Su Rivista Malamente, a fine 2019 (n.15), abbiamo pubblicato una intervista Danilo e Valentina, due compagni anarchici che hanno vissuto un lungo periodo di detenzione preventiva, in regime di Alta Sorveglianza, nell’ambito del processo Scripta Manent (assolti in primo grado e in appello). Il processo, per il quale Alfredo Cospito rischia ora l’ergastolo ostativo in regime di 41bis, fa riferimento a una serie di attacchi firmati da diverse sigle collegate alla Federazione Anarchica Informale. Ci siamo fatti raccontare alcune impressioni sulla loro esperienza di carcerazione, anche perché spesso chi è “fuori” non si rende conto fino in fondo cosa voglia dire stare “dentro”, soprattutto in sezioni ad Alta Sorveglianza come quelle dove il potere rinchiude gli anarchici e le anarchiche.
Voi siete stati reclusi in sezioni AS2, cioè sezioni ad alta sorveglianza destinate unicamente agli arrestati per terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Una distinzione che viene storicamente fatta nelle carceri è quella tra detenuti “comuni” e detenuti “politici”: quanto è profonda questa separazione e come l’avete vissuta nella vostra esperienza?
Danilo: La differenziazione nasce proprio con l’intento di non creare un contatto tra detenuti cosiddetti “comuni” e prigionieri politici della guerra sociale, della lotta di classe.
Io posso fare un ragionamento anche in rapporto alla precedente esperienza carceraria che abbiamo avuto, nel 2005. Allora non esistevano le sezioni AS2 ma c’erano le EIV (elevato indice di vigilanza), che in teoria comportavano lo stare separati dai “comuni”, ma in Italia le sezioni EIV erano solo un paio quindi si finiva solitamente in una sezione AS; all’epoca l’alta sorveglianza era unica, non differenziata come adesso in AS1 (per gli appartenenti alla criminalità organizzata declassificati dal 41 bis), AS2 (per i “politici”) e AS3 (per le organizzazioni criminali comuni legate allo spaccio). Questo significa che essendo sottoposti a regime a elevato indice di vigilanza, ma all’interno di una sezione AS, si finiva insieme a prigionieri legati alle associazioni a delinquere organizzate, a spacciatori internazionali, etc., non era proprio un rapporto col grosso dei prigionieri “comuni”, ma c’era comunque un minimo di interazione con altri detenuti che non fossero politici. Ora non è più così, nelle sezioni AS2 ci si ritrova in un numero esiguo, in cinque, sei, sette compagni per sezione, senza nessun contatto con i “comuni” e con tutta una serie di restrizioni pratiche. La sezione AS2 è organizzata e gestita proprio per questa tipologia di prigionieri, per anarchici e comunisti.
L’anarchico Alfredo Cospito è da due mesi in sciopero della fame contro il regime di detenzione speciale 41-bis a cui è sottoposto. Anche altri/e anarchici/e detenuti stanno protestando con la stessa determinazione.
Il regime 41-bis è annientamento psicologico, è tortura di Stato e deve immediatamente cessare, per Alfredo e per tutti/e i detenuti che vi sono sottoposti/e, ad oggi oltre 700 (numero in costante incremento, anno dopo anno).
Qui di seguito un breve approfondimento sulle origini del 41-bis e su cosa prevede concretamente
Da dove arriva l’art. 41-bis?
Art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354; modificata dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279).
Introdotto dalla Legge Gozzini di riforma penitenziaria (663/1986), si componeva inizialmente di un solo comma che consentiva di sospendere le regole ordinarie di trattamento dei detenuti per fronteggiare situazioni di emergenza e ripristinare l’ordine e la sicurezza all’interno delle carceri.
Ha il suo antecedente nell’art. 90, applicato tra 1977 e 1985, prima nelle cosiddette “carceri speciali” poi anche altrove, in un periodo di forti movimenti sociali e di rivolte nelle carceri.
La storia di Eneas non è finita. Dopo la sua tragica morte nel carcere di Villa Fastiggi il 25 settembre 2015, sua madre e sua sorella, i suoi amici e tanti compagni solidali hanno iniziato a promuovere azioni per denunciare le responsabilità del carcere di Pesaro in quanto accaduto. Un presidio si è svolto sotto le mura dell’istituto e un gruppo di solidali ha continuato a farsi sentire con volantinaggi durante gli orari dei colloqui e organizzando un gruppo di persone che vogliono seguire questo caso; un’inchiesta giudiziaria per “istigazione al suicidio” è in corso. Ad inizio dicembre è arrivata la notizia che la direttrice del carcere verrà trasferita. Noi vogliamo ricordare questa dolorosa storia perché anche nella nostra regione il carcere è un meccanismo di oppressione sociale spesso rimosso fino a quando qualche evento tragico non ci riporta alla realtà.
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
La storia che raccontiamo ha il suo epilogo nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, ma potrebbe essersi svolta ovunque, in una delle tante prigioni sparse per il paese, ad una delle troppe persone che entrano in carcere, spesso per reati di lieve entità, e finiscono per non uscirne più.
Anas Zanzami, detto Eneas, di ventinove anni, è un uomo marocchino che ha vissuto in Italia dall’età di sei anni. Viene arrestato ad aprile 2015 con l’accusa di false generalità e resistenza a pubblico ufficiale, reato commesso nel 2011 e per il quale subisce una spropositata condanna ad un anno di detenzione. Proprio il giorno in cui viene denunciato, per ironia della sorte, era riuscito faticosamente a ottenere la cittadinanza italiana. In base al nostro ordinamento giuridico il periodo di condanna inflitto ad Eneas non giustifica una detenzione ma andrebbe scontato con misure alternative al carcere. Infatti, dopo cinque mesi di reclusione Eneas potrebbe ottenere, in teoria, gli arresti domiciliari. L’udienza, che non avrà mai luogo, è fissata per il 21 ottobre 2015. Il carcere di Pesaro, è bene chiarirlo, ha visto negli ultimi anni intensificarsi i problemi di sovraffollamento e le tensioni tra sorveglianti e detenuti, compreso il numero dei suicidi e conseguenti proteste, anche dure, come quella del 2013 seguita al suicidio in cella di un uomo di trentatré anni. Altrettanto nota è la direttrice, Armanda Rossi, conosciuta per i suoi metodi autoritari e discrezionali nella gestione dell’attuale struttura e di quella del suo passato incarico, ovvero il carcere di Campobasso.
Per Eneas l’impatto con la vita carceraria sembra essere stato complicato e tortuoso. Un litigio con il concellino, detenuto con cui divide la cella, e il successivo rapporto degli agenti di custodia contro cui fa ricorso al magistrato di sorveglianza, lo escludono dall’accesso al lavoro e dalla possibilità di un’uscita anticipata. Si inaspriscono i rapporti con i sorveglianti e tra provocazioni e intimidazioni il ragazzo non esce all’aria per parecchio tempo. Decide di farlo dopo più di quattro mesi, ma appena esce viene aggredito da altri due detenuti. La pressione comincia a farsi sentire, la situazione si esaspera. Aumentano i controlli e le minacce, la posta gli viene bloccata e consegnata con criteri arbitrari, una pressione psicologica continua: Eneas capisce e non ci sta, decide di difendersi, reagire, chiedere aiuto a chi gli è vicino. Entra in sciopero della fame, perde parecchi chili, incide sulla propria pelle la rabbia per l’ingiustizia che sta subendo. Viene successivamente trasferito al carcere di Ascoli Piceno sotto osservazione, etichettato come problematico e tossicodipendente.
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Dopo circa un mese viene ricondotto a Pesaro, anche se lui non ha nessuna voglia di tornare a Villa Fastiggi. Riesce ad incontrare la madre a colloquio ma verrà trovato morto poche ore dopo, impiccato. Le autorità parlano di sucidio addebitandone tempestivamente le cause alla fragilità psico-fisica di Eneas e al suo carattere “problematico”. La storia suscita da subito sospetti e rabbia nella famiglia e tra gli amici del ragazzo. Troppe cose non tornano. Dall’esigenza di una carcerazione per simili reati al trattamento subito in carcere, fino alla pessima scelta del suo ultimo trasferimento a Villa Fastiggi. I suoi amici e compagni si mobilitano, si diffonde la solidarietà, si arriva a volantinare davanti al carcere durante le visite. Il 22 novembre 2015 si svolge infine un numeroso presidio sotto le mura della struttura. I solidali si fanno sentire, i detenuti rispondono dalle finestre con piccoli fuochi improvvisati e grida che raccontano altre ingiustizie subite. Sono i primi passi, di certo non gli ultimi, per ricordare Eneas perseverando nella lotta contro il carcere e ciò che rappresenta: l’annullamento delle persone attraverso l’isolamento dal mondo e dai loro affetti, il controllo totale della vita quotidiana, il mantenimento della disciplina attraverso una degradante logica di premi e punizioni.
Di carcere si muore e benché sia importante capire come, non dovremmo mai dimenticare che un suicidio o un omicidio da parte di qualche sorvegliante troppo zelante o una lunga malattia consumata nell’umido della cella, sono comunque il prodotto di una situazione, quella carceraria, che in quanto tale determina sofferenza, morte e vite mutilate. In fondo in carcere non dovrebbe morire nessuno, in carcere non ci si dovrebbe neanche vivere. La prigione va superata. Questa convinzione è il filo che prolunga questa storia al di fuori del carcere, nella lotta che potrà nascere e nei legami che saprà costruire.
Le prigioni andrebbero buttate via
Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram
Pubblichiamo una intervista raccolta a febbraio 2016 da Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram, detenuto nella galera di Barcaglione ad Ancona. Alla sua storia abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero #2 e questa volta siamo contenti di far parlare lui in prima persona. La repressione che ha subito ha costretto molti ad aprire gli occhi sulle reali condizioni delle carceri nelle Marche e ha reso visibile anche in provincia il fatto che una inimicizia insanabile separa i ribelli dai tutori dell’ordine della nostra società. Una vendetta legalizzata ha colpito Alessio perché da anni lotta nella strada, con lo sport popolare, a contatto con chi soffre lo sfruttamento e il razzismo sulla pelle. Le sue considerazioni sul carcere ci descrivono una realtà lontana da alcune posizioni radicali ma puramente teoriche che spesso aleggiano sul dibattito anti-carcerario e ci restituiscono un quadro inquietante delle mutazioni soggettive prodotte dalla repressione, dal razzismo e dall’isolamento sociale.
Antony Gormley, A case for an angel
Alessio Abram si trova in carcere dal 13 novembre 2015. Sulle spalle una condanna assurda a 5 anni e 2 mesi, poi ridotta a 3 anni e 4 mesi con una udienza tenutasi a metà dicembre. È bene specificare che si tratta di una pena definitiva. Il tutto per il mancato rispetto dell’obbligo di firma in questura per un provvedimento di DASPO che lo ha colpito una decina di anni fa. Si sta parlando di quattro, cinque casi in tutto. Una cosa abnorme da cui come già più volte sottolineato traspare una chiara volontà persecutoria per il suo impegno nei movimenti.
Alessio attualmente si trova da qualche settimana al carcere del Barcaglione dopo che ha passato i primi tre mesi di prigionia a Montacuto. È stato lui a chiedere il trasferimento visto che notoriamente Barcaglione è un carcere dove si sta meglio, o forse è più opportuno dire meno peggio dell’altro.
In questi mesi ha ricevuto e continua a ricevere lettere, messaggi di solidarietà e affetto da tutta Italia e anche dall’estero da parte di compagni, associazioni, gruppi di tifosi. Un sostegno fondamentale per aiutarlo a superare una prova così difficile.
Dal punto di vista dell’iter giudiziario il prossimo 18 maggio è stata fissata l’udienza per discutere la richiesta di affido ai servizi sociali, scelta che farebbe aprire le porte del carcere. Inoltre è in ballo anche il ricorso alla Cassazione per abbassare ulteriormente la condanna ridotta a 3 anni e 4 mesi.
Abbiamo inviato ad Alessio, via lettera, alcune domande per un’intervista incentrata inevitabilmente sulla condizione carceraria.
Ecco le sue risposte.
Antony Gormely, Learning to think
Come è stato l’impatto con il carcere e quali sono state le tue prime impressioni?
Il carcere è un luogo che non auguri a nessuno. L’impatto è terrificante. Una volta varcati i cancelli subisci subito la prima umiliazione. In piedi completamente nudo con tre appuntati che ti guardano e ti fanno fare le flessioni per vedere se non hai nascosto della droga nel culo. Dopo le foto segnaletiche ti consegnano lo stretto necessario: piatti e forchette, un rotolo di carta igienica, spazzolino, dentifricio, coperta, lenzuola, materasso, cuscini che trascini fino ad arrivare alla tua cella. Capisci subito a caldo che hai perso molto più della tua libertà.
Che tipo di composizione sociale hai trovato, chi sono i reclusi nel carcere di Montacuto e ora a Barcaglione?
Al Barcaglione sono arrivato solo da tre giorni quindi non posso dire nulla. In ogni caso il trasferimento è stato traumatico. A Montacuto ci sono tanti, tantissimi ragazzi stranieri, la maggior parte per reati legati alla droga. C’è molta ignoranza, troppo razzismo, la maggior parte è gente di destra con tanto di simbologia. Questo è il primo impatto. Per noi compagni diventa così ancora più difficile, più dura. Ma poi gradualmente si instaurano rapporti e capisci molte cose.
In passato nel carcere di Montacuto si sono verificati numerosi casi di suicidio per il sovraffollamento. Com’è ora la situazione? Il numero dei detenuti è stato notevolmente diminuito… che contesto hai trovato?
Dicono che sia un carcere con una mortalità alta. Di suicidi o presunti tali. Oggi ad essere sinceri non si vive uno stato di sovraffollamento. Le celle ospitano quattro persone, ma sono dignitose con bidet e doccia in stanza.
Un tempo il carcere era anche l’occasione per acquisire una coscienza politica, capire che alle origini della reclusione ci sono determinate condizioni sociali. Ora quanto è difficile comunicare ai detenuti questo messaggio, favorire una loro consapevolezza?
Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Il primo impatto non è facile. Sin dall’inizio ti accorgi che noi compagni siamo troppo diversi, e non mi riferisco alla differenza dei reati. Il problema reale è che il carcere così com’è concepito non serve a niente. Le prigioni andrebbero buttate via. Ma nel frattempo gli stessi carcerati devono prendere coscienza che i protagonisti di questa battaglia sono loro, siamo noi. Questo risulta assai difficile farlo capire, così come risulta difficile farlo dall’esterno perché siamo e viviamo sotto scacco. Prima si pensa a sé stessi.
Nonostante questo, a Montacuto nei primi tre mesi ho visto qualcuno cambiare e prendere consapevolezza dei propri diritti. Abbiamo vinto una piccola battaglia per ottenere alcune cose per la stanza come un tavolino e il phon. Dopo aver inoltrato una lettera collettiva alla direttrice abbiamo ottenuto la possibilità di tenere 2/3 riunioni collettive. Ora, tramite il garante, abbiamo chiesto di rendere più a portata dei bambini la sala colloqui: togliere le reti vicino alle sbarre che sono di forte impatto traumatico, nonché di controllare i prezzi alti dei prodotti in vendita dentro il carcere.
Quali sono le problematiche maggiori che hai riscontrato e che risposta trovano dalle istituzioni interne?
Le istituzioni? Dove? E quali? Ci sono state delle visite, molto simili a quelle della gente che va allo zoo. Passano, ti guardano e se ne vanno. Il problema principale è capire a cosa dovrebbe servire il carcere.
Che tipo di attività è possibile svolgere e quanto sono utili per i detenuti?
Ci sono delle attività, corsi, ma poca cosa, con la scusa dei fondi sempre più scarsi servono al momento solo a svagarti qualche ora. Certo niente non è, ma ci pensate voi se dentro al carcere ci fossero davvero dei corsi di formazione con possibilità lavorative? Quando esce dalla prigione dopo dieci anni cosa dovrebbe fare un uomo senza soldi e con la fedina penale sporca? È chiaro che così concepito il carcere non serve a niente, come non serve a niente la visita dei parlamentari nelle modalità in cui oggi si svolge. Spero che questa mia testimonianza possa sollecitare chi di dovere per favorire un lavoro serio e costruttivo. Se in questa fase storica proprio non si può fare a meno dell’istituzione carceraria almeno ripensiamola profondamente, altrimenti è chiaro che una volta che ci entri nove volte su dieci ci ritorni.
Infine un’ultima domanda: nell’opinione pubblica è altamente diffusa una cultura securitaria. Cosa ti senti di dire in proposito? Che messaggio vuoi mandare?
Questa domanda meriterebbe davvero una intervista specifica. Si spendesse la metà dei soldi che attualmente si utilizzano per la sicurezza in favore di progetti sociali reali, sicuramente le nostre carceri sarebbero più vuote. In Italia abbiamo una giustizia, mi fa ridere chiamarla così, lenta e troppo arbitraria. Concludo salutando la terza sezione del carcere di Montacuto invitando tutti i ragazzi a continuare in quello che abbiamo iniziato perché siamo noi detenuti per primi che possiamo cambiare qualcosa. Infine un invito alle istituzioni: meno passerelle e più contatti con la popolazione carceraria.
È una storia da dimenticare è una storia da non raccontare è una storia un po’ complicata è una storia sbagliata.
Fabrizio De André
Scritta murale, Senigallia, novembre 2015
È proprio una storia sbagliata quella di Eneas, morto il 25 settembre scorso nel carcere di Villa Fastiggi di Pesaro. Se non si è chiusa nel buio riservato a chi viene oppresso dal carcere è grazie ad un pugno di amici e compagni che hanno deciso di non restare in silenzio. Noi la raccontiamo e vorremmo far crescere l’attenzione sulla violenza della repressione quando colpisce i più deboli e isolati. La prigione, di sorpresa, ci sbatte in faccia di nuovo, dura come un cancello quando pensiamo anche ad Alessio Abram di Ancona, da anni impegnato nelle strade e nello sport popolare come antirazzista e antifascista. Da più di un mese è sequestrato a Montacuto con una condanna a quattro anni. Il suo arresto ci ha riempiti di rabbia e ha mostrato a tutti il carattere vendicativo e classista della questura e della magistratura. Continue reading →