Dentro le scuole, fuori dagli schermi

Intervista di Vittorio a Livia Accorroni, fondatrice di Priorità alla Scuola-Marche

da Malamente 21, aprile 2021 [QUI IL PDF]

Abbiamo intervistato una delle fondatrici del comitato Priorità alla scuola (PaS) nelle Marche, che in questi mesi di relativa passività e rassegnazione delle lotte sociali nella nostra regione è stata una voce forte e attiva. Ci mettiamo in ascolto di questa iniziativa in difesa della scuola pubblica, anche se siamo sempre stati critici verso gli aspetti più istituzionalizzanti, disciplinari e repressivi della scuola di Stato. Pensiamo infatti che la scuola oggi vada difesa non come istituzione statale ma come spazio di relazione sociale pubblico, per trasformarla radicalmente e non per salvare il modello che anche prima della pandemia aveva troppi difetti. Dirigenti e insegnanti, tra l’altro, non stanno dando generalmente una bella prova, accettando con troppa facilità il nuovo paradigma autoritario, verticale, trasmissivo e passivizzante che si esprime nella quasi totalità delle attività svolte in didattica a distanza.

Ancona, 12 gennaio 2021

Quando e perché è nato il comitato di Priorità alla Scuola delle Marche? Da chi è composto?

Il Comitato Marche del movimento Priorità alla Scuola (PaS) è nato il 27 maggio 2020 dalla volontà, ma anche dalla disperazione, di tre madri lavoratrici anconetane Silvia Mariotti, Livia Accorroni e Valentina Rubini che – lo raccontiamo sempre – non si conoscevano nemmeno tanto bene e disponevano soltanto di una chat Whatsapp. Inizialmente denominato Comitato di Ancona, il gruppo è nato in risposta alla lettera-petizione indirizzata alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, pubblicata su AVAAZ il 18 aprile 2020 da un gruppo di madri, docenti, professioniste che chiedevano a gran voce che fine avessero fatto le scuole nel piano nazionale previsto dalla Fase 2 e pretendevano che l’istruzione tornasse al centro dell’agenda politica. Quelle scuole che infatti erano state la prima attività a dover essere interrotta, alla fine di febbraio non venivano nemmeno citate dai proclami della Fase 2 e 3, quando – per ricordarlo a tutti – si poteva ricominciare ad andare dall’estetista, in palestra, nei bar e ristoranti, e successivamente anche in discoteca, ma non si poteva in alcun modo rientrare negli edifici scolastici.

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L’Albero Maestro. Una realtà di “pedagogia del bosco” a Urbino

Intervista di Luigi a Nicoletta e Serena [da Malamente #12, ottobre 2018] [QUI IL PDF]

La natura non è un posto da visitare. È casa nostra.
Gary Snyder

Il rapporto di molti bambini con l’ambiente naturale è oggi sempre meno diretto, spesso si riduce al palcoscenico di una gita domenicale o alla visita programmata in fattoria didattica, anche perché la quotidianità della vita urbana o semi-urbana ne cattura l’attenzione, loro malgrado, in un mondo di cemento, plastica ed elettronica. Nelle scuole d’infanzia, a parte rare eccezioni in cui qualche nonno è chiamato a piantare pomodori in giardino, si diventa per lo più abili a colorare le fotocopie di un albero senza uscire dai bordi, poco importa se non si è più in grado di riconoscere le piante attorno casa o se non si è mai sentito il profumo di un bosco d’autunno. Anzi, non è infrequente che le nuove generazioni, sempre più abituate a vivere in spazi chiusi, artificiali e igienicamente ipercontrollati, provino sensazioni di disagio quando sono chiamate a uscire dalla propria bolla per entrare in contatto con la materia organica, si tratti di camminare a piedi nudi sulla terra o bere latte appena munto.

Ma ci sono anche bambini e bambine che trascorrono le proprie giornate principalmente all’aria aperta, che sia estate o inverno, tra osservazioni e scoperte, esplorando in libertà il mondo esterno e le potenzialità della propria autonomia. Spesso si sporcano, ogni tanto si sbucciano un ginocchio. Non sanno cosa siano i “lavoretti” uguali per tutti/e e la curiosità è il motore della loro crescita. Li potete incontrare a spasso tra le campagne e i boschi delle Cesane di Urbino: sono i bambini e le bambine di Maestra Natura, un progetto educativo che è da poco entrato nel suo secondo anno di attività, rivolto, per ora, alla fascia uno-sei anni.

Nella sede che domina la vallata da dove, quando l’aria è tersa, lo sguardo può correre fino al mare, i bambini non sono oggetto di un trasferimento di competenze da parte degli educatori, ma soggetti di esperienze vissute, con buona pace di quei genitori ansiosi che i figli non imparino mai abbastanza per “essere pronti” all’ingresso nella scuola primaria, che è in primo luogo imparare a restare buoni e seduti fino al suono della campanella. Inoltre, lo stile educativo di Maestra Natura (e delle molteplici esperienze di outdoor education che si stanno sviluppando anche altrove, anche nelle Marche) non tiene conto solo della sfera cognitiva, perché imparare a gestire fin da piccoli le proprie emozioni e i rapporti umani con gli altri è altrettanto importante che imparare l’inglese e le tabelline e, probabilmente, è una buona strada per iniziare a costruire un futuro di migliore convivenza.

Su Malamente abbiamo già dato spazio a esperienze educative fuori dagli schemi oggi maggioritari, questa volta abbiamo intervistato Nicoletta e Serena, fondatrici ed educatrici dell’associazione L’Albero Maestro, al cui interno si sviluppa anche il progetto Maestra Natura.

Vi chiedo intanto di presentarvi. Da che percorsi personali siete arrivate all’apertura dell’associazione L’Albero Maestro e del progetto Maestra Natura?

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La Rete per l’educazione libertaria: una realtà (#7)

La Rete per l’educazione libertaria: una realtà
Intervento di Giulio Spiazzi

La Biblioteca libertaria Armando Borghi di Castel Bolognese in occasione del centenario della sua fondazione ha organizzato lo scorso autunno un ciclo di conferenze e seminari sull’e­ducazione libertaria intitolato “Vaso, creta o fiore? Educare alla libertà”. Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento tenuto da Giulio Spiazzi la sera del 4 novembre presso il Teatrino del Vecchio Mercato, dedicato ai valori fondanti, ai percorsi e alle prospettive delle Rete per l’educazione libertaria, di cui Giulio è stato uno dei fondatori, oltre a essere attuale “ac­compagnatore” nella Piccola scuola libertaria Kether sulle colline di Verona. La registrazione dell’incontro, comprendente anche il dibattito con il pubblico presente, è disponibile sul canale youtube della Biblioteca Borghi.

La REL è una realtà in crescita, fatta di alcune esperienze già mature e consolidate e di tanti gruppi che, anche nelle Marche, ci stanno provando. Su queste pagine abbiamo già affron­tato l’argomento con una lunga intervista alle animatrici della scuola Serendipità di Osimo (Malamente #3) e contiamo di tornare a parlarne anche nei prossimi numeri, dando spazio al fermento di quanti stanno cercando di mettere in pratica, con modalità diverse, approcci di pedagogia non autoritaria.

 

Studiare
Studiare

 

Una storia collettiva

La storia collettiva e partecipata della REL, Rete per l’educazione libertaria, parte da lontano, ancora prima della data progettuale di fondazione del 2006, avve­nuta poi fattivamente nel 2008 nella città di Padova. Infatti già nel 2004-2005, a seguito di contatti e di frequentazioni presso l’allora comunità educante speri­mentale Kiskanu di Verona, insieme a Francesco Codello si era dibattuto sulla necessità di creare una Rete per l’educazione libertaria in Italia, quando ancora non esistevano realtà educative libertarie se non, in nuce, la nostra di Verona. A Berlino nel 2005 Francesco aveva partecipato all’incontro internazionale dell’I­DEC, International Democratic Education Conference, e aveva contribuito at­tivamente alla redazione della dichiarazione sulla libertà di scelta educativa dei bambini e delle bambine e dei ragazzi e delle ragazze, che è il nostro manifesto (lo trovate anche sul sito della REL).

Nella scelta di dare vita a una Rete emergeva chiaramente la consapevolezza che i tempi stavano finalmente maturando, anche per il nostro Paese, per rendere concreto l’appello libertario che si ritrova nel principio dei “fini congiunti inscin­dibilmente ai mezzi”. L’esistenza già dal 2004, a Verona, di una realtà “scolastica” di ricerca e sperimentazione educativa libertaria e l’affiorare di volontà che si an­davano concretizzando in altre parti d’Italia, in specie a Bologna con il progetto che verrà a chiamarsi I Saltafossi, indicavano che esistevano anche in questa parte d’Europa nuovi orizzonti dove la teoria libertaria poteva essere e divenire sempre più pratica libertaria.

A Padova, quando venne varato il cammino della futura REL, oltre a Francesco Codello e al sottoscritto erano presenti anche rappresentanti di diverse esperienze educative libertarie, che complessivamente coprivano un vasto arco temporale di crescita di bambini e ragazzi, che andava dalla fascia prescolare con Grazia Ho­negger Fresco (una diretta allieva della Montessori, che ricordo sempre con pia­cere come una “ribelle” montessoriana), alla nostra realtà veronese che riguardava la scuola primaria, alle proposte di cultura e autoeducazione permanente senza età, al di fuori dei percorsi di scolarizzazione, di Elis Fraccaro e dell’Ateneo degli imperfetti di Marghera. C’erano dei fuoriusciti dalla scuola steineriana – io sono tra questi – che non si riconoscevano nel suo dogmatismo e c’era chi criticava il sistema montessoriano sclerotizzato e diventato probabilmente qualcosa d’altro rispetto alle indicazioni della Montessori. Insomma, un mondo a vastissimo gi­ro d’orientamento si ritrovava volontariamente per ascoltarsi e per promuovere un’utopia che, nel corso di questi quasi dieci anni di viva esperienza sul campo, è oggi la Rete per l’educazione libertaria: una delle possibili voci di aggregazione e di frequentazione del variegato mondo della pratica diretta libertaria.

Dico che la REL è solo “una delle possibili” reti perché noi non ci siamo mai sognati di dire che siamo l’unica rete per l’educazione libertaria. Noi siamo la REL, siamo partiti nella maniera che vi sto raccontando ma ciò non toglie che è che chi è fuori dalla REL sia fuori dall’educazione libertaria. È anche vero che la REL in tutti questi anni ha fatto un bel percorso e ha quindi accumulato una discreta esperienza per quanto riguarda il collegamento tra varie realtà educative, sia scolastiche che extra scolastiche.

Attraverso la pratica della condivisione e del sostegno mutualistico di kropotkiniana memoria, offerto da coloro che hanno acquisito capacità e conoscenze dirette sulla crescita di comunità autoeducanti, negli anni si è allargato e diffuso significativa­mente il numero di realtà che si riconoscono in questo percorso, creando un circui­to attivo in continuo movimento. All’interno della Rete si ritrovano quindi sia le si­tuazioni “storiche” che l’hanno generata e che ne hanno segnato il percorso (ricordo Kiskanu, ora Kether, di Verona e I Saltafossi di Bologna, solo per citare le prime) sia diverse nuove realtà che si sono affiancate nel tempo con coraggio e determinazione per rafforzare e ampliare il comune tessuto educativo libertario italiano.

 

Volare
Volare

 

In rete per un cammino comune

Fatta questa premessa “storica”, la domanda d’obbligo è: “che cos’è dunque la REL?”. Possiamo dire che la Rete per l’educazione libertaria è in primis una “pra­tica di relazione che si nutre di presenze” ed è bene sottolineare che le presenze sono corpi, corpi reali, non pensieri e teorie immateriali. La presenza è importan­te. Noi non comunichiamo solo per email ma cerchiamo di incontrarci per poter tessere fisicamente delle relazioni. La REL si estende da un capo all’altro della penisola e quindi non è sempre facile trovarsi, ma nel tempo si è visto che chi effettivamente vuole aderire e seguire i percorsi della rete trova il modo di essere presente fisicamente agli incontri: siamo un gruppo di donne e di uomini che si ritrova per stare assieme, per discutere di educazione libertaria e per agire conse­guentemente in quest’ambito.

Per scelta la REL non ha una formalizzazione giuridica, non siamo un’associa­zione iscritta in qualche registro. Dunque la REL è un insieme aperto di persone reali che, partendo da motivazioni interiori, da un desiderio d’essere, hanno dato vita a un soggetto concreto, non formalmente riconosciuto dunque non giuridi­co, un soggetto collettivo che cerca con le proprie forze e con le proprie capacità di divulgare, diffondere, mettere in relazione le esperienze di pratiche autoedu­cative che si reggono filosoficamente su principi di matrice libertaria. La REL è quindi una “partecipazione collettiva” di desiderio, di contatto, di scambio, di approfondimento e di scommessa sulla fattività, oggi giorno, della messa in opera di pratiche educative autoeducanti sinceramente libertarie.

Per far questo la REL compie un lavoro di tessitura che passa attraverso momenti annuali di aggregazione nazionale (quest’anno si è appena concluso il 7° incontro) e seminari di approfondimento, dialogo, discussione e studio comune. Proprio domani a Pavullo, nel modenese, presso la comunità autoeducante de I Prataioli prenderà il via il 5° seminario operativo incentrato su tematiche educative impor­tanti quali: corpo e sessualità nell’esperienza educativa libertaria; le competenze di base per un accompagnatore libertario; la funzione “politica” del cammino REL in Italia; etc. Possiamo delineare una cronologia e una geografia di queste attività assembleari periodiche. Gli incontri nazionali si sono finora svolti a Verona (scuo­la libertaria Kiskanu), ancora a Verona, a Roma, a Rimini, a Urupia nella comune libertaria di S. Marzano di S. Giuseppe nel Salento tarantino, a Osimo (Scuola libertaria Serendipità) e ad Abbiategrasso (Scuola libertaria Ubuntu). I quattro seminari hanno invece visto la luce alla Scighera di Milano, a Osimo, ancora a Milano e l’ultimo a Verona presso la comunità autoeducante Kether.

È bene precisare, quando si parla di seminari, qual è la posizione esplicita della REL rispetto a queste proposte. Siamo fermamente convinti che nessuno di noi si possa proporre né qui né altrove come “esperto”, “formatore”, detentore di un ricettario che possa far diventare qualcun altro un “operatore libertario” o che lo possa ren­dere empatico con bambini, bambine, ragazzi e ragazze. I seminari di studio e di incontro/confronto della REL sono momenti autoformativi importantissimi, dove chi vi partecipa trova nello scambio di esperienze, dentro la dimensione fortemente contestuale del momento, la possibilità di far crescere se stesso e la comunità di cui fa parte. Siamo quindi del tutto estranei all’idea di un intervento da parte di “tec­nici-guru” col compito di insegnare come dover essere libertari o quale particolare dottrina frequentare per aprire e gestire una scuola libertaria, come se fosse un fran­chising, una start-up o altre, per me odiose, imprese micro-capitalistiche di questo tipo. La REL non dà certificazioni né attestati di “buon educatore libertario”, ma promuove scambio, confronto, messa in gioco su queste questioni educative.

Viaggiare
Viaggiare

 

È necessario puntualizzare questo perché rispetto a quando siamo partiti, ormai una decina di anni fa, l’educazione libertaria sembra adesso interessare un vasto pubblico – per fortuna – ma a volte con l’idea che si possa diventare libertari da un momento all’altro e si possano creare scuole che partono immediatamente e perfettamente libertarie. Se ci chiedete come fare per creare una scuola libertaria, la risposta è: fatela, punto e basta. Non è che siano i più bravi a riuscirci. Riesce chi sa congiungere la teoria alla pratica. Noi possiamo fornire un aiuto per quanto riguarda la nostra esperienza, suggerire ad esempio di partire come associazione piuttosto che come cooperativa sociale, dare indicazioni su come regolarizzarsi con i pagamenti, dare cioè delle indicazioni tecniche… le problematiche sono tante, il lavoro da fare è notevole.

A volte quando andiamo a visitare alcune realtà ci chiedono se secondo noi sono “abbastanza libertarie” o addirittura se facciamo corsi di formazione all’essere li­bertari o cose del genere. La REL non ha la funzione di dare una “certificazione” alle realtà che incontra nel corso della propria attività. La REL non dà il bollino di “libertario”, non autentica nessuna scuola che si propone come tale. Insomma, c’è questo grosso rischio della moda del momento, mentre quello che conta è proprio il fatto che si tratta di un cammino estremamente delicato, quotidiano, di contatto con i ragazzi, un cammino di relazione. Tutto il resto è qualcosa che appartiene all’idea teorica e astratta di certi adulti che pensano questa realtà come una moda, se non come un business.

La REL non ha nemmeno la funzione di pubblicare e promuovere sul proprio sito qualsiasi cosa esistente sul territorio che si dica, anche solo di nome, “libertaria”. Come ho sottolineato all’inizio, la relazione si nutre di presenze, per cui laddove esistano esperienze nascenti che ci contattano è sempre bene andare di persona, non con lo scopo di verificare, controllare, bollare o meno questa o quella realtà, ma – i viaggi assidui per l’Italia di Francesco Codello, miei, di Gabriella Prati e di altri lo testimoniano – per iniziare a costruire un rapporto tra persone, ambienti e situazioni che possa dipanarsi nel tempo e nelle difficoltà inevitabili. Lo scopo è intraprendere un cammino comune d’intesa, nel tracciato fluido e in divenire del­la REL, quale organismo aperto alle trasformazioni innescate da reali incontri di persone finalmente scese dall’empireo della teoria alla quotidianità spinosa della pratica libertaria, immersa nel contesto neo-liberista della società attuale.

 

Scrutare
Scrutare

 

Democrazia diretta e pratiche libertarie

La Rete per l’educazione libertaria nasce quindi dalla volontà di donne e uomini provenienti da diversi percorsi formativi e lavorativi, non solo in esperienze auto-organizzate, che sperimentano pratiche educative alternative in progettualità co­munitarie. Questa ricerca teorica, ma soprattutto pratica, del fare libertario mette al centro della propria riflessione educativa e politica il ruolo di bambini e bambi­ne, ragazzi e ragazze, coinvolti in prima persona nella loro crescita autoeducativa. Fanno parte della Rete molte figure diverse, da chi effettivamente sta costruendo una scuola o è già dentro questo tipo di percorso, a soggetti a vario titolo interes­sati a conoscere, confrontarsi e riflettere intorno a un differente modo di pensare e vivere l’educazione, a studenti, a genitori coinvolti nelle problematiche di crescita dei loro figli. Ne fanno parte anche diversi insegnanti delle scuole statali; abbiamo anche genitori che insegnano nella scuola statale ma portano i figli alla scuola libertaria e sarebbe interessante indagare i perché di questa scelta.

La REL vive fin dagli albori della sua nascita un forte dibattito interno su tema­tiche semantiche percepite come basilari. Agendo per la diffusione del pensiero e delle pratiche educative libertarie, si è interpellata per lungo tempo anche sul significato del termine libertario, piuttosto che democratico da dare proprio a se stessa in fase costituente. Fuori dai nostri cosiddetti confini nazionali, le realtà autoeducanti vengono identificate generalmente con il termine, in parte fuor­viante, “democratiche”. Ciò comporta a mio avviso, anche a livello di immagi­nario collettivo, una visione che abbraccia qualsiasi tipo di democrazia, in specie quelle attuali occidentali con tutto il carico di disuguaglianze gerarchizzate e di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla donna. Per noi invece il significato del ter­ mine “libertario” rimane strettamente connesso con l’intima e profonda storia di lotte che questo modo d’essere ha avuto e ha proprio in questa penisola: l’Italia. Ecco perché nell’ambito delle reti europea (EUDEC) e mondiale (IDEN), non utilizzando come tutti gli altri il termine “democratico”, siamo una mosca bianca: ne abbiamo discusso a lungo, per almeno un anno, e alla fine, a mio parere giu­stamente, c’è stata una convergenza definitiva della Rete sul termine “libertario”. È stata una decisione che ha comunque avuto anche un suo prezzo da pagare, in termini di fuoriuscita di persone che si collocavano più in una definizione di scelta maggioritaria.

I luoghi di questo ciclo di seminari, come la Biblioteca Borghi, l’Archivio storico della FAI, testimoniano chiaramente la lunga tradizione di un’altra concezione di democrazia, non certo maggioritaria ma consensuale, non delegante ma diretta, dove l’esposizione del proprio essere individuale si rispecchia nell’ascolto e nella relazione con la collettività assembleare. Questa democrazia effettivamente parte­cipata è il modo di vivere di bambini e ragazzi nel confronto e nell’incontro, senza mediatori indirizzanti, senza una maggioranza che schiaccia inevitabilmente la minoranza che dissente anche solo momentaneamente riguardo a qualcosa. Nella pratica i ragazzi hanno sperimentato come crescendo la consapevolezza in ognu­no di loro si possa arrivare all’unanimità nelle decisioni con una certa velocità e si possano risolvere i problemi senza aver un gruppo maggioritario che decide a scapito di altri. Dopo diversi anni mi rendo conto che tanti frutti estremamente positivi stanno venendo fuori da queste pratiche che all’inizio possono sembrare degli azzardi. E credo che questo metodo di riunirsi assieme e di trovare un’una­nimità, certo non a tutti i costi, avrà la sua influenza su quando questi bambini e ragazzi diventeranno uomini e donne.

Attendere
Attendere

 

Non è una considerazione da poco perché nelle scuole libertarie, come ad esem­pio a Kether, la democrazia è vissuta davvero come democrazia diretta. La scuola è piccola perché volutamente abbiamo scelto l’idea alla Paul Goodman che “il piccolo è bello”, nel senso che nel piccolo c’è la possibilità di relazionarsi e il metodo democratico di scelta è consensuale, cioè non passa nessuna decisone se non siamo d’accordo tutti. Potete capire che palestra di vita fanno questi figlioli, a partire dalla materna, avendo riconosciuta la possibilità di dire la propria, di dirla in assemblea, di mettere in pratica il principio one man, one vote, per cui l’e­spressione della propria incisività sul mondo viene presa in considerazione: ogni testa vota e quel voto è rispettato, quindi un bambino di tre anni potrebbe anche bloccare la decisione finale dell’assemblea. Il senso di responsabilità di ognuno si innalza veramente di molto rispetto a una democrazia di delega. Sono meccani­smi che fanno fare grandi salti di coscienza ai bambini. Quelli più piccoli magari ancora non comprendono esattamente cosa stia succedendo, però alzano la mano perché iniziano a capire che alzando la mano hanno voce in capitolo e capita che si mettano a parlare di problematiche che in quel momento non hanno molto senso, ma per loro sono conquiste enormi, perché un bambino di tre anni che si mette in primo piano di fronte a una platea con ragazzi molto più grandi di lui è una grossa conquista di sicurezza e autostima.

Qualunque situazione di unanimità non è mai data, ma cresce strada facendo nella pratica del vivere gli eventi della propria autoformazione a stretto contatto con la comunità dei molteplici. Parliamo perciò di pratiche “libertarie” per met­tere in chiaro un percorso fatto di crescita quotidiana, di convivenza tra uguali nel rispetto delle differenze. Tutto ciò per noi rientra nello spazio reale del politico. La REL dunque fa politica, fa cultura, produce documenti di riflessione e di critica. Come osserva Thea Venturelli, comunarda di Urupia che da circa un anno ha da­to inizio a un percorso di educazione libertaria per bambini e bambine all’interno della comune libertaria salentina: “la consapevolezza che un percorso educativo è essenzialmente un percorso politico, il ritenere l’educazione lo strumento privi­legiato per un significativo e radicale cambiamento sociale che parta dal singolo individuo: questi sono i punti di partenza per una pratica quotidiana che impe­gna tutti i mezzi a disposizione di chi ha deciso di accompagnare le donne e gli uomini di domani nel loro percorso di crescita, operando contro ogni realtà che mortifichi l’essere umano e ne ostacoli la libera e soggettiva espressione”.

 

Osservare
Osservare

 

Accompagnatori per l’autoeducazione

Sulla base di quella “semantica liberata” di cui si accennava prima, riguardo alla decisione di adottare il termine libertaria anziché democratica, la REL ha per lungo tempo studiato e sviscerato un altro appellativo che nel tempo aveva subito una radicale perversione di senso, come avrebbe detto Ivan Illich, ovvero quello di “maestro”, “professore”, “docente”, all’estero è spesso usato “facilitatore”. Per definire il ruolo dell’adulto all’interno di queste comunità autoeducanti, noi pre­feriamo utilizzare il senso e il significato di “accompagnatore libertario”.

È logico che difficilmente sentirete bambini o ragazzi che vi chiamano “accompa­gnatore”. Ai bambini piccoli piace chiamarti “maestro” e dal nostro punto di vista sarebbe anche scorretto togliere loro questa voglia di chiamarti così, poi magari quando arrivano alle soglie della secondaria di primo grado cominciano a chia­marti per nome: “Giulio”, “Susanna”…, insomma osano e decidono loro quando è il momento. Invece per quanto riguarda la stesura di un documento o per dare una chiave di senso all’azione che facciamo preferiamo usare “accompagnatore”. “Facilitatore” non ci sembra adatto perché non dobbiamo facilitare niente, anzi spesso sono i ragazzi che facilitano il nostro lavoro.

Proprio su questo punto ritengo opportuno citare Lamberto Borghi, che in uno dei suoi scritti ci parla dello psicopedagogista americano Carl Rogers, quando questi af­frontò il problema dell’apprendimento in ambito di educazione libertaria contro le supposte “verità-totemiche” di comportamentisti quali ad esempio Skinner convin­ti, all’opposto, che “l’uomo non è libero” e che “l’immagine di un uomo interior­mente libero e padrone del proprio comportamento è solo un surrogato prescienti­fico”. Probabilmente questo Skinner non aveva frequentato comunità autoeducan­ti. Ebbene Rogers risponde mettendo in chiaro, dal mio punto di vista, ciò che è focale nel termine “accompagnatore”, con queste parole: “mi sono convinto che il solo apprendimento che influenza in modo significativo il comportamento è quello che il discente scopre, e di cui si appropria, da sé”. E aggiungeva: “in conseguenza […], sento che non mi interessa più essere un insegnante, mi rendo conto che mi interessa solo essere un discente e preferibilmente di imparare cose che contano, che esercitano un’influenza significativa sul mio comportamento. Trovo molto proficuo imparare in gruppi, tramite un rapporto con una persona […]. Ritengo che uno dei modi per me migliori, anche se più difficili di imparare, consista nell’allentare la mia struttura difensiva, almeno temporaneamente, e di cercare di capire il modo in cui un’altra persona sente e considera la propria esperienza”.

Costruire
Costruire

 

L’accompagnatore deve fornire un esempio, senza sentirsi per forza di cose un esempio. Deve comportarsi come un adulto corretto, ma soprattutto autentico: i ragazzi percepiscono immediatamente se uno sta mentendo, se sta facendo l’a­micone… queste cose non funzionano. Gli accompagnatori sono cioè persone che autenticamente si mettono in gioco con i ragazzi e che sono presenti con la loro spontaneità, per cui se qualcosa li fa arrabbiare che si arrabbino pure; a volte gli adulti devono re-imparare a essere spontanei, a essere effettivamente se stessi: questa è la carta vincente, questo è il buon esempio. Se si vuole essere un accompagnatore, fare dei passi indietro con i ragazzi è estremamente salutare ed è forse la prima auto-regola che ognuno dovrebbe darsi. Il fatto di imparare un altro linguaggio, che molto spesso è un linguaggio del corpo, oppure di fermarsi e di non interrompere quello che sta accadendo è un grosso allenamento che un accompagnatore deve fare di fronte alle dinamiche libere dei ragazzi.

Questo, per quanto riguarda la mia personale esperienza di lavoro e di vita nelle realtà autoeducanti che aderiscono alla REL, è l’azzardo necessario per riportare il mondo degli adulti, in maniera consapevole, a ri-colloquiare in termini non im­positivi con l’autocrescita spontanea dei giovani, nei luoghi dove si decide assieme un cammino educativo libertario. Poniamoci la domanda che dà anche il titolo a questo ciclo di seminari: “Vaso, creta o fiore?”. Perché mai formare qualcuno come creta? Oppure l’idea del vaso: io conosco, travaso la mia conoscenza in te bambino, che sei il vaso, riempito della mia scienza. È invece il fiore il simbolo dell’educazio­ne libertaria. Il fiore nasce spontaneo e l’educatore al limite zappetta intorno, vede che qualche erbaccia non vada a stritolarlo quando è debole, gli dà da bere. Sono passaggi sottili ma nella pratica diventano fondamentali.

Concludo con una sintesi di parole non mie, ma che per me abbracciano tutta l’e­norme esperienza che non solo le singole scuole libertarie, né la sola Rete per l’edu­cazione libertaria, ma l’intero panorama di pratiche politiche dove il mezzo e il fine combaciano potrebbe esprimere. È la voce di un ragazzo di undici anni, ebreo isra­eliano, colta durante un’assemblea a Kether, po­chi giorni fa, indirizzata a risolvere pacatamente una delle tante problematiche di convivenza e di rispetto che in una situazione autoeducante si devono affrontare. Giuseppe Zwiebel, questo il suo nome, con noi da cinque anni ci dice, nel­la fase cruciale di una sorta di contenzioso che si era innescato: “noi siamo una comunità, non siamo individui anonimi”. Partendo proprio dal­le parole di un bambino che frequenta la quinta elementare io riassumerei l’esperienza della REL: noi, la REL, siamo una comunità, non siamo in­dividui anonimi ma persone che vogliono incon­trarsi per fare un percorso comune e per cercare di far crescere sempre più questo tipo di visione anche qui in Italia.

Giocare
Giocare

Voja de fadigà salteme addosso (#7)

Voja de fadigà salteme addosso
Di Vittorio

Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.

bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.
bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.

 

Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economi­ca di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.

L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorger­sene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribui­ta sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei po­litici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.

Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei gio­vani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Gio­vani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso pro­ducono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:

«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.»
A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.

Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono co­munque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:

«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualco­sa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…»
V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.

Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di su­bordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.

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Garanzia giovani: il circo dei tirocini

Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione eco­nomica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il pro­getto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormen­te colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.

Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruota­no attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Man­power e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamen­to professionali.

I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:

«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccu­pazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.»
G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.

Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.

A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corol­lario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pa­gati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.

Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:

«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’a­zienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?»
E.B., donna, 26 anni, Senigallia.

A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:

«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del con­tratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.»
A.S., donna, 30 anni, Ancona.

Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Mar­che, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spes­so coprono forme di sfruttamento:

«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di espe­rienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.»
M.R., donna, 20 anni, Macerata.

Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:

«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?»
V.T., donna, 28 anni, Camerano.

Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupa­ti? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:

«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.»
G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.

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Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso

Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’in­vecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi ag­grappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’i­taliana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?

A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’al­to, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o im­prese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.

E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in que­sta regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surre­ale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffon­dere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’am­biente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.

Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni ven­gono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddi­stinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in compe­tizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.

Pesaro, marzo 2017 - Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro
Pesaro, marzo 2017 – Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro

 

Le risposte

È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma pur­troppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contrad­dizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.

Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvici­nerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.

Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinun­ciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresen­tanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle espe­rienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.

Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di colle­gamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle la­mentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.

[Recensione]. Figli della libertà (#8)

Figli della libertà
Film documentario di Lucio Basadonne e An­na Pollio, 78 minuti, Italia, 2017
Recensione di Vittorio

Figli della libertà
Figli della libertà

 

È una calda sera di inizio estate. Siamo in giro con la solita compagnia di amici di Se­nigallia e il nostro corredo di otto bambini indisciplinati e rumorosi. Nella incantevole frazione fortificata di Piticchio di Arcevia è prevista la proiezione di Figli della liber­tà all’interno della programmazione di un piccolo festival a tema ecologico. Quale opportunità migliore per solleticare le no­stre sensibilità libertarie in tema di educa­zione? Anche i più piccoli hanno assistito alla proiezione, alcuni con interesse, altri addormentandosi sulle sedie dopo la lunga giornata di giochi e bagni al mare. Io inve­ce mi sono arrabbiato. La protagonista è la piccola figlia di Lucio e Anna, che affronta con ironia e leggerezza un percorso di edu­cazione libertaria a Genova mentre i suoi genitori documentano altre esperienze in giro per l’Italia. Il film, costruito con la stes­sa tecnica narrativa del precedente Unlear­ning, fallisce completamente negli obiettivi dichiarati, annoia a livello narrativo e indi­spone per la superficialità con cui affronta l’argomento dell’educazione libertaria.

Alla fine della proiezione era presente l’au­trice e ne approfitto per provare ad aprire un dialogo. Dopo un primo assonnato si­lenzio iniziano alcune domande molto ge­nerali, poi arrischio la mia: « Cosa significa per voi educazione libertaria?» La risposta disegna una conoscenza superficiale del te­ma dove le diverse esperienze di educazione libertaria vengono associate senza distin­zione di qualità e storia dei diversi progetti all’educazione parentale, descrit­ta come facoltà di ogni famiglia di scegliere la migliore educazio­ne per i “propri” figli.

Qui sta il principale proble­ma dell’approccio proposto dal film: l’educazione parentale non è l’edu­cazione libertaria, che nelle sue esperienze più consapevoli si allaccia a una storia di almeno trecento anni di sperimentazioni e progetti pedagogici ispirati da filosofie politiche principalmente di stampo anar­chico, comunista libertario e socialista. La pedagogia, inoltre, proprio perché riflette sulle pratiche dell’educazione, è necessaria­mente orientata a una lettura universalista del fenomeno educativo e quella ispirata da principi egualitari si propone di miglio­rare l’educazione di bambini e bambine a partire da una critica degli ostacoli sociali e culturali che la impediscono. In Figli del­la libertà invece l’unica forza in campo è la volontà delle “famiglie”, questa istituzione

sociale funesta e fortemente conservatrice che non viene per nulla criticata né messa in questione con il risultato di trovare in primo piano le teorie aristo-freak di Erika di Martino, blogger di professione che pro­muove da anni l’educazione parentale come alternativa alla scuola pubblica.

Sul suo sito www.controscuola.it si trova la sintesi di questo pensiero appa­rentemente ingenuo ma in real­tà fortemente classista: “lei e suo marito non credono che la scuo­la allo stato attuale possa dare ai loro bambini l’opportunità di imparare e sperimentare fino in fondo ciò che è veramente importante nella vita. Es­si amano stare insieme ai loro figli, seguirli mentre crescono ed esplorano il mondo e pensano che la loro educazione sia respon­sabilità della famiglia, non dello Stato”. Di­ciamolo a chi ha entrambi i genitori lavora­tori e assenti per ore o giorni da casa, ai figli degli integralisti di ogni religione, alle ma­dri single, a chi ha figli disabili e una pen­sione minima. Da questo orizzonte viene totalmente cancellato il significato sociale e comunitario dell’educazione per ricondurla a una scelta privata e quasi intima dove l’e­go dei genitori finisce per schiacciare quello dei figli, costretti a sopportare madri e padri 24 ore su 24.

L’educazione libertaria descritta da Figli del­la libertà diventa un rifugio per privilegiati che non hanno le capacità o le forze di af­frontare le contraddizioni del sistema edu­cativo come contraddizioni sociali e politi­che e scelgono la ritirata come strategia di presunta salvezza personale. Non si accenna neanche alle difficoltà anche nelle relazio­ni lavorative tra organizzatori e insegnanti che emergono nell’ambito delle esperienze di piccole scuole autogestite, dove spesso l’auto-sfruttamento, la dequalificazione e la mancanza di welfare vengono taciute in nome dell’ideale “alternativo”. Insomma, l’aggettivo libertario nei contesti descritti dal documentario di Basadonne e Pollio corrisponde a individualista ed elitario.

Questo documentario è un’occasione man­cata, perché sicuramente nel campo della educazione libertaria esistono piccoli pro­getti alternativi come quelli che abbiamo descritto anche noi (Serendipità a Osimo, ad esempio) che articolano la sperimenta­zione in una capacità di leggere in modo critico la relazione con il sistema educati­vo statale e il contesto socio-economico in cui la scuola libertaria si inserisce. Esistono inoltre esperienze consapevoli come la Re­te per l’educazione libertaria che dialoga in modo costruttivo anche con chi lavora nella scuola pubblica. La storia di questo docu­mentario è purtroppo è anche lo spaccato di una situazione di confusione e di super­ficialità in cui spesso si fermano le buone intenzioni di cambiare il proprio piccolo mondo senza approfondire le ragioni della critica sociale e il significato nobile e impe­gnativo della parola libertà.

La pedagogia del buonsenso alla scuola Serendipità di Osimo (#3)

La pedagogia del buonsenso alla scuola Serendipità di Osimo
Di Luigi

[si veda anche: “Serendipità: una scuola-comunità dinamica a Osimo” Intervista di Luigi a Emily Mignanelli e Federico Pierlorenzi, in Malamente #15, settembre 2019]

Mural di Turbosafary sulla facciata esterna di Serendipità
Serendipità – Osimo

A Osimo, in provincia di Ancona, abbiamo incontrato una bellissima realtà educativa basata su principi libertari, finora unica nelle Marche, avviata con il progetto sperimentale dell’associazione “Lilliput” per la fascia 0-3 e proseguita con l’apertura, tre anni fa, dell’esperienza di educazione libertaria “Serendipità” rivolta alla fascia prescolare e scolare, corrispondente alla scuola dell’infanzia e primaria. Una scuola che parte dai bambini e dalla loro voglia di esplorare il mondo per aiutarli a realizzare se stessi in libertà. È una risposta di buonsenso al sistema educativo e repressivo tradizionale a cui siamo abituati, ma non è una scuola d’élite come a volte lo sono le scuole alternative private, che siano montessoriane, steineriane o libertarie. Abbiamo intervistato Emily, che per prima si è messa in gioco nello sperimentare le possibilità di questo modello educativo, e Veronica che si è unita a lei per aprire “Serendipità”: due giovani donne con le idee chiare e un entusiasmo trascinante. Alla conversazione si è unita anche Federica, mamma di due bambini di 5 e 8 anni che frequentano la scuola. Speriamo che dalla loro esperienza possa diffondersi un sano contagio anche altrove.

Qual è stato il percorso che vi ha portato dal nido Lilliput alla creazione della scuola Serendipità? Continue reading