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Raccogliere le voci dai territori in lotta

Intervista a Paola Imperatore di Giulia Melchionda

Paola Imperatore svolge attività di ricerca presso l’Università di Pisa, dove si occupa di territorio, movimenti sociali e transizione ecologica. È autrice del libro “Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica” (Meltemi Editore, 2023) e, insieme a Emanuele Leonardi, ha contribuito a “L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” (Orthotes, 2023). “Territori in lotta”, diviso in cinque capitoli, affronta tematiche cruciali: le mobilitazioni locali per la difesa del territorio, la frattura tra lavoro e ambiente, la rappresentazione mediatica delle proteste territoriali, le asimmetrie tra territori, la politica e le istituzioni e, infine, la natura multiscalare dei processi territoriali. In sole 160 pagine, il libro offre una sintesi panoramica delle campagne di protesta a livello nazionale, includendo il Terzo Valico dei Giovi e la campagna No TAV, l’industria crocieristica e la campagna No Grandi Navi, l’estrazione di marmo dalle Apuane e la campagna No Cave, la Rete Adriatica e la campagna No Snam, il Mobile User Objective System e la campagna No MUOS, il Trans Adriatic Pipeline e la campagna No TAP. La piacevolezza della lettura emerge dal bilanciamento tra teoria e voci dal territorio, consolidando una discussione e uno studio destinati a rimanere rilevanti negli anni a venire, specialmente in un contesto in cui è essenziale mantenere un approfondimento costante sull’evoluzione dei movimenti ambientalisti e delle politiche climatiche.

“Sino a pochi anni fa non avevo mai visto un parco naturale, non ero mai stata in montagna, non sapevo da che pianta nascesse una zucchina, in che ecosistemi nascessero i funghi e in quali habitat vivessero le volpi. Eppure, sentivo crescere dentro di me una coscienza ecologista”. Decidi di iniziare così il tuo libro. Vorrei sapere di più su come ti sei avvicinata al tema dei territori e delle loro lotte: cosa ti ha spinta a raccontare le vicende che li caratterizzano, amplificando le voci di chi ci abita?

Questa prima domanda mi dà l’occasione di chiarire il mio punto di partenza, la premessa con cui mi sono affacciata al tema dei territori e ho sviluppato questo lavoro di ricerca durato diversi anni, che poi si è anche frequentemente intrecciato con un percorso di militanza. In realtà i due piani sono spesso intrecciati. Il tema del territorio entra nei miei studi e nella mia militanza non perché io fossi interessata di per sé alla questione ambientale, ma perché interessata alla questione della giustizia. Quello che vedevo guardando a Taranto, in cui nei giorni di maggiore picco di sostanze inquinanti nell’aria le scuole del quartiere Tamburi – e non l’Ilva –  venivano chiuse, guardando agli operai e abitanti avvelenati dall’amianto sollevato durante l’escavazione per realizzare il Terzo Valico, guardando alle case seppellite dal fango durante le alluvioni a causa delle gestione dissennata del territorio, tutto ciò metteva chiaramente a nudo una profonda ingiustizia ambientale. Questo in qualche modo è stato il motore del mio interesse per queste tematiche. I primi anni in cui ho iniziato a occuparmi di questi temi, o anche semplicemente parlandone con le persone intorno a me, notavo che quest’ultime tendevano a vedere una contraddizione nella mia immagine di ecologista che però non conosceva la montagna, non conosceva i tipi di fiori, non conosceva le stagionalità degli ortaggi. In qualche modo vedeva in questo una contraddizione. Negli anni sono riuscita anche fare chiarezza in questa mia “contraddizione” e mi sono resa conto che in realtà l’ecologia è una questione radicata nel nostro quotidiano e che assume un significato diverso in base al contesto in cui ogni persona vive. È chiaro che per alcuni significa conoscere la montagna, ma per molte persone che nascono tra il cemento, tra i palazzi e il grigiore della città, l’ecologia avrà un altro significato. La capacità dell’ecologia, intesa nel suo senso politico, è proprio quella di permeare il quotidiano, di dirci che la natura non è una categoria astratta, fuori da noi, ma che è il contesto in cui noi quotidianamente svolgiamo la nostra vita. Ecco, per me questa è l’ecologia, e i territori in qualche modo sono uno spazio nevralgico in cui riusciamo a vedere questi meccanismi di sfruttamento ambientale, ma anche lotte di giustizia ambientale.

Ci sono dei consigli che vorresti dare a chi prova per la prima volta ad “ascoltare” un territorio?

Non mi sento di salire in cattedra per dare consigli in quanto studiosa, però posso dire che l’esperienza di questi anni mi ha insegnato una cosa preziosa che forse è l’unico consiglio che darei a chi prova ad approcciarsi per varie ragioni ai territori, ovvero di provare a farlo senza pregiudizio. Io credo che sia proprio nel lasciarci guidare nel quotidiano dalle persone e dalle comunità che vivono i territori, che possiamo conoscere la realtà, con tutto il suo portato di contraddizioni. Non sempre in questi territori io ho incontrato, quantomeno in prima battuta, soggetti sociali con i quali condividevo molto. Qualche volta sentivo addirittura una distanza politica da questi soggetti, che ho scelto comunque di contattare e intervistare per dare alla ricerca uno sguardo più possibile olistico, ampio, senza escludere a priori.

In realtà mi sono resa conto che è stato fondamentale, perché ogni volta che ho avuto l’opportunità di mettermi anche solo per un’ora, due ore, una giornata, una settimana, nei panni di un’altra realtà o di un’altra persona, mi sono resa conto che alcuni punti che non consideravo apparivano invece immediatamente ragionevoli e sensati visti da quella prospettiva, e questo mi ha aiutato moltissimo. Perché fare un lavoro politico significa stare dentro le contraddizioni, non allontanarle: starci proprio per poter mettersi in dialogo con questa differenza e provare a individuare insieme una traiettoria, senza pensare di essere già arrivati, già arrivate, e di non avere niente da condividere con certi soggetti.

Quindi questo è l’unico suggerimento che, per quanto banale possa sembrare, in realtà è stato importante. Ne ho fatto tesoro e devo dire che questa ricerca per me è stata fondamentale perché ha proprio cambiato la Paola militante, non solo la Paola studiosa. Di sicuro ho appreso molto a livello teorico, però ha proprio cambiato il mio approccio come militante a molti temi, mi sono resa conto che la dialettica nel territorio – con tutta la sua serie di sfumature e sfaccettature – può essere davvero importante perché ci permette di vedere da un lato dove siamo oggi e dall’altro ci permette di capire insieme dove vogliamo andare, chi vogliamo essere domani come comunità. E per fare questo bisogna starci nel territorio, e nella sua comunità, con tutte le sue difficoltà.

Hai deciso di utilizzare come strumento metodologico le interviste. Nel periodo di ricerca, ci sono stati dei momenti in cui hai convissuto con le comunità territoriali con cui sei entrata in contatto?

Quando è stato possibile, ho cercato di trascorrere dei momenti con parte di quei territori che costituivano una resistenza e formavano socialità quotidiane differenti. Questa cosa non è stata possibile in tutti i casi, perché mi sono approcciata a territori in fasi diverse della lotta: alcuni che stavano conoscendo la fase di ascesa, quindi di espansione degli spazi d’azione, e altre lotte che erano in una fase di declino e demobilizzazione. Il mio lavoro ha dovuto adattarsi al contesto che trovavo.

In particolare ho passato del tempo con il movimento No TAP in Puglia, dove sono riuscita a trascorrere qualche settimana e ad allacciare rapporti che proseguono oggi, e questa socialità quotidiana è stata la lezione più importante. È stato il momento in cui, fuori dall’intervista, mi hanno dato la possibilità di entrare in una dimensione individuale, familiare, collettiva, e di vedere tutta una serie di processi all’opera, di meccanismi, di trasformazioni. Ho potuto vedere famiglie e incontri che hanno modificato il loro modo di esistere perché, magari, nel frattempo avveniva una presa di consapevolezza da parte delle donne. Ho visto famiglie che al loro interno hanno persone che lavorano nelle forze dell’ordine e altre che si trovano a fare i blocchi contro la polizia.

Queste sono tutte dinamiche che, viste da vicino, insegnano molto, e la cosa che più insegnano è che spesso i protagonisti di queste mobilitazioni e processi trasformativi sono i soggetti che non ti aspetteresti: l’ex-carabiniere, la casalinga, il pescatore. Tutte persone che non avevo mai intercettato durante il mio percorso politico prima di quel momento, e spesso solo il territorio è in grado di metterci a confronto con questa complessità, con la comunità in tutte le sue articolazioni. Questo è stato uno dei momenti di maggiore apprendimento sul campo, nel quotidiano.    

Nel tuo lavoro, hai sottolineato il ruolo delle donne, in particolare delle madri, come “ponti” tra i militanti e il resto della popolazione, menzionando l’idea di “essenzialismo strategico” di soggetti femminili nell’attivismo. In che modo questa appropriazione sovversiva sfrutta a proprio favore i valori dominanti nella società, e quali sfide e opportunità presenta?

La questione dei “comitati delle mamme” è quella che, entrandoci dentro, mi ha più colpito, e che sembra aver colpito di più le persone con cui ho parlato. La prima volta che mi sono approcciata, l’ho fatto con quel pregiudizio di cui parlavo prima. Io, proveniente da una postura transfemminista e da un’esperienza di lotta molto più legata al tessuto urbano, guardavo con diffidenza queste forme di organizzazione fortemente legate all’identità materna. Inizialmente avevo un po’ di reticenza nei confronti di questo fenomeno ma, ancora una volta, provando a interfacciarmi con questa realtà, mi sono resa conto di meccanismi e processi davvero potenti e interessanti.

Diversi dei movimenti che ho affrontato, come il No TAP o No MUOS, hanno avuto l’intelligenza politica di mettere al centro la maternità e di usare la maternità come presupposto per un’azione politica nello spazio pubblico. C’è stata, da parte di queste donne, con più o meno consapevolezza, la scelta di fare della maternità uno spazio politico: io in quanto madre non sto a casa a occuparmi delle questioni domestiche, ma occupo lo spazio pubblico e metto al centro quelli che ritengo essere i miei interessi o le mie preoccupazioni.

Quello che però è successo è che anche questa identità si è trasformata. È vero che le donne partecipano con l’obiettivo della cura dei figli, ma dentro la lotta questa identità si modifica. Si modifica perché nascono comitati di mamme in cui c’è chiunque voglia esserci, ovvero non c’è nessuna connessione biologica richiesta per farne parte. Cambia perché ci si rende conto, proprio dentro la lotta, di quanto carico di cura le donne, le mamme, si fanno portatrici. Nel prendere consapevolezza di questo, si innesca anche un meccanismo di conflitto. Nascono conflitti dentro casa, dentro i movimenti, con le istituzioni, perché tutti creano un’aspettativa di madre che risulta soffocante e opprimente, mentre queste donne hanno scelto di utilizzare la maternità anche per liberarsi di alcune categorie che sono imposte. I loro mariti non accettavano che uscissero alle quattro di notte per fare blocchi stradali, eppure lo facevano. E nel farlo mandavano segnali forti rispetto a equilibri che sembravano ormai consolidati da sempre e che vedevano la donna come epicentro del lavoro di cura della famiglia, della casa, dei figli, della coppia. Sono state esperienze davvero forti.

Attraverso l’adozione del “maternalismo politico”, com’è stato definito in America Latina, le donne si aprono spazi di emancipazione. Da un lato c’è l’intelligenza politica di capire che scendere in strada e bloccare la polizia come madri avrebbe innescato meccanismi molto diversi dentro le lotte, abbassando immediatamente il livello della violenza repressiva sul movimento. Dall’altro, i comitati delle mamme hanno avuto un ruolo fondamentale nella tenuta e nella legittimazione dei movimenti popolari, nei quali sono riuscite anche a fare mediazione tra le componenti più radicali e le comunità.

Con il tempo, alcuni comitati sono venuti meno con il venir meno generale della mobilitazione, quindi c’è stato un processo di demobilizzazione che ha coinvolto tutto il territorio. Altri comitati resistono, e altri ancora nascono. Penso che abbiamo a che fare con un fenomeno che esiste e che parlarne nei termini di essenzialismo strategico ci offre un modo per visibilizzare il potenziale di queste esperienze e dire a tutte e tutti noi, che viviamo in altri contesti, che anche in quanto ecologiste e femministe possiamo trovare degli alleati in questi soggetti. Alleati un po’ imprevedibili, che usano i loro linguaggi. Ma il cui femminismo va situato nella realtà, nelle pratiche, e nella storia che ogni persona e ogni gruppo ha.

Insieme alle donne ci sono altri due grandi soggetti che si delineano come protagonisti all’interno del libro: gli operai e gli attivisti. Nel libro, dedichi un capitolo al rapporto lavoro-ambiente ed è interessante leggere delle grandi opere come “grandi bugie”. Potresti approfondire questa affermazione, illustrando come le promesse legate a occupazione e progresso siano in realtà dannose per il territorio e la comunità?

Il tema del lavoro ha uno spazio specifico all’interno del libro perché ritengo che spesso sia stato un po’ sottostimato e non adeguatamente analizzato. Quello che credo necessario e importante è andare a indagare meglio i meccanismi che sono in opera. In questo senso, il tema del lavoro può essere approfondito non solo per capire come il paradigma della grande opera produca un certo tipo di economia, ma anche recuperando la storia tra operaismo e ambientalismo, osservando le relazioni che sono esistite e che potenzialmente possono tornare a esistere in forme nuove e attualizzate. Il passato può aiutarci a capire che l’idea di un conflitto innato tra ambiente e lavoro è una costruzione della modernità capitalista, un suo lascito che può produrre solo danni.

Le grandi opere sono in realtà grandi menzogne perché, al di là di come viene narrato, il modello estrattivista è antitetico a una qualsiasi economia sana, plurale, attenta ai bisogni sociali, basata sulla necessità di soddisfare un bisogno collettivo e di garantire la riproduzione della natura. Dentro questo tipo di sfruttamento del territorio vengono solo creati legami di dipendenza da monocolture perlopiù imposte dalle compagnie dei paesi più ricchi del mondo. Quando parliamo dell’economia prodotta da grandi opere e industrie, parliamo di monocolture che cercano di imporsi spiazzando tutto quello che c’era prima.

Per rendere accettabile al tessuto socio-economico precedente l’imposizione di un modello si ricorre spesso a una retorica incentrata sull’occupazione, sul progresso, sul futuro radioso del territorio che verrà garantito dalle opere. Il fatto è che, appunto, questo non è quello che succede in realtà. Prendendo in esame diversi ambiti produttivi o grandi opere, la situazione con cui ci si trova a fare i conti è sempre drammatica. Ad esempio, nel settore estrattivo sulle Alpi Apuane, dove si osservano due processi paralleli e intrecciati: un calo in termini di occupazione, anche molto significativo, e un aumento dei livelli di estrazione.

Come si spiega questa differenza? 

Questa differenza si spiega solo se si prende in considerazione l’introduzione di nuove tecnologie che oggi riescono a intensificare i ritmi di produzione senza richiedere ulteriore manodopera. Questo è solo un caso, ovviamente, ma ce ne sono molti altri in cui, a opera finita, nell’esaminare i dati prima dell’inizio dei lavori e alla fine, non si osservano aumenti dell’occupazione. In più, parliamo di opere che si trovano spesso nelle aree più marginali del paese.

C’è un concetto che viene utilizzato da diversi anni a questa parte, attribuibile a Lorenzo Feltrin, la “deindustrializzazione nociva”: un processo in cui si osserva la deindustrializzazione, la chiusura dei siti produttivi e la riduzione degli occupati, e d’altra parte un aumento delle nocività. In realtà, quindi, quando il lavoro è indebolito, quando il lavoro è attaccato, anche la natura è più attaccata. Per questo non c’è alcun motivo di pensare che lavoro e natura viaggino in modo disarticolato e, d’altra parte, bisogna tener conto del fatto che non si può più pensare alle grandi opere di adesso come a quelle di sessanta o cinquant’anni fa. Oggi i mercati sono più ampi e i team che si occupano di queste grandi opere sono composti da lavoratori iper-professionalizzati che sono già individuati e che si muovono di cantiere in cantiere. Quando TAP dice “arriviamo noi e vi offriamo occupazione”, basterebbe andare a vedere il sito di TAP per scoprire che loro hanno già un team di persone iper-qualificate per svolgere quelle funzioni. Di conseguenza, quel tipo di funzioni non verranno svolte da manodopera locale, che verrà al massimo chiamata per svolgere lavori non qualificati e sottopagati per periodi di tempo molto brevi. Questo è il tipo di lavoro che la grande opera offre, o maschera, se vogliamo parlarne in questi termini.

Con l’introduzione di nuove tecniche lavorative e l’automazione, sostieni che sia possibile produrre di più ma con meno lavoratori, aumentando tuttavia lo stress psico-fisico di questi ultimi. Qual è l’impatto di queste dinamiche sulla qualità del lavoro e sulla vita delle persone coinvolte?

In realtà, la grande opera non fa altro che produrre ulteriore stress sulle risorse naturali e sui lavoratori. L’automazione, infatti, non è mai a costo zero. Né per l’ambiente, né per i lavoratori: anche se esiste il mito della tecnologia in grado di liberarci dal lavoro faticoso, in realtà la velocizzazione del ciclo produttivo intensifica lo stress muscolare degli operai e delle operaie che, per fare la stessa identica cosa, non dovranno più impiegare sessanta secondi, ma trenta. Questo ha un carico fisico-muscolare davvero distruttivo.

E poi c’è il tema della salute dentro i cantieri delle grandi opere. Purtroppo sappiamo che in Italia abbiamo dei bollettini drammatici ogni anno, e questi sono alcuni dei contesti che più espongono i lavoratori ai rischi in modo strutturale: non esiste una di queste opere in cui nessuno sia morto o non si sia ammalato mentre lavorava. In definitiva, le grandi opere sono “grandi menzogne” con cui bisogna fare i conti e su cui bisogna raccogliere informazioni proprio per riuscire a immaginare la nostra economia. Sicuramente abbiamo bisogno di alcune cose per vivere, ma è necessario ripensare il lavoro e includere in questo nuovo immaginario il lavoro riproduttivo, perché senza quello non esisterebbe nient’altro.

La criminalizzazione, il ricatto economico e le sanzioni, così come le soluzioni legislative, sono ormai gli strumenti preferiti dalle istituzioni per cercare di arginare la protesta ambientale e politica. Il processo di etichettare i dissidenti come criminali nelle aule di tribunale, come influisce sulla percezione pubblica della protesta politica?

Credo che proprio in questo risieda uno degli aspetti più drammatici e preoccupanti, che riguarda l’involuzione in senso autoritario del nostro paese e di molti altri. Stiamo assistendo allo sviluppo di strategie più articolate da parte della classe politica per reprimere il dissenso, spesso non considerate dagli studi poiché questi rivolgevano la propria attenzione ai movimenti della piazza. Però se spostiamo lo sguardo oltre queste dinamiche, si potrà notare come la repressione non sia diminuita, semplicemente si è articolata e differenziata in base al target che si vuole colpire. L’obiettivo è molto preciso: alienare il sostegno esterno e, laddove possibile, individualizzare la pena.

In alcuni casi questo non basta, quindi si è arrivati a tratteggiare dei parallelismi molto gravi con le associazioni a delinquere o il terrorismo, utilizzando pratiche come quelle dello svolgere i processi in aule bunker. L’utilizzo di queste strategie, ovviamente, non è casuale. L’esempio più eloquente è costituito dal processo iniziato il 19 settembre 2020 sia al movimento No TAP sia ai vertici di TAP. Pur iniziando lo stesso giorno, osserviamo che meno di venti persone tra i vertici aziendali vengono invitate ad accomodarsi nel Tribunale di Lecce (anche se il processo inizierà due anni dopo per motivi legati al Covid), mentre più di cento attivisti vengono compressi in un’aula bunker, nonostante il Covid. C’è una scelta ben precisa anche del luogo e del modo in cui i processi si svolgono, e questa stretta repressiva è indice di una crisi della democrazia e dell’incapacità di dialogare con forme di dissenso.

In che modo questa strategia di trattare l’opposizione come un fenomeno mafioso o terroristico può influenzare la partecipazione più ampia?

Il tema dell’alienazione del supporto esterno e dell’annientare il movimento minando la partecipazione è particolarmente vero quando si guarda a esperienze come quella di Ultima Generazione. Nei territori, in realtà, questo tipo di repressione non allontana più di tanto, nel senso che i legami comunitari che si sono consolidati consentono di affrontare collettivamente questo tipo di processo. Mentre mi sembra di vedere che l’accanimento giudiziario sia molto più efficace dove si colpisce la singola persona, anche se avrei bisogno di raccogliere più dati sul tema.

Credo che quando c’è il supporto della comunità sia più difficile annientare il territorio e la resistenza, anche se ci sono comunque degli ostacoli da superare: le opere vanno avanti, le persone vengono multate, allontanate o processate… l’insieme di tutti questi meccanismi, a un certo punto, sortisce qualche effetto. Si combatte contro la repressione finché l’obiettivo sembra a portata di mano: nel momento in cui l’opera è finita, continuare a protestare e prendere multe non è più ragionevole. A quel punto, nel territorio, si arriva alla demobilizzazione. 

Ci troviamo davanti a uno Stato che non solo è estremamente repressivo e cerca di dividere le comunità che rivendicano i propri diritti, ma anche che funziona per il bene del capitale. Questo sistema che ha come unici obiettivi l’accrescimento economico e il profitto mette in dubbio la legittimità dello Stato: dov’è l’utilità di mantenere uno Stato che risulta incompatibile con le richieste delle comunità? Per ottenere soluzioni alle sfide ambientali e sociali è necessario andare effettivamente oltre lo Stato?

Questo è un dilemma che mi pongo davvero molto frequentemente. Ci sono degli aspetti per cui ritengo, anche con un certo scetticismo, che uno Stato possa essere necessario. Ad esempio, penso alla forza che uno Stato può avere rispetto a una piccola comunità nei confronti di una grande azienda, per imporle dei limiti o persino la riconversione o chiusura per salvaguardare la salute dei propri cittadini e dell’ambiente. Sicuramente una comunità può mettere all’opera dei meccanismi forti, però è chiaro che non può mettere in campo gli stessi rapporti di forza di uno Stato. Così come il ruolo che ha lo Stato nel garantire una fiscalità che ci permette di usufruire della sanità pubblica (sempre più sotto attacco), o nella definizione di politiche vincolanti sul piano climatico. D’altra parte è più che evidente che lo Stato-nazione è parte fondamentale del problema: è impossibile pensare a una civiltà democratica se restiamo ancorati all’idea di nazione. L’accentramento di potere ha generato squilibri politici ed ecologici, mettendo in atto anche delle forme di colonialità del potere.

Lo Stato è parte del problema e, se da un lato nei territori manca una progettualità più concreta, dall’altro i territori non chiedono più Stato, dato che questo si presenta nelle loro vite nella forma di oppressore, semmai chiedono di avere più spazi di autogoverno, con proprie istituzioni e proprie forme di partecipazione. Questo mi sembra un dato importante, ma anche un immaginario da mettere a verifica e sondare per capire quale sia una progettualità che abbia delle premesse, degli intenti e direzioni chiare, e che possa davvero diventare un’agenda politica in grado di nutrire nel lungo termine le lotte che ci sono e ci saranno. Così come nascono, queste lotte muoiono altrettanto frequentemente proprio in mancanza di progettualità politica di medio-lungo termine che dia a quei territori senso di esistere anche a prescindere dalla specificità del conflitto.

Questa è una questione che richiede uno sforzo collettivo di riflessione e, da questo punto di vista, penso che sia interessante confrontarsi con esperienze che sono esistite o esistenti oggi, come il confederalismo democratico. Non intendo dire che il modello del confederalismo democratico debba essere replicato in modo identico nel nostro paese, ma che può essere un’esperienza con cui confrontarsi per trarre degli spunti e per capire cos’è che qui, ora, dentro la complessità e specificità esistenti, può rappresentare una strada possibile. Penso che sia importante immaginare altri istituti di democrazia, poiché lo Stato-nazione ha fatto molti danni, ma nell’immaginarlo dobbiamo capire quali parti del progetto statale possono avere ancora senso, possano aver garantito la democratizzazione di certi processi e l’estensione dei diritti.

Molti giornali hanno condiviso la richiesta di ascoltare la scienza per rendere la COP28 un successo. Tuttavia, la fiducia nella scienza può diventare scientismo in certi casi. Spesso, se non c’è una soluzione, si pensa che sarà un’innovazione o una nuova tecnologia ad aiutarci a risolvere il problema. Eppure sappiamo che non è proprio così. Alla luce di quanto emerso anche nel tuo libro, quali sono i limiti dell’approccio tecnico-scientifico nella gestione delle questioni climatiche? In che modo un’eccessiva dipendenza dalla tecnologia e dalla gestione può trascurare aspetti cruciali della sostenibilità e della complessità ambientale?

Questo è il tema, per certi versi, una delle questioni più complesse che ci troviamo ad affrontare e che poggia su fiducia o ottimismo tecnologico come soluzione al problema. Questo “ascoltare la scienza” può venire, effettivamente, da mondi diversi: lo può dire l’imprenditore come l’attivista climatico. Credo che la questione sia: dentro quali rapporti di potere si sviluppano scienza e tecnologia? Chi le possiede? A chi sono accessibili? Per fare cosa? In generale le tecnologie ci hanno facilitato in alcuni passaggi della nostra vita, però molta della tecnologia prodotta non ha questo obiettivo. La tecnologia dentro un modello capitalista e neoliberale non può far altro che tentare di dare una soluzione settoriale e di mercato al problema ambientale, ignorando che questo rappresenta prima di tutto un problema di relazioni sociali.

Il degrado ecologico, la questione climatica, le lotte territoriali, sono problemi che hanno a che vedere con un sistema di relazioni molto complesso e articolato che non può essere risolto da nessun intervento da parte della tecnologia. Anzi, temo che la tecnologia offra oggi l’occasione per creare nuovi mercati redditizi a partire dagli scarti, come avvenuto con la creazione del mercato di CO2, l’uso di scarti dell’estrazione di marmo per produrre bicarbonato di calcio o l’uso dei rifiuti per produrre energia. Oggi la tecnologia non può che portarci verso ulteriore degrado ecologico. Anche perché le tecnologie non sono a impatto zero: svilupparne una significa richiedere ulteriori stress agli ecosistemi.

L’altro elemento che è necessario considerare quando si parla di tecnologia e scienza è il restringimento del campo di quelli che sono considerati legittimati a parlare. Quindi, chi può parlare della tecnologia? La questione ecologica e climatica richiede proprio un ripensamento del modello politico e sociale, oltre a un allargamento democratico di questo dibattito. Ciò non vuol dire mettere a lato la scienza o farne a meno, ma la scienza dev’essere subordinata a criteri socio-politici di equità, giustizia e democrazia. Se la tecnologia continuerà semplicemente a riprodurre il problema, creando solo nuovi mercati, e la scienza non diventerà una questione democratica e di classe, restando in mano a poche grandi compagnie potenti, si continuerà a riprodurre un processo energivoro e predatorio.

L’ascolto delle comunità vulnerabili, quelle provenienti dai territori, ha un ruolo altrettanto fondamentale nel contesto delle negoziazioni climatiche. In che modo coinvolgere i territori e le popolazioni locali può rivelarsi utile per evitare l’idea di “catastrofe” e “catastrofismo” nel discorso climatico?

In alcuni casi i territori hanno elaborato un discorso climatico, altre volte meno. Ad esempio, il movimento No TAP, avendo a che fare con l’infrastruttura del gas, ha spesso parlato del cambiamento climatico. Però anche al di fuori delle loro parole d’ordine, l’unico soggetto di resistenza al degrado climatico sono stati proprio i territori. Mi dispiace constatarlo perché significa che c’è stata una totale assenza di decisionalità da parte di tutti quegli attori che avrebbero poteri anche molto più incisivi delle singole comunità. Nel bene o nel male, tra chi pensa che siano esperienze interessanti e chi le attacca come esperienze NIMBY, localistiche, egoistiche, la verità è che queste sono le uniche forme reali di resistenza a questo continuo collasso climatico. Questo mi sembra un dato di fatto. Credo che le comunità siano importantissime nella costruzione di politiche ambientali future, perché la loro conoscenza e cura del territorio è davvero fondamentale per mettere in dialogo i saperi scientifici con quelli situati.

Per concludere, ci sono degli argomenti che non hai potuto trattare nel libro e che ti piacerebbe riprendere in futuro?

Nonostante tutti questi anni di studi sul territorio, continuano a emergere aspetti che mi interessano. Uno di questi è il rapporto con il lavoro, che mi piacerebbe approfondire e a cui mi piacerebbe dedicarmi ulteriormente. Mi interesserebbe anche riflettere, con uno sguardo storico, sull’evoluzione dell’infrastruttura della grande opera e del suo significato sociale nel corso della storia. Mi capita spesso di pensarlo anche, banalmente, quando vado a una mostra o visito un museo: spesso la magnificenza di grandi re o imperatori è associata a una grande opera che hanno lasciato in eredità, come un grande acquedotto, una grande rete infrastrutturale, o quant’altro. Quindi mi piacerebbe approfondire la relazione tra il potere e la sua manifestazione ed espressione nelle infrastrutture.

In questi anni e questi mesi il tema è tornato in auge anche per via del progetto del ponte sullo stretto di Messina, che viene costantemente elogiato proprio su un piano narrativo populista. Si tenta di dire che “l’Italia sarà il primo paese al mondo a fare un ponte a campata unica”. È ovvio come nell’infrastruttura ci sia uno sfoggio di potere, ma nella storia ha anche visto evolvere il suo significato: se prima l’infrastruttura aveva un’utilità, nonostante le intricate dinamiche di potere e la miriade di opere mai portate a termine, ora sembra essere utilizzata solo per innescare un processo economico.

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