, nonostante la situazione e la composizione delle lotte sociali non abbia motivato speciali ondate repressive, abbiamo sperimentato l’applicazione selettiva dei nuovi meccanismi di diritto penale. Senza dubbio un caso eclatante è quello di Alessio Abram, compagno e ultras impegnato nel calcio antirazzista, che ha visto di recente precipitare la sua situazione penale fino alla condanna a oltre 4 anni di carcere a causa della violazione del DASPO di cui ha già scontato più di un anno e mezzo in carcere ad Ancona e attualmente è in semi-libertà con obbligo di rientro notturno nel carcere di Barcaglione – Ancona. Insieme a lui nel capoluogo dorico altri ultras hanno visto aprirsi le porte del carcere con pene detentive irreali, intrappolati dalle misure di prevenzione. Sempre nelle Marche finiscono sotto osserva­zione le lotte dei terremotati, di cui ogni mobilitazione, anche la più pacifica e simbolica, viene costantemente monitorata e se necessario censurata dalla polizia politica. Non dimentichiamo infine la repressione spropositata in occasione della contestazione dell’aprile 2016 per il comi­zio di Salvini a Rimini e l’accanimento della stessa procura nei confronti delle esperienze di ag­gregazione e di lotta anfascista in Romagna di cui in parte abbiamo raccontato nel numero 7.

Per queste ragioni abbiamo scelto di proporre un’intervista al collettivo Prison Break Project, autore di un interessante lavoro edito da Be Press (Lecce) dal titolo “Costruire evasioni. Sguar­di e saperi contro il diritto penale del nemico” (per contatti: prisonbreakproject@autoprodu­zioni.net). A condurre l’intervista è un compagno aderente all’Associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione, che opera da una decina di anni a Bologna e provincia. Gli obiettivi principali dell’Associazione sono di supportare materialmente e moralmente chi in­cappa in guai giudiziari per la propria attività nelle lotte sociali e di diffondere informazioni e consapevolezza sui meccanismi della repressione. È in preparazione la seconda edizione di un suo fortunato opuscolo del 2003: “Difesa legale. Note per una maggiore consapevolezza”.

Tentacoli. Opera di Federico Molinaro [2]
Tentacoli. Opera di Federico Molinaro

Mi piace questo vostro approccio di volere “capire la logica del potere, conoscere le sue regole per scovare degli interstizi dove orientare sforzi, resistenze, offensive” (p. 24). Conquistare la consapevolezza di sé e del mondo è il primo passo per potere imbastire una lotta, senza il quale rischiamo di rimanere in ballo di forze più grandi di noi: condividete?

Sicuramente. Lo sforzo di consapevolezza è sempre fondamentale se si vuole durare nelle lotte e non essere travolti alla prima mareggiata. In passato, forse perché si operava in contesti di maggiore agibilità politica, diversi-e compagni-e tendevano a pensare che riflettere sui dispositivi repressivi fosse attività da dele­gare a specialisti e avvocati. Quasi per un riflesso scaramantico (“lontano dagli occhi, lontano dal cuore”) molti tendevano a non farne un tema di discussione comune. Noi pensiamo invece che serva affrontare a viso aperto la questione della repressione, senza certo farsi monopolizzare l’agenda dal problema ma, al contrario, per continuare a lottare più efficacemente. Le offensive repressive in corso ci confermano che non ci possiamo permettere il lusso di rimanere impre­parati. È essenziale allora cogliere cosa nella dinamica repressiva si ripresenta con tratti sempre comuni, ad esempio la necessità di costruire un nemico pubblico, la differenziazione tra buoni e cattivi, il tentativo di dividere e isolare. Ma è impor­tante anche capire quali sono i fronti di avanzamento e di sperimentazione da un quindicennio a questa parte, come quelli che noi tentiamo di indicare in relazione ai dispositivi repressivi del terrorismo, della devastazione e saccheggio, dei reati associativi, della repressione economica e delle misure di prevenzione.

La mia catena, Opera di Federico Molinaro [3]
La mia catena, Opera di Federico Molinaro

Parliamo dell’argomento centrale del libro, l’analisi del diritto penale del nemico: che cos’è esattamente?

La teoria del diritto penale del nemico è stata elaborata dal penalista tedesco Gunther Jakobs nel 1985. In base a tale teoria, il diritto punitivo delle società de­mocratiche contemporanee si compone di due binari paralleli: diritto penale del cittadino, che sanziona le violazioni commesse dai soggetti di diritto “comuni” e diritto penale del nemico, concepito per colpire talune categorie sociali che assumono, di per sé, valenza deviante. Questo secondo “binario” del diritto penale non è volto a reprimere degli illeciti ma a neutralizzare dei soggetti, definiti come veri e propri “nemici della società”; per fare ciò è possibile derogare alle garanzie del diritto per utilizzare le regole tipiche della “guerra”, orientate direttamente alla sconfitta dell’avversario.

Emblematica, per capire l’entità di questa concezione giuridica, è la seguente affermazione di Jakobs: “chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trat­tato come persona in diritto. Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato come non cittadino” (e dunque deve essere neu­tralizzato).

Abbiamo scelto di usare questa configurazione teorica perché, secondo noi, è par­ticolarmente adatta a delineare il contesto generale in cui operano i diversi dispo­sitivi repressivi presi in considerazione. Il trait d’union che collega i cinque profili specifici che abbiamo approfondito è proprio la finalità di attaccare, colpire e rendere inoffensivo ciò che le istituzioni concepiscono quale nemico della società, che in quanto tale non ha diritto di usufruire nemmeno delle labili garanzie che l’ordinamento offre ai “normali” criminali.

Il diritto penale del nemico è in grado di collegare e unificare adeguatamente le diverse dimensioni dell’attacco ai movimenti sociali, quella giuridica come quella politica e mediatica: il progressivo ma costante aumento repressivo degli ultimi 15-20 anni è stato reso possibile grazie a un’incessante mobilitazione del circuito legislativo, giudiziario e istituzionale ma anche agli attacchi concertati tra media, stampa e magistratura.

Insomma, la finalità del nostro lavoro è quella di sviscerare la strategia comples­siva dietro la scelta dei differenti strumenti che il sistema offre agli organi atti a reprimere e svelare la logica di guerra, relativa ai rapporti di forza, che contrappo­ne gli apparati repressivi ai movimenti. Tutto ciò nell’ottica di capire a fondo la natura e la funzione dei dispositivi repressivi al fine di poterli combattere meglio.

Contro corrente. Opera di Federico Molinaro [2]
Contro corrente. Opera di Federico Molinaro

Potete descrivere il meccanismo di costruzione del “nemico pubblico” o folkdevil?

L’applicazione del diritto penale del nemico richiede preliminarmente che il po­tere repressivo segnali quali sono i “nemici pubblici” che vanno neutralizzati. Nominare e definire il nemico pubblico serve infatti a catturare consenso rispetto alla repressione di un determinato gruppo sociale.

Come diceva Carl Schmitt, avere un nemico comune è fondamentale nella co­struzione della soggettività politica. Ad esempio, per capire qual è il pensiero politico dominante oggi basta vedere quali sono le categorie sociali colpite dal decreto Minniti: poveri, prostitute, migranti, occupanti di case, insomma, chi è incompatibile con l’ideologia del decoro urbano. Oggi sono questi i folkdevil, ossia quei soggetti contro i quali vengono scatenate vere e proprie campagne di “panico morale” che mischiano ansie sociali, bigottismo e difesa dell’economia capitalistica.

Se il meccanismo della costruzione del nemico pubblico è costitutivo delle società in cui viviamo e quindi permanente, sono invece variabili nel tempo i gruppi sociali capaci di impersonificare il nemico agli occhi di imprenditori morali, mass media e opinione pubblica. Per questo motivo anche nel campo della repressione delle lotte sociali di volta in volta si fabbricano nuove sigle ed etichette (il no global, il black bloc, l’anarco-insurrezionalista) o si ripropongono e rinnovano vecchie categorie (il teppista, il terrorista).

L’effetto a cui si mira è quello di delegittimare istanze di ribellione e trasforma­zione sociale, ma anche imporre una distinzione tra buoni e cattivi all’interno dei movimenti per dividere e isolare le sue diverse componenti.

Senza titolo. Opera di Federico Molinaro [1]
Senza titolo. Opera di Federico Molinaro

A me pare che a fronte della costante politica del divide et impera ci sia da parte “nostra” un’incapacità di andare al di là di stupidi settarismi. C’è la salvaguardia cieca e inconcludente del proprio orticello, lasciando indietro quella solidarietà che, al di là delle differenti pratiche di azione, risulta spesso il fattore più importante di un movimento antagonista allo stato di cose presenti. Voi in questo andate, per fortuna, controcorrente: che ragionamento c’è alla base di questo vostro approccio?

Uno degli obiettivi primari della repressione è cercare di isolare, frammentare e fare “terra bruciata” attorno a individui e gruppi al centro della sua attenzione. Per questo motivo secondo noi una delle urgenze di risposta “minima” risulta essere quella della solidarietà a persone e pratiche attaccate, oltre alla circolazione d’informazioni e ragionamenti sulle offensive repressive.

Lo stato usa, affina e sperimenta in maniera ricorrente nuovi e vecchi dispositivi repressivi, crediamo quindi che la logica che chiamiamo “difendere solo i miei” risulti spesso fallimentare. In primo luogo, indebolisce la difesa delle lotte e del­le loro pratiche, oltre a esporre una differenziazione nel profilo dei colpiti dalla repressione che può risultare deleteria, lasciando campo aperto alla dicotomia “buoni e cattivi” che tanti danni ha già portato…

In secondo luogo, pensiamo che sebbene possa essere (umanamente) comprensi­bile un sostegno riservato solamente ai membri del proprio gruppo, questo abbia la tendenza a scivolare verso una difesa dei profili degli accusati seguendo spesso le stesse categorie processuali (precedenti giudiziari, inserimento nel sociale e nel lavoro ecc.) più che ingaggiare una lotta all’interno del “sistema processo” dell’in­tero movimento attaccato dalla repressione. È in questo quadro che riprendiamo il motto No Tav “si parte e si torna insieme”, proprio per sottolineare l’importan­za di una solidarietà tangibile e politica contro la repressione senza differenzia­zioni e a partire da un lavoro politico collettivo per non cedere alle tendenze di individualizzazione della difesa, per vantaggi materiali o nell’inseguire ortodossie di “purismo”.

È in questo contesto che si può inscrivere la nostra riflessione sul periodo storico del “movimento noglobal”. Senza entrare in una diatriba di valutazione dei grup­pi che non ci interessa, nel libro segnaliamo come le conseguenze processuali del G8 di Genova con la frammentazione in mille rivoli delle iniziative processuali e (soprattutto) delle mobilitazioni solidali ha aperto di fatto la strada a condanne pesantissime su alcuni compagni-e, oltre ad aver sdoganato il reato di devastazione e saccheggio divenuto oggi ordinario nella repressione delle mobilitazioni di piazza. Le rivendicazioni tecniche formulate in quel contesto (riconoscimento di un “diritto di resistenza”, il numero identifi­cativo per poliziotti e carabinieri…) non hanno offerto, se le valutiamo a 15 anni di distanza, un avanzamento nei margini d’azione politica né un freno alle offensive repressive.

Senza titolo. Opera di Federico Molinaro
Senza titolo. Opera di Federico Molinaro

 

L’applicazione delle misure preventive si sta mol­tiplicando oggi anche in Italia. Fuori da qualsiasi garanzia di legge, si tratta di misure di polizia, di questura. È un cambiamento di non poco conto questo: come lo interpretate?

Il proliferare delle forme preventive è senza dub­bio un elemento centrale delle politiche repres­sive attuali. Tale tendenza caratterizza, a ben vedere, il sistema punitivo nel suo complesso e va oltre il campo di applicazione delle misure amministrative di polizia, che pure sono in au­mento esponenziale. Lo scopo è quello di colpire il militante politico prima che riesca a manifesta­re una qualche potenzialità offensiva. L’utilizzo spregiudicato di tali armi, a nostro avviso, va inserito quale singola tattica nella strategia generale del diritto penale del nemico.

Le misure di prevenzione, gli avvisi orali, i fogli di via e i decreti di sorveglian­za speciale, attuano la più accentuata forma di punizione preventiva possibile nell’ordinamento italiano. Non vertono, infatti, su fatti reato o su determinate condotte illecite, bensì su un profilo di “pericolosità sociale” dell’individuo.

Questi provvedimenti sono in crescita esponenziale, così come lo sono altre mi­sure preventive, quelle cautelari giudiziarie (custodia cautelare, arresti domiciliari ecc.), che limitano la libertà personale in collegamento con un procedimento penale non ancora concluso.

Spesso gli organismi preposti alla repressione possono combinare i due tipi di di­spositivi di punizione preventiva scegliendo quello che più conviene o è ritenuto efficace in un determinato momento, secondo una logica di performatività e pre­ventività tipica del diritto penale del nemico. L’esigenza di sconfiggere la minaccia prima ancora che questa si manifesti, infatti, spinge gli apparati repressivi a drib­blare il processo penale (che può essere fonte di ritardi e di incertezze dell’esito) e ad affidare direttamente alla polizia o al giudice delle misure cautelari il compito di sottrarre i-le compagni-e alle lotte e ai gruppi di appartenenza.

Il recente decreto Minniti, al di là delle misure specifiche che mette in campo, consegna una particolare agibilità a questo tipo di repressione. Quando parlia­mo di misure cautelari e di polizia, però, parliamo di provvedimenti introdotti da normativa precedente, di volta in volta emendata. Si può pertanto parlare di evoluzione in corso del sistema repressivo per cui la Minniti risulta solo l’ultimo tassello di un percorso omogeneo iniziato diversi anni fa.

Oltre l'ostacolo. Opera di Federico Molinaro [2]
Oltre l’ostacolo. Opera di Federico Molinaro

Da dove provare a ripartire quindi? Dalle pratiche di movimenti come quello No Tav, dal “si parte e si torna insieme”, dalla solidarietà come collante ineliminabile dei movimenti antagonisti?

Sicuramente la solidarietà, materiale e politica, è in­dispensabile in questo contesto in cui ci confrontia­mo con un aumento di compagni e compagne presi tra le grinfie giudiziarie (e amministrative).

Come dicevamo prima, per noi è prioritaria una visione ricompositiva nell’attenzione ai dispositivi repressivi e alle tendenze in atto. Crediamo che, a partire dall’intelligenza messa in luce dalle lotte, sia possibile rompere l’accerchiamento che la repressio­ne vuole imporre sui movimenti.

Il movimento No Tav ci offre una molteplicità d’e­sempi in questo senso: rompere il rituale del processo, rifiutare i provvedimenti preventivi e cautelari, rivendicare pratiche di sabotaggio… Certamente senza lasciare nessuno indietro, ma anche con la volontà di allargare il fronte delle lotte, costruendo connessioni tra militanti, sfruttati e “banditi” dalle vecchie e nuove leggi nell’attuale fase dello scontro di classe. Una risposta alla repressione non può essere separata dalla con­tinuazione e intensificazione delle lotte, non è un settore separato ma una parte integrante di esse.

In questo senso cerchiamo nel testo di presentare delle pratiche che riteniamo in­teressanti e auspichiamo che la stessa dimensione processuale non venga sempli­cemente delegata a tecnici. Allo stesso tempo crediamo tuttavia che il processo sia anch’esso un terreno di lotta da investire, poiché nonostante non abbiamo alcuna fiducia nella giustizia dei tribunali, le loro decisioni impongono conseguenze di cui si deve tener conto necessariamente.

La mia catena, Opera di Federico Molinaro [2]
La mia catena, Opera di Federico Molinaro

Ringraziamo il collettivo Prison Break Project – prisonbreakproject.noblogs.org

Le opere che accompagnano l’articolo sono una gentile concessione di Federico Moli­naro scultore, San Colombaro Certenoli (GE) – federicomolinaro.com