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Da Londra ad Ascoli Piceno. La scena punk in una regione quasi tranquilla

Intervista di Luigi ad Alessia Masini e Carlo Cannella [QUI IL PDF]

Dopo aver raccontato la scena hip-hop del nord delle Marche (Malamente #6, dicembre 2017), abbiamo deciso di fare un viaggio nel sottobosco punk per scoprire origini, storia e vicende di questo fenomeno musicale e culturale che dalla fine degli anni Settanta ha attraversato, in maniera forse anche inaspettata, la paciosa e sonnolenta tranquillità di questi territori.

Abbiamo intervistato Alessia Masini, ricercatrice in storia, studiosa in particolare del rapporto tra giovani e politica in età contemporanea, collaboratrice di Rai Storia e autrice e speaker del programma radiofonico Vanloon in onda su Radio Città Fujiko (Bologna). Alessia ha da poco pubblicato il libro “Siamo nati da soli: punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna, 1977-1984” (Pacini, 2019). Poi, per mettere a fuoco il punk marchigiano, abbiamo conversato con un testimone d’eccezione, Carlo Cannella, voce storica della scena punk hardcore italiana. Cresciuto ad Ascoli Piceno, ha fondato nel 1983 i Dictatrista, nel 1985 gli Stige, nel 1992 gli Affluente. Nomi che a qualcuno/a ricorderanno i tempi del walkman sparato nelle orecchie e l’energia del pogo sotto i più improbabili palchi. Nel libro “La città è quieta… ombre parlano” ha raccontato la storia di quell’umanità disagiata e sperduta nella foresta punk ascolana, schiumante rabbia di vivere; la quarta edizione è in uscita per Red Star Press.

E allora non ci resta che partire per questo viaggio nel “nostro” punk: in fondo, dal pogo al riot, il passo può essere molto breve.

Rivolta dell’odio (Ancona), Al Tuwat di Carpi, 1985 circa

Intervista ad Alessia Masini

Il tuo libro sulla storia del punk ha una delimitazione temporale ben precisa: 1977-1984. Queste date rappresentano un inizio e una fine? Quali sono i motivi di questa periodizzazione del punk?

Non definirei queste date un inizio e una fine. O meglio, forse un inizio sì, ma non una fine. Il 1977 è il momento in cui il fenomeno punk ha una delle sue manifestazioni più visibili, cioè diventa concretamente un elemento delle culture giovanili. Nell’ottobre 1977 il punk compare in televisione, per la prima volta la RAI parla di punk in un programma che si intitolava “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo”. Pochi mesi prima, a maggio, iniziava a comparire anche tra le maglie dei movimenti, delle controculture, a partire dalla rivista “Re Nudo”. Nelle memorie dei punk italiani si ritrovano spesso questi due eventi: quasi tutti citano “Odeon” e qualcuno racconta anche di “Re Nudo”. Quindi da questo punto di vista si può dire, secondo me, che il 1977 sia un inizio.

Il 1984 è invece una fase di snodo, non di fine del punk, ma quel punk che ho studiato, anarchico, pacifista, molto radicale, che era cresciuto con l’eredità del ’77, secondo me nell’84 declina, anche se il punk non scompare, ma si reinventa. Ci sono diversi segnali che convergono sulla data del 1984: è ad esempio l’anno in cui l’etichetta Attack Punk Records di Bologna incide il primo disco dei CCCP e lì secondo me si apre una nuova fase, ma è anche l’anno in cui inizia a perdere colpi la forza organizzativa di Punkaminazione, un’esperienza di rete punk italiana molto significativa nata nel 1982. Inoltre, sempre nel 1984, i Crass, gruppo anarco-punk inglese, faro di tutti i gruppi punk anarchici europei, si sciolgono.

Per la mia ricerca era necessaria una periodizzazione e credo che individuarla nell’arco 1977-1984 sia efficace. Tra l’altro questa stessa periodizzazione è suggerita anche da altri studi. In particolare, per quanto riguarda il punk inglese, da Matthew Worley, uno studioso che a me piace molto, che è un punto di riferimento: lui fa proprio ricerca storica sul punk, mentre in Inghilterra questa è di solito materia degli studi culturali. Worley in realtà pone l’inizio nel 1976, con i Sex Pistols, in Italia credo però sia più significativa la data del 1977.

Reig (Macerata)

Il punk politicamente attivo, quello che per un certo periodo diventa “movimento punk”, vicino all’anarchismo, che posto occupa all’interno del complessivo e plurale fenomeno punk? E quali sono le affinità e divergenze tra punk e anarchismo?

Io mi sono concentrata proprio sulla storia del punk anarchico e pacifista, come attore collettivo all’interno del più generale e complesso fenomeno musicale e controculturale del punk. Ammetto quindi che il mio è un approfondimento su una componente parziale del punk, che però secondo me ha avuto un ruolo importantissimo, perché nel momento in cui il punk stava diventando un fenomeno commerciale, stava entrando nelle hit parade, impattando i gusti di massa e trasformando la moda, in questo momento la componente più radicale decideva di affermare un’autenticità che le veniva sottratta dal business, dal mercato, dal capitalismo.

In questo i Crass hanno avuto un ruolo centrale, perché per tanti hanno rappresentato un modello a cui ispirarsi: se lo facevano loro, era fattibile. I Crass non si comportavano certo da leader del movimento, anche se erano parecchio intransigenti e spesso, loro malgrado, finivano per stabilire cosa era giusto e cosa sbagliato, diventando quasi una cartina al tornasole di cosa fosse “autentico” e cosa no. In ogni caso, in tanti all’epoca avrebbero potuto far soldi lanciando dei gruppi punk e invece hanno deciso di creare ed essere partecipi di un movimento antagonista, anarchico e pacifista, con l’antimilitarismo ereditato dalle controculture degli anni Sessanta e Settanta che è stato uno dei collanti del loro orizzonte politico.

Nel tuo libro metti in discussione la categoria del “riflusso”, cioè quell’interpretazione che vede il ritiro dall’attivismo politico di un’intera generazione dopo la conclusione della cosiddetta “stagione dei movimenti”. La storia del punk ci può dare una chiave di lettura diversa? Esiste cioè, secondo te, un sentire comune tra la generazione del ’77 e la “prima onda” del punk?

Sono convinta di questo. È ovvio che dal punto di vista della mobilitazione collettiva, del livello di pervasività della politica nella società italiana, gli anni Ottanta mostrano un declino rispetto al decennio precedente, però spesso quando si parla di “riflusso” lo si considera come una categoria interpretativa di tutti gli anni Ottanta, mentre credo che abbia rappresentato una fase tutto sommato fisiologica che appartiene a tutti i movimenti sociali moderni. Nel senso comune, inoltre, il riflusso degli anni Ottanta è inteso come un sinonimo di fine della politica. Invece il punk, secondo me, mostra già a partire dal ’77 una capacità di raccogliere l’eredità dei movimenti precedenti e di rinnovare l’attivismo giovanile. Soprattutto, come mostra il mio caso di studio cioè il punk anarchico e pacifista, la politica non finisce per niente, semmai si trasforma. Lo vediamo con il punk impegnato, ad esempio, nelle mobilitazioni contro la base missilistica di Comiso, in Sicilia, dal 1982 in avanti insieme a tante altre componenti della società italiana e di altri paesi europei. Abbiamo quindi un attore collettivo che cerca la politica e si butta nelle mobilitazioni dei primi anni Ottanta (anche se queste non hanno più al centro il militante politico classico degli anni Settanta), che si mobilita per l’antimilitarismo, per il disarmo, il pacifismo e tante altre cose.

Come si scrive la storia del punk? Quali sono le fonti che hai utilizzato?

Ci sono tantissime testimonianze scritte di chi ha vissuto quella stagione. Molte delle nostre conoscenze si basano appunto su memorie e testimonianze, io però volevo esplorare anche altro, perché ci sono moltissime cose che credo vadano considerate come fonti legittime: la musica, il suono veramente rivoluzionario del punk, e le fanzine. Io ho avuto la fortuna di conoscere quelli che ora sono cari amici e amiche, che hanno fatto quella stagione e mi hanno passato le fonti da loro conservate. Perché trovarle non è per niente facile, sono nei garage, nelle cantine della gente. Non vengono tanto considerate come fonti per lo studio dei movimenti e quindi non sono catalogate da biblioteche e archivi; molto materiale ci sarebbe in realtà nell’Archivio Primo Moroni alla Calusca di Milano, ma è ancora dentro agli scatoloni.

Pulmanx (Pesaro), Niente da perdere, 1994

In Inghilterra la situazione è del tutto diversa. Ho trovato e consultato un sacco di materiale e di fanzine alla British Library, perché loro considerano il punk come parte della storia nazionale, lo hanno fatto proprio diventare un elemento dell’identità britannica. Il risvolto negativo è che lo hanno completamente ripulito dagli aspetti controversi, radicali. Lo hanno neutralizzato. Infatti quando c’è stato nel 2016 l’anniversario del punk – che solo parlare di anniversario del punk fa un po’ ridere – all’interno della British Library e in altri luoghi culturali come gallerie e musei hanno organizzato un sacco di mostre, kermesse, concerti, mettendo in mostra l’elemento meno conflittuale del punk, cioè i giubbotti, le borchie, le canzoni dei Sex Pistols, il classico racconto ortodosso del punk, tutto ripulito. Senza gli aspetti più controversi, ma politicamente più interessanti.

Io sono anche andata a intervistare i Crass – Penny Rimbaud e Gee Vaucher – nella loro famosa Dial House nella sperduta campagna fuori Londra: bene, tutto il materiale che hanno accumulato in quarant’anni di attività lo hanno donato a un’università americana, proprio perché non volevano dare il materiale dei Crass a un’istituzione nazionale inglese.

Quindi il punk, nato come negazione totale del “sistema”, è stato in qualche modo recuperato e neutralizzato dal sistema stesso. Un discorso simile si può forse fare anche per un certo rap: dai ghetti al festival di Sanremo. Ma allora, oggi, c’è una scena musicale capace di esprimere un’aperta rottura? O viviamo tempi talmente omologati per cui il punk è morto e l’idea stessa di rivoluzione non è più presente in nessuna espressione musicale?

Il punk non è morto, almeno fino a che esistevano delle realtà, degli spazi che concedevano la possibilità di fare innovazione e autoproduzione culturale e musicale. Forse dal punto di vista strettamente musicale di innovativo nel punk c’è ormai poco, ma è vero che ci sono gruppi post punk molto fighi, che rinnovano, che mischiano con l’elettronica etc.

Il problema, secondo me, è che finché esistono degli spazi conflittuali si può continuare a dire che il punk è ancora vivo. Proprio perché il punk esiste laddove ci sono luoghi di incontro, non può vivere nelle webzine. In questo senso è una cultura che appartiene al Novecento: finché c’è l’incontro, e anche lo scontro, dove c’è lo spazio fisico, la relazione dove fare rete e fare musica, dove scambiarsi idee, allora il punk può sopravvivere. A Bologna, ad esempio, i luoghi del punk erano posti come XM24 o Atlantide, dove non solo si andava a vedere un concerto, ma l’esperienza era nella sovrapposizione tra musica e politica, senza confine tra l’una e l’altra. Quando purtroppo sono venuti meno quei posti, sgomberati entrambi, allora il punk sembra esaurirsi in alcune serate e concerti del fine settimana. L’unico luogo di Bologna dove vivere ancora una dimensione collettiva e di autogestione è la sala prove al Vecchio Son, animata da alcuni della scena tra i quali ci sono anche i Nabat. Anche questa purtroppo è in ginocchio a causa della pandemia. In questi ultimi mesi, a proposito, non ho le stesse risposte che ti avrei dato un anno fa sul punk vivo o morto. Quando finirà questa fase orribile, vedremo se ci sarà ancora chi ha voglia di rimettersi in gioco.

Quindi, ti ripeto, per me il punk è inestricabilmente legato all’incontro, a una socialità alternativa fuori dai meccanismi del grande business, e alla politica, anche perché io sono cresciuta in quei centri sociali, sale prove e concerti, da attivista e da pubblico che pogava. Molti giornalisti, esperti di musica più adulti di me con cui mi sono confrontata, non condividono questa mia interpretazione del punk. Ma per me è questo.

Nel tuo libro ti soffermi in particolare su tre realtà metropolitane, Londra, Milano e Bologna, ma il punk non è stato solo un fenomeno delle grandi città, anzi è proprio nelle province che tantissimi gruppetti di ragazzi e ragazze hanno preso in mano gli strumenti in rottura con la tranquillità perbenista della provincia profonda. Una rottura forse ancora più eclatante ed estrema di quella che si aveva nelle metropoli. Allora, forse, si potrebbe dire che il punk ha espresso al meglio tutto il suo potenziale proprio nella provincia?

Secondo me questo non riguarda solo il punk ma, se vogliamo, è un po’ la cifra degli anni Ottanta. Cioè la provincia italiana degli anni Ottanta è molto più interessante e anche innovativa rispetto ai grandi teatri della politica e della cultura dei decenni precedenti: quel “riflusso” di cui parlavamo prima lo vedi se guardi la Milano da bere e il disimpegno, le metropoli ormai sature, mentre allo stesso tempo in provincia stavano avvenendo tante cose. Il punk è una di queste e ha avuto un impatto molto grosso, anche per la capacità che ha la musica di arrivare ovunque, in modo ormai sincronico, innervando spazi molto lontani dalle grandi metropoli. Anche le Marche hanno avuto una rete di gruppi punk fenomenali!

Intervista a Carlo Cannella

Nel tuo libro scrivi: «nel 1977 prendo coscienza del caos che sovrasta il mondo». In quegli anni, tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, com’è arrivato il punk nella tua vita?

A quei tempi ero immune da osservazioni ironiche e scrivevo poesie sui diari delle ragazze. Era il periodo in cui imprigionavo la mia vita in un estremo quanto inutile romanticismo e osservandomi con mielata gentilezza dicevo: «Eccolo qui, dunque, il grande conoscitore di tutti gli inganni. Sei molto avanti per la tua età». Voglio dire, si può essere più scemi? Nonostante fossi pervaso da una moralità severa e in generale non incoraggiassi le conversazioni astratte, pensavo che scrivere e predicare la bontà universale fosse la mia missione sulla terra, così passavo intere giornate a imitare quella che Fernanda Pivano definiva «prosa spontanea sul modello del jazz» e a cercare la potenza letteraria della mia anima.

La musica la scoprii un po’ più tardi. A volte succede. Magari quando uno si lascia prendere troppo la mano da cose che sul momento si ritengono davvero importanti: la voglia di combattere le ingiustizie, il desiderio di cambiare il mondo con la forza della ragione. A quel punto cosa diavolo puoi fartene delle poesie? Piuttosto sentivo l’esigenza di aggredire la società, di farla sanguinare con la rivolta; ma ero solo, non sapevo come fare e la confusione regnava sovrana nel mio cervello. Quando la controcultura punk iniziò a germogliare anche in Italia, suppergiù nel 1979, mi sentii molto più a mio agio. Per dirla tutta, non so cosa sarebbe stato della mia vita se non fosse intervenuto il punk a salvarla. Band come Dead Kennedys, Crucifix, Millions of Dead Cops avevano un suono aggressivo e vibrante e un tipo di prospettiva politica radicale. Mi piaceva!

Ci racconti un po’ di storia dei gruppi che hai fondato? Cioè il passaggio tra i primissimi No Gestapo ai Dictatrista, Stige, Affluente… So che non è facile condensare in una risposta anni e anni di esperienze, ma ti chiedo di dirci almeno a grandi linee quali sono state le caratteristiche di queste formazioni, per presentarle anche a chi, per età o perché preso da altre situazioni, non ha vissuto quella stagione.

I No Gestapo sono stati solo un’idea. Niente di concreto, in pratica facevano parte della mia confusione di quel periodo. Tutt’altra cosa hanno rappresentato i Dictatrista, che si formarono nel 1982. L’unico nel gruppo con un po’ di esperienza era Peppe Angelini, il batterista. Aveva già cantato nei Teleboys, la prima punk band ascolana, stiamo parlando del 1978. È stata Rave Up Records a recuperare le vecchie cassette originali e a ristampare su vinile i loro pezzi migliori: da Ascoli brucia a Meglio che lasci a Sono cupo.

Dictatrista (Ascoli Piceno), Preavvisati… ma non premuniti, 1984

Con i miei compagni di quel tempo passavo interi pomeriggi ad ascoltare i gruppi hardcore americani: i Black Flag, i Circle Jerks, i Minor Threat, quella roba lì. Nel 1983 registrammo con mezzi di fortuna la nostra prima cassetta, si chiamava Preavvisati… ma non premuniti. Tim Yohannan la recensì con toni entusiastici su Maximum Rock’N’Roll, una fanzine con sede a San Francisco, punto di riferimento di tutta la scena punk e hardcore mondiale. Fu davvero entusiasmante ricevere tutta quell’attenzione. Wow, chi se l’aspettava? Un giorno ecco una lettera dal Brasile, il giorno dopo un’altra dalla Finlandia. Il terzo giorno un’intervista dal Giappone. Eccheccazzo!

Nel 1985 io e Peppe lasciammo i Dictatrista per dar vita a un gruppo ancora più estremo: gli Stige. L’idea era quella di suonare sempre più duro e veloce. Al basso c’era Shino Carpani, un pazzo davvero illuminato. La nostra produzione migliore fu probabilmente Uniti nell’abbraccio, un LP con nove pezzi che registrammo nel 1989. Dopo più di trent’anni eccolo di nuovo in scena in formato CD, ristampato da End of Silence Records. Se c’è qualcosa che può darti un’idea della nostra rabbia di quel periodo è proprio questo disco.

Per quel che riguarda gli Affluente, iniziarono nel 1992 con l’EP Logica dominante, prodotto da SOA Records. Nonostante i diversi cambi di formazione il gruppo è ancora in attività. Fra tutte le band in cui ho militato, è probabilmente quella che ha avuto più fortuna dal punto di vista della “fama” e del “successo”. Alcuni dischi degli Affluente sono ancora un punto di riferimento per la scena italiana. Io ne uscii in maniera definitiva nel 2006, dopo la registrazione dell’album Libera fame, il disco a cui sono più legato, forse perché ha chiuso definitivamente un periodo importante della mia vita.

Eravate in contatto con altri gruppi a livello regionale? E soprattutto, è riuscita secondo te a delinearsi una scena punk “marchigiana”, con una sua identità e caratteristiche peculiari?

È un po’ difficile affrontare questo discorso in termini di identità. A pensarci bene le Marche sono state una regione al plurale anche per quanto riguarda la scena punk. Generalizzando un po’ potremmo dire così: ad Ascoli prevaleva la velocità dei gruppi hardcore americani, a Macerata uno stile più legato alla scuola inglese (su tutti gli Exploited). Ad Ancona la direzione principale era quella del punk anarco-pacifista sul modello Crass, congiuntamente a certi esperimenti post-punk. A Pesaro dominava invece l’Oi. I Dictatrista avevano rapporti abbastanza stretti con i REIG di Macerata, per il resto ognuno andava per la sua strada.

Tu hai vissuto la scena punk hardcore ad Ascoli Piceno, cioè nella provincia marchigiana non proprio simbolo di anticonformismo. Quali potenzialità secondo te ha avuto, più in generale, il punk di provincia – quel posto in cui sembra che tutto sia sempre immobile e uguale a se stesso – rispetto alle sollecitazioni del punk inserito nel più ampio contesto metropolitano? In un’altra intervista hai citato una riflessione di Sergio Milani dei Kina: «non so perché, ma ho sempre pensato che i gruppi punk delle metropoli non avessero le stesse carte da giocare di quelli che provenivano dalla provincia. Forse perché in questi ultimi mi ci sono sempre riconosciuto per la loro semplicità e la loro onestà di fondo, ben distante da certi atteggiamenti presuntuosi e arroganti dei punk metropolitani». Condividi queste parole?

È così. Negli anni ’80 l’arroganza dei punk metropolitani la potevi percepire fin dentro le ossa. Spesso, se non eri addobbato come un albero di Natale, nemmeno ti rivolgevano la parola. Durante un concerto dei Negazione, per dire, fui gentilmente invitato ad abbandonare il pit [zona sotto il palco] perché «non c’entravo un cazzo». Se però ascoltavi i Kina, allora potevi comprendere la differenza fra chi parlava al tuo cuore e chi semplicemente recitava degli slogan. La loro rabbia, la passione che li animava, trasudavano dagli sguardi prima ancora che dagli strumenti o dagli indumenti che indossavano. Quella roba lì non potevi certo trovarla nei gruppi metropolitani. Per noi, il sentirci estranei alla mentalità chiusa e bigotta della provincia picena, il volerla combattere con l’attitudine anarchica, era già di per sé un marchio di fabbrica. Insomma: non ci interessava essere “cool” a tutti i costi, con i giubbetti di pelle cernierati, gli anfibi Dr. Martens, né sentivamo il bisogno di conciarci i capelli in un certo modo. Ci bastava rivendicare ogni giorno il pieno controllo delle nostre vite e delle nostre attività.

https://youtu.be/n1wKGFPg0HI

Come vivevate, se lo sentivate vostro, il rapporto tra fare musica e fare politica? Vi sentivate parte di un “movimento punk”, di ispirazione anarchica, libertaria, antimilitarista?

Abbiamo mosso i nostri primi passi nella scena identificandoci nel movimento anarchico, cercando di emanciparci da ogni forma di servitù intellettuale e propugnando gli ideali dell’autoproduzione e dell’autogestione. Nello stesso tempo abbiamo cercato di vivere quell’esperienza non soltanto attraverso il pensiero, esprimendo la nostra solidarietà nei confronti degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi, ma soprattutto con l’azione, inserendoci a vari livelli nelle lotte sociali, contro la dimensione guerrafondaia degli stati, partecipando alle occupazioni e tentando di realizzare in ogni gesto, singolarmente o in comunione con gli altri, un mondo più umano, più libero e più giusto. Può sembrare scontato, ma quando ogni giorno sei chiamato a sostenere il peso della contraddizione che viene a determinarsi fra ciò che pensi e la realtà che vivi, tutto diventa più difficile.

Ti faccio un esempio: nel 1984 vinsi un concorso per insegnare. Sprofondai allora in uno stato di profonda depressione, sconvolto dall’idea di dover assumere un ruolo di potere all’interno di un’istituzione, la scuola, che da studente avevo sempre disprezzato e combattuto. Ma tenni duro, rinunciai alla cattedra, e per guadagnarmi da vivere andai a spaccar pietre in una cava di travertino. Sennonché la sconfitta era solo rimandata. Qualche anno fa, appena rientrato dall’estero, mosso dal bisogno, non ho potuto far altro che riprendere in mano la vecchia abilitazione. Oggi insegno dunque con pacato distacco in una scuola primaria, e pur cercando di fare del mio meglio per dare ai bambini delle opportunità, ai miei stessi occhi non posso che rappresentare ciò che combattevo da giovane: l’autorità e il potere. Eccomi dunque affrontare ogni giorno l’espressione viva e intelligente di questi bimbetti con il moccio al naso, i loro sguardi scrutatori, le loro domande irrisolte, riaprendo ogni volta una ferita mai rimarginata.

A un certo punto hai anche fatto il venditore di Bibbie porta a porta: «mi arricchivo corrompendo la ragione dei deboli con le favole», hai scritto nel tuo libro. Questo è punk ad alto livello! Come quando hai pensato – per un attimo – di fondare un movimento politico dal nome “Ascoli fai schifo” e candidarti a sindaco della città. E hai perfino fatto il concorrente a “Lascia o Raddoppia?” di Lando Buzzanca… Verità o leggenda?

Non è ancora arrivato il momento della confessione. Del resto non so se davvero riuscirò un giorno a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Quel che è certo è che mi è sempre piaciuto spingermi al margine per mettere ogni volta alla prova il mio radicalismo ideologico, un’attitudine che penso io abbia preso in prestito da Jello Biafra dei Dead Kennedys. Nel 1979 Jello si candidò a sindaco di San Francisco. Fra i punti del suo programma c’era anche l’adozione di una nuova divisa per la polizia locale, un costume da clown con tanto di pallina rossa sul naso. Ecco, non mi sarebbe dispiaciuta una cosa del genere nella mia città. In aggiunta a questo, da ragazzo leggevo Jack Kerouac. Mi piaceva soprattutto quel suo continuo richiamo alla leggenda. A fare, ognuno di noi, della propria vita, una leggenda.

Con la fine dell’esperienza del Virus di Milano in via Correggio, che è stato la fucina del punk italiano, nel 1984, tu poni la chiusura di un ciclo, la fine di un’ondata punk travolgente. Alessia Masini, nel suo recente libro sulla storia del punk, indica quella stessa data come un passaggio di fase e di sostanziale declino per il punk cresciuto sulla scia del ’77. Questa rottura, o questa fase di passaggio, l’avete avvertita anche ad Ascoli e nelle Marche?

Ad Ascoli vivevamo abbastanza da vicino le vicende milanesi. Appena ci era possibile salivamo al Virus per i concerti. La sensazione che fosse tutto finito la percepimmo però solo nel 1986, durante un concerto degli Scream, con i Wretched e gli Indigesti a supporto. Il Virus si era appena spostato in un vecchio lavatoio pubblico di piazza Bonomelli. L’atmosfera non era più quella di via Correggio, dove nel 1982 avevamo assistito all’“Offensiva di Primavera”, tre giorni di concerti ininterrotti, con una trentina di gruppi alternatisi sul palco e un’enorme affluenza di pubblico da tutta Italia (in quell’occasione ottima impressione destarono i nostri amici REIG). In quel tempo i concerti hardcore costituivano ancora un momento di lotta politica, opponendosi alla logica dell’industria dello spettacolo e della mercificazione della cultura. Per la prima volta, invece, in quel giorno del 1986, ebbi l’impressione che quello a cui avevo assistito era stato un semplice concerto.

Penso alla prima metà degli anni Novanta, quando gruppi come NOFX, Green Day (con i loro testi che hai definito «per adolescenti idioti»), Offspring, Rancid etc., riempiono gli stadi, vendono montagne di dischi e fanno gran soldi, abbandonando però la carica eversiva del punk hardcore. Sono anche gli anni dei tuoi Affluente, di “Logica dominante” e “Moltitudine suina”: cosa vi differenziava dal “punk” mainstream?

Penso che l’hardcore sia stata una risposta alla mercificazione del punk rock, un rifiuto generalizzato del consumismo e del capitalismo nella musica. È per questo motivo che gli Affluente hanno scelto di autoprodurre i loro dischi o hanno comunque inciso per etichette indipendenti; che hanno organizzato i propri concerti senza intermediari, contattando direttamente i locali; che hanno viaggiato per centinaia di chilometri ogni giorno su furgoni mezzi rotti, incassando solo i soldi necessari per la benzina; che non si sono mai lamentati per la mancanza di risorse a disposizione. Erano le stesse scelte che all’inizio animavano ad esempio i Corrupted Morals. Nel 1986 parteciparono alla compilation internazionale People of the pit per la mia etichetta Goddam Church, prima che alcuni loro componenti confluissero poi nei Green Day, abbandonando l’hardcore per il mercato.

Infine: oggi. Sembra che la musica più trasgressiva per i giovani sia la trap. Dimmi che non è vero…

Da sempre la musica è espressione della voce del popolo, una voce spesso inascoltata e messa a tacere. A volte questa voce ha trovato nella musica il canale per urlare le sue idee, per plasmare sentimenti e ideali, e quindi diffonderli. Penso che non si possa essere trasgressivi in musica senza dare spazio alla voce inascoltata o repressa del popolo e la trap è quanto di più diverso da tutto questo. Sennonché altri aspetti richiedono un’analisi un poco più complessa, se non altro per il disorientamento che possono provocare nelle persone come me.

Un aneddoto può forse aiutarti a capire meglio cosa voglio dire. Da una decina d’anni risiedo a Frascati, nei Castelli Romani. L’ingresso della casa in cui abito dà su un insieme di vicoli poco illuminati, in cui si ritrovano abitualmente gli “alternativi”. A ogni ora, soprattutto nel tardo pomeriggio, ecco appoggiati ai muri delle case questi ragazzi dall’aria torva che fumano erba e ascoltano musica, in genere ciò che oggi etichettiamo per l’appunto come trap. Una sera rientro con mio figlio nella mano, un bambino di sei anni. Ci sono tre di questi ragazzi che ascoltano qualcosa che a dir la verità non è trap, questo lo percepisco all’istante, piuttosto è un certo tipo di roba a me familiare. Casualmente sembrano più aggressivi del solito. Mi fermano, ridono, mi chiedono di ascoltare un pezzo, me lo sparano forte nelle orecchie. Il mio bambino un po’ si spaventa. Lo rassicuro. Poi dico che, beh, quella roba lì è per svitati, gente con il cervello fuori dalla testa. Loro allora ridono ancora più forte, sghignazzano. Io stringo forte la mano del bambino e apro la porta per entrare in casa. Mentre salgo le scale ancora echeggiano gli ululati dei ragazzi. Allora anch’io rido un po’. Ho appena riascoltato Non soggetto al cambiamento degli Affluente.

Stige (Ascoli Piceno), 1989. Sulla destra Carlo Cannella (Heinmont Tooyalaket)

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