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Tempi duri, tempi nostri

di Redazione [QUI IL PDF] Non sapevano che fosse impossibile, allora lo hanno fatto. Mark Twain Facciamola semplice: sono tempi duri, niente sarà più come prima. Questa consapevolezza si fa strada in noi, e non… Tempi duri, tempi nostri

Dentro le scuole, fuori dagli schermi

Intervista di Vittorio a Livia Accorroni, fondatrice di Priorità alla Scuola-Marche

da Malamente 21, aprile 2021 [QUI IL PDF]

Abbiamo intervistato una delle fondatrici del comitato Priorità alla scuola (PaS) nelle Marche, che in questi mesi di relativa passività e rassegnazione delle lotte sociali nella nostra regione è stata una voce forte e attiva. Ci mettiamo in ascolto di questa iniziativa in difesa della scuola pubblica, anche se siamo sempre stati critici verso gli aspetti più istituzionalizzanti, disciplinari e repressivi della scuola di Stato. Pensiamo infatti che la scuola oggi vada difesa non come istituzione statale ma come spazio di relazione sociale pubblico, per trasformarla radicalmente e non per salvare il modello che anche prima della pandemia aveva troppi difetti. Dirigenti e insegnanti, tra l’altro, non stanno dando generalmente una bella prova, accettando con troppa facilità il nuovo paradigma autoritario, verticale, trasmissivo e passivizzante che si esprime nella quasi totalità delle attività svolte in didattica a distanza.

Ancona, 12 gennaio 2021

Quando e perché è nato il comitato di Priorità alla Scuola delle Marche? Da chi è composto?

Il Comitato Marche del movimento Priorità alla Scuola (PaS) è nato il 27 maggio 2020 dalla volontà, ma anche dalla disperazione, di tre madri lavoratrici anconetane Silvia Mariotti, Livia Accorroni e Valentina Rubini che – lo raccontiamo sempre – non si conoscevano nemmeno tanto bene e disponevano soltanto di una chat Whatsapp. Inizialmente denominato Comitato di Ancona, il gruppo è nato in risposta alla lettera-petizione indirizzata alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, pubblicata su AVAAZ il 18 aprile 2020 da un gruppo di madri, docenti, professioniste che chiedevano a gran voce che fine avessero fatto le scuole nel piano nazionale previsto dalla Fase 2 e pretendevano che l’istruzione tornasse al centro dell’agenda politica. Quelle scuole che infatti erano state la prima attività a dover essere interrotta, alla fine di febbraio non venivano nemmeno citate dai proclami della Fase 2 e 3, quando – per ricordarlo a tutti – si poteva ricominciare ad andare dall’estetista, in palestra, nei bar e ristoranti, e successivamente anche in discoteca, ma non si poteva in alcun modo rientrare negli edifici scolastici.

Dentro le scuole, fuori dagli schermi

Le Marche intensive. Tutta (ma proprio tutta) la storia del Covid Hospital di Civitanova Marche

Di Mario Di Vito [QUI IL PDF]

A un certo punto sembravamo spacciati. Il numero di contagiati saliva ogni giorno insieme al numero delle vittime, decine di milioni di italiani si erano chiusi in casa a tempo indeterminato, il presidente del consiglio Giuseppe Conte appariva in televisione ogni due o tre giorni per emanare nuove regole. Le terapie intensive sembravano sul punto di scoppiare, in televisione virologi e opinionisti più eventuali che vari continuavano ad accapigliarsi su questioni difficilmente comprensibili ai più, su Facebook i post degli infermieri e delle infermiere con il volto sempre segnato dalla fatica si moltiplicavano, così come le foto inquietantissime dei cadaveri portati via dai mezzi militari nella notte. Quattro o cinque generazioni, in vita loro, non avevano mai visto il baratro così tanto da vicino.

Marzo 2020, l’Italia è un paese in ginocchio. Terrorizzato dal Covid-19, acronimo inglese di Coronavirus Disease 19, ovvero infezione da Sars-CoV-2, una malattia respiratoria difficile da identificare. Non solo l’Italia, che comunque è stata tra i primi paesi a chiudere tutto, l’intero pianeta Terra è sconvolto e reagisce nelle maniere più disparate: chi ignora il problema, chi utilizza l’esercito, chi si colloca a metà tra queste due cose.

Qui e seguenti: “Pandemia” – Opera di Blu, Campobasso 2019

Il contesto

Nelle Marche, all’estrema periferia dell’impero, già alla fine di febbraio il governatore Luca Ceriscioli si era lanciato in una personalissima guerra al governo centrale per imporre la chiusura delle scuole della sua regione per cercare di contenere i contagi. Una vicenda in qualche modo paradigmatica del caos italiano di quei giorni: lunedì 24 febbraio Ceriscioli convoca i giornalisti per annunciare la serrata degli edifici scolastici. Nel bel mezzo della conferenza stampa, però, il presidente marchigiano riceve una telefonata dal presidente Conte, che lo obbliga a desistere dal suo proposito. Smentita in diretta, dunque, e gran brutta figura per Ceriscioli. Martedì 25 febbraio, al mattino, il governo incontra in videoconferenza i rappresentanti di tutte le regioni italiane e, senza obiezioni, si trova un accordo sul fatto che qualsiasi decisione dovrà essere presa tutti insieme. Le fughe in avanti della Lombardia e del Veneto, che nella settimana precedente avevano cominciato a produrre ordinanze, sembravano arginate. Ma il pomeriggio dello stesso giorno, a sorpresa, Ceriscioli con un atto d’imperio chiude le scuole, questa volta per davvero. Il governo si innervosisce e decide di impugnare davanti al Tar il provvedimento della Regione Marche.

Le Marche intensive. Tutta (ma proprio tutta) la storia del Covid Hospital di Civitanova Marche

Il marchingegno si è rotto. RetroMarch(e): cambiare direzione

Intervista di Sergio Sinigaglia a Carlo Carboni e Michele Serafini [QUI IL PDF]

A metà marzo ad Ancona, presso la Facoltà di Economia, si doveva tenere un incontro pubblico promosso dalla nostra rivista insieme al mensile Gli Asini e al Circolo Laboratorio Sociale. Alla vigilia di una tornata elettorale in cui si prefigurava un successo della destra, l’intento era quello di ragionare sulle trasformazioni avvenute nelle Marche, sui mutamenti sociali, economici, culturali e antropologici, specchio del contesto più generale. Tra i relatori era previsto Carlo Carboni, docente di sociologia presso la stessa facoltà, autore di numerosi saggi tra cui “Il marchingegno”, edito nel 2005 da Affinità elettive, che analizzava il defunto modello marchigiano incentrato sul “piccolo è bello” e cercava di ragionare sulle possibili alternative.

L’incontro di Ancona è saltato a causa delle restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19; abbiamo però ritenuto opportuno intervistare Carboni sulle tematiche di cui avremmo dovuto discutere a marzo. L’intervista contiene alcuni riferimenti alla “classe dirigente” che ovviamente non ci appartengono visto che le nostre idee guida sono, piuttosto, i concetti di autonomia sociale, autogestione, autogoverno. In ogni caso ci sembra un contributo importante e qualificato per riflettere sui cambiamenti in atto, con l’auspicio che nella prossima primavera si possano ricreare le condizioni per riproporre l’iniziativa annullata.

Per ampliare il quadro sulla situazione regionale abbiamo intervistato anche Michele Serafini che, ritornato nelle Marche dopo due anni da ricercatore in antropologia a Londra, ha contribuito alla formazione del gruppo di ricerca interdisciplinare “Emidio di Treviri” formato da antropologi, sociologi e urbanisti, seguendo fin dalle primissime fasi le vicende del terremoto e post-terremoto 2016. Michele ci ha parlato delle dinamiche dell’entroterra, in particolare delle conseguenze determinate dall’ultimo sisma in territori già gravemente alle prese con fenomeni sociali ed economici che ne hanno fortemente indebolito il tessuto civico.

Andrea Pazienza, “Vignette”

Intervista a Carlo Carboni

Nel 2005 hai scritto “Il marchingegno” dove riflettevi sul modello di sviluppo tradizionale della nostra regione e di come ormai mostrasse la corda, quindi sottolineando la necessità di un suo superamento e di un cambio di paradigma. A quindici anni di distanza sembra che siamo ancora al palo…

Non è cambiato nulla, anzi il contesto è peggiorato. Già due anni fa Ilvo Diamanti a un convegno all’Istao (Istituto Adriano Olivetti, ndr.) ad Ancona aveva osservato come le Marche fossero scivolate nella “media mediocritas” italiana. Devo dire che dopo la vicenda del terremoto di quattro anni fa, a cui dobbiamo aggiungere lo scossone della crisi del 2008, con tutte le conseguenze avute sia nell’apparato produttivo che nel sociale, molti di quelli che hanno fatto i cantori di questo modello di sviluppo diversi anni fa – mi riferisco al nostro ambito accademico – abbiano peccato di un eccesso di entusiasmo rispetto a una realtà che ha invece mostrato tutti i suoi limiti strutturali.

Il marchingegno si è rotto. RetroMarch(e): cambiare direzione

Da Londra ad Ascoli Piceno. La scena punk in una regione quasi tranquilla

Intervista di Luigi ad Alessia Masini e Carlo Cannella [QUI IL PDF]

Dopo aver raccontato la scena hip-hop del nord delle Marche (Malamente #6, dicembre 2017), abbiamo deciso di fare un viaggio nel sottobosco punk per scoprire origini, storia e vicende di questo fenomeno musicale e culturale che dalla fine degli anni Settanta ha attraversato, in maniera forse anche inaspettata, la paciosa e sonnolenta tranquillità di questi territori.

Abbiamo intervistato Alessia Masini, ricercatrice in storia, studiosa in particolare del rapporto tra giovani e politica in età contemporanea, collaboratrice di Rai Storia e autrice e speaker del programma radiofonico Vanloon in onda su Radio Città Fujiko (Bologna). Alessia ha da poco pubblicato il libro “Siamo nati da soli: punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna, 1977-1984” (Pacini, 2019). Poi, per mettere a fuoco il punk marchigiano, abbiamo conversato con un testimone d’eccezione, Carlo Cannella, voce storica della scena punk hardcore italiana. Cresciuto ad Ascoli Piceno, ha fondato nel 1983 i Dictatrista, nel 1985 gli Stige, nel 1992 gli Affluente. Nomi che a qualcuno/a ricorderanno i tempi del walkman sparato nelle orecchie e l’energia del pogo sotto i più improbabili palchi. Nel libro “La città è quieta… ombre parlano” ha raccontato la storia di quell’umanità disagiata e sperduta nella foresta punk ascolana, schiumante rabbia di vivere; la quarta edizione è in uscita per Red Star Press.

E allora non ci resta che partire per questo viaggio nel “nostro” punk: in fondo, dal pogo al riot, il passo può essere molto breve.

Rivolta dell’odio (Ancona), Al Tuwat di Carpi, 1985 circa

Intervista ad Alessia Masini

Il tuo libro sulla storia del punk ha una delimitazione temporale ben precisa: 1977-1984. Queste date rappresentano un inizio e una fine? Quali sono i motivi di questa periodizzazione del punk?

Non definirei queste date un inizio e una fine. O meglio, forse un inizio sì, ma non una fine. Il 1977 è il momento in cui il fenomeno punk ha una delle sue manifestazioni più visibili, cioè diventa concretamente un elemento delle culture giovanili. Nell’ottobre 1977 il punk compare in televisione, per la prima volta la RAI parla di punk in un programma che si intitolava “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo”. Pochi mesi prima, a maggio, iniziava a comparire anche tra le maglie dei movimenti, delle controculture, a partire dalla rivista “Re Nudo”. Nelle memorie dei punk italiani si ritrovano spesso questi due eventi: quasi tutti citano “Odeon” e qualcuno racconta anche di “Re Nudo”. Quindi da questo punto di vista si può dire, secondo me, che il 1977 sia un inizio.

Da Londra ad Ascoli Piceno. La scena punk in una regione quasi tranquilla