Fin dalla notte di giovedì 15 settembre in molti avevamo percepito la gravità della situazione. Insieme ai compagni e alle compagne delle Brigate volontarie per l’emergenza (BVE) che vivono a Senigallia avevamo discusso molte volte dell’eventualità di una nuova alluvione e di cosa fare per rispondere ad essa, ma a causa della scarsa preparazione tecnica e della mancanza di una relazione con il sistema comunale di Protezione civile poco abbiamo potuto fare se non allertare amici e vicini e tirare fuori gli stivali di gomma.
Nella notte il fiume Misa è esondato a più riprese. Alla mattina lo scenario era peggiore di quello dell’alluvione del 2014. La città era allagata in più punti, dal centro alle periferie. I paesi a monte vicini al fiume erano pesantemente colpiti, Arcevia e Barbara avevano molti ponti inagibili e grandi frane. I morti davvero troppi.
Come preannunciato, gli effetti della crisi climatica che la nostra epoca ha generato sono sempre più espliciti e invasivi. Gli anelli più delicati dell’ecosistema sono ovviamente i contesti in cui gli effetti risultano più visibili.
Dal punto di vista molto specifico del nostro mestiere osserviamo ormai da più di dieci anni un peggioramento della salute e della vitalità delle api. Ma è negli ultimi quattro o cinque che il fenomeno è ancora più evidente.
“Non è di una domenica in campagna che abbiamo bisogno, ma di una vita meno artificiale“.
Il nome di Bernard Charbonneau (1910-1996) è frequentemente associato a quello del più noto Jacques Ellul: entrambi sono considerati precursori dell’ecologia politica e del pensiero della decrescita. Originari di Bordeaux, amici, quasi coetanei, hanno condiviso per oltre mezzo secolo molte inquietudini, fatta eccezione per la fede religiosa: protestante Ellul, agnostico Charbonneau. Ellul, che riconosceva di dover a Charbonneau molte sue ispirazioni – “Charbonneau mi ha insegnato a pensare e mi ha insegnato ad essere un uomo libero” – lo presentava come “il primo a superare la critica del macchinismo e dell’industria per accedere a una visione globale della tecnica come potere strutturale della società moderna”[1]. Charbonneau è infatti tra i primi a interrogarsi sulle profonde trasformazioni introdotte dal progresso tecnico, su come l’aumento della produzione materiale si accompagni al venir meno della libertà individuale. Ne desume la necessità di arrestare la crescita economica, che ormai diventata fine a se stessa non è compatibile con la salute dell’uomo e della terra.
Disegno di Valérie Paquereau 2018
Negli anni Trenta è per alcune
stagioni vicino agli ambienti di Esprit e di Ordre nouveau (che
non ha niente a che vedere con l’omonimo movimento di estrema destra del
dopoguerra) e partecipa alla corrente di pensiero detta del “personalismo”, che
intendeva rompere con le ideologie dominanti del secolo cercando una via
alternativa tanto al capitalismo liberale quanto al comunismo. Se ne distacca
quando capisce di non riuscire a far accogliere in pieno la sua analisi critica
della società tecnoscientifica e l’urgenza di suscitare un’azione collettiva per
riorientare la società contro il culto della tecnica, della produzione, dello
Stato.
Dopo essere stato marginalizzato e misconosciuto nel dopoguerra dominato anche a sinistra dalla fascinazione per il progresso e l’espansione economica, Charbonneau ha esercitato una discreta influenza nel post-Sessantotto, con l’emergere delle lotte ecologiste. Lotte che non ha solo teorizzato ma alle quali ha partecipato in prima persona, in particolare all’interno del Comitato di difesa della costa aquitana. Nella seconda parte della sua vita si ritira con la famiglia in un paesino nei pressi di Pau, ai piedi dei Pirenei, continuando a insegnare storia e geografia nei licei della provincia sud-ovest: la sua eredità sta venendo oggi sempre più riscoperta, pur restando ancora quasi del tutto sconosciuta in Italia.
In difesa della costa aquitana, Guethary, settembre 1975
Il merito principale di Charbonneau
è aver sottoposto a una critica complessiva la moderna società industriale –
cioè l’organizzazione sociale fondata sul lavoro coatto e sulla produzione di
merci – denunciando il mito del progresso in quanto illusorio e distruttivo.
Quella che lui chiama la Grande Mue è la grande mutazione che stiamo
vivendo, un concetto più ampio di quello di “rivoluzione industriale”: l’epoca
in cui la tecnoscienza ha rimodellato il pianeta a sua immagine e somiglianza
e, con esso, ha ridisegnato radicalmente l’essere umano, il suo stare al mondo
e la sua mentalità. Si tratta di una mutazione epocale, paragonabile per la sua
portata soltanto alla trasformazione prodotta dall’introduzione delle tecniche
agricole nel neolitico, che non riguarda solo l’economia o qualche singolo aspetto
della società, ma l’intera condizione umana.
A tutto questo Charbonneau oppone
un progetto rivoluzionario a partire dalla vita quotidiana, alla cui base siano
le comunità che abitano i territori, che riconducono la produzione nelle
proprie mani, che capovolgono le pratiche e l’immaginario coltivando rapporti
umani contrari a quelli della società tecnoindustriale. Questa rivoluzione deve
passare anche, e soprattutto, attraverso un nuovo rapporto con la natura,
intendendo con questo termine ciò che sfugge ai tentacoli del sistema
industriale, che ne resta ai margini e si sottrae alle sue costrizioni. Alla
natura è strettamente legata la libertà,
un concetto che deve scendere dall’ideale filosofico per farsi materia
quotidiana: “la libertà è essere libero… non essere definito come tale”[2], ma
essere liberi non è possibile se non scardinando il sistema tecnico che toglie
responsabilità e potere decisionale al soggetto umano. La natura rappresenta
quindi uno spazio di libertà per l’individuo e di autonomia per le comunità:
“una manifestazione di anarchismo concreto”.
Nella società industriale la natura è ovunque sottomessa, ma allo stesso tempo viene anche ricostruita artificialmente a uso e consumo di un’umanità che ha completamente smarrito ogni profondo legame con essa. L’ambiente naturale diventa quindi sia un serbatoio di materie prime per le esigenze dell’industria, sia la meta dei fine settimana per un tempo che è chiamato “libero” solo in funzione di quello occupato dalla produzione. Alla fine, tutti possono oggi dichiararsi “amanti della natura”, intendendo il più delle volte un suo surrogato, ovvero il parco naturale, il percorso turistico di montagna, lo spazio verde urbano o il documentario del National Geographic.
Henriette e Bernard. Maison du Boucau, Saint-Pé-de-Léren, 1990 circa
Charbonneau di fronte a tutto
questo, ponendo già negli anni Trenta le basi di una nuova ecologia politica,
afferma che il “sentimento della natura” – espressione ripresa dal geografo
anarchico Élisée Reclus – non è solo un capriccio letterario, ma una “forza
rivoluzionaria”. Le sentiment de la nature, force révolutionnaire è il
titolo di un suo lungo articolo del 1937. Tanto più la società incatena l’uomo
con i suoi imperativi di produzione e consumo, tanto più il “sentimento della
natura” è una reazione a queste costrizioni: una viva ricerca di libertà. In
questo senso non manca in Charbonneau anche un recupero della dimensione
spirituale dell’essere umano e del suo stare su questa Terra, che equilibri la
dimensione materiale dell’esistenza. L’emozione che suscita il contatto diretto
con la natura – e anche quell’alleanza con la natura che sta alla base
dell’abitare e vivere un territorio – è un grande stimolo alla volontà di
cambiare il mondo per edificare una società ecologista e libertaria.
Qui di seguito proponiamo la
traduzione di alcuni estratti presi da varie opere di Charbonneau.
Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria, 1937
Per tutti coloro che hanno
ancora un genuino desiderio di vivere, che non vegetano nello stomaco del
mostro sociale, non c’è che una soluzione: attendere la fine del lavoro. Vivere
per mesi una vita rallentata. Per l’adulto, il termine “vacanze” finisce per
essere significativo come lo è per uno studente recluso in un collegio, proprio
perché la società attuale è chiusa come un collegio. Per molti giovani, al di
là delle ipocrisie filosofiche, il viaggio in montagna o al mare rappresenta il
solo momento di vita possibile. Invano cercano di persuaderci che il tempo
libero è divertimento; piuttosto, è il lavoro artificiale imposto dall’attuale
società che merita di essere trattato con ironia. Il nostro tempo libero è un
affare secondario? In realtà è il solo momento in cui possiamo vivere senza
secondi fini, con la camicia sbottonata, giocando, conoscendo e assaporando la
gioia di placare la nostra fame e la nostra sete.
Per i giovani di oggi, il sentimento della natura non è la vaga emozione di fronte a uno spettacolo, è una sete che nasce dal desiderio di vivere, un sentimento tragico, antagonista alla vita quotidiana che conduciamo; se resta inespresso è solo perché alberga nel più profondo di noi stessi. Ma è ora il momento in cui questo conflitto ha raggiunto una tale violenza che preme per mostrarsi alla nostra coscienza. È strano che la montagna sia per alcuni l’unica salvezza, è strano che non possiamo vivere davvero se non quando, zaino in spalla, guadagniamo l’ingresso di una valle; perché non possiamo vivere se non fuggendo il nostro lavoro, la nostra famiglia, la nostra patria? Fuggiamo senza voltarci indietro: la montagna, in altri tempi terra di rifugio per i popoli vinti, è oggi l’asilo di coloro che non trovano pace se non quando la sua ombra cala sui giorni feroci delle città. Scappiamo anche da noi stessi, ma dal momento che il nostro io non è che un io sociale, stiamo scappando dalla nostra società civilizzata.
Charbonneau ed Ellul – Archivio B. Charbonneau
Finché ci saranno governi ben
organizzati, i ministri della polizia faranno bene a diffidare dei giovani che
escono da soli per percorrere sentieri isolati: sono certamente spiriti
malvagi, molto più di certi senatori comunisti. “Ma sono così carini, hanno
idee generose e vaghe, non fanno politica” – senza dubbio, ma è sempre
possibile che a lungo termine uno spirito malvagio finisca per prendere
coscienza delle sue esigenze. I governi diffidino di questi giovani entusiasti,
posseduti dallo spirito di giustizia, dal sentimento di miseria comune; diffidino
anche dell’amore autentico per la natura perché se un giorno, abbattendo
brutalmente le sottili costruzioni della politica, un movimento si opporrà alla
più raffinata delle civiltà, questo sentimento sarà la sua forza essenziale.
Possiamo dire che fino alla metà
del XIX secolo, non avendo l’umanità vissuto troppo lontano dalla natura, il
sentimento della natura non ha mai avuto grande considerazione nella vita
sociale. Questo sentimento si è sviluppato nella misura in cui un paese o una
classe hanno visto la loro vita trasformata dalla civiltà industriale,
manifestandosi con più forza tra le classi ricche e in quei paesi dove hanno
maggiormente inciso le conseguenze del progresso tecnico: Inghilterra, Stati Uniti,
Germania, Francia. In questi paesi la classe “naturista” è stata per prima la
borghesia poi, nell’ordine, gli impiegati e gli operai; ai Touring club
borghesi hanno risposto più tardi i Naturfreunde (gli Amici della
natura) socialisti. […] Il sentimento della natura ha inizialmente penetrato la
classe borghese, con manifestazioni che possono riassumersi in una parola:
turismo. […] La borghesia non sfugge al suo destino, che è di vivere in maniera
sempre più artificiale anche quando cerca di ritornare alla natura. […] Il
sentimento della natura, per come si esprime comunemente nella borghesia, ha
subìto una doppia deviazione: materialista e idealista. Il borghese torna alla
natura per riposarsi o per vedere un bello spettacolo: la natura è per lui un
giardino pubblico in mezzo a terreni occupati da fabbriche e campi. La
considera una parentesi che non ha nulla a che vedere con la sua vita di tutti
i giorni: amicizie delle vacanze, entusiasmi delle vacanze, amori delle
vacanze; per due mesi il borghese s’illude di amare, di affezionarsi, poi, a
settembre, come dice M. Martin “chiude le valigie e ritorna agli affari seri”.
Le jardin de Babylone, 1969
La seconda rivoluzione industriale, quella degli idrocarburi e della chimica, si sta imponendo nelle campagne europee. La macchina va troppo veloce per il pensiero: il suo utilizzo precede sempre la coscienza dei suoi effetti. La motosega non lascia più il tempo di riflettere come l’ascia. Se si può abbattere una quercia in qualche minuto, ci vuole comunque un secolo per farla crescere. Il trattore non è più appannaggio dei grandi proprietari terrieri, i prodotti chimici diminuiscono il lavoro del contadino, ma visto che bisogna pagarli, alla fine ci si ritrova comunque a lavorare. La piccola impresa agricola non è più redditizia. Il progresso tecnico significa concentrazione, la meccanizzazione genera grandi aziende. Il ruscello irriga terreni saturi di chimica e basta qualche pompa per prosciugarlo. Cos’è diventata la vita segreta delle valli? Il lavoro diventa veramente lavoro, cioè lavoro di fabbrica. Tra non molto i contadini reclameranno il loro diritto di passare le vacanze in campagna.
Lettera di Jaime Semprun per la riedizione di Jardin de Babylone, 2001 – Archivio B. Charbonneau
La rivoluzione agricola ha raso
al suolo la campagna francese, lasciando solo una distesa, polverosa o fangosa,
dove il trattore, a perdita d’occhio, traccia la sua linea. Indifferente ai
rilievi, al passato, va. Se il trattore ti consente di lavorare tre volte più
velocemente, devi lavorare tre volte di più per pagarlo.
Tutta la vita umana è
espressione della natura, nulla di essenziale può essere aggiunto ad essa: nel
migliore dei casi, l’artificio può semplicemente camuffare un vuoto. Il cielo è
blu sulla nostra testa e l’acqua chiara scorre tra le nostre dita; il nostro
cuore batte e i nostri occhi sono aperti. Cos’altro potremmo chiedere? Tutto
quel che c’è di più bello e più forte, dal più semplice al più sublime, non
l’ha inventato nessuno: le nuove invenzioni, nel migliore dei casi, sono solo
nuovi pretesti per vecchie gioie. Bevi in una giornata assetata e mangia al
momento della fame, tuffati nell’onda e prendi un pesce, scherza con l’amico o
bacia gli occhi dell’amica. Tutto ciò che possiamo acquisire è solo
un’aggiunta, l’essenziale ci è stato dato il giorno della nostra nascita.
Gli uomini si sono radunati
nelle città per sfuggire alle forze della natura. E ci sono riusciti fin troppo
bene; l’abitante della città moderna tende a essere completamente inglobato in
un ambiente artificiale. Non solo per via della folla, ma perché tutto ciò che
lo circonda è fabbricato dall’uomo, per l’utilità umana. In mezzo alle case,
gli uomini hanno riportato la terra e costruito uno scenario; gli avventori dei
giardini pubblici sono troppo numerosi: guardare ma non toccare. Il costo delle
megalopoli aumenta ancora di più delle loro dimensioni. Bisogna far arrivare
più energia, più acqua. Bisogna assicurare il trasporto dei cittadini,
sbarazzarsi dei cadaveri e di altri scarti. Riciclando l’acqua delle fogne, la
città è ridotta a bere la propria urina. Propongo di stimare in franchi il
metro quadrato o il metro cubo d’aria pura, come i kilowatt. Il XIX secolo
aveva le sue galere industriali, il nostro ha l’inferno quotidiano dei
trasporti. La megalopoli non può essere salvata che dal sacrificio, ogni giorno
più spinto, delle sue libertà.
Se il paesaggio rurale è il risultato di un matrimonio tra terra e uomo, la città moderna è una costruzione in cui le ragioni umane – a volte impazzite – hanno vinto.
Selezione dall’archivio B. Charbonneau, 2019
Se non affrontiamo gli effetti
sulla natura e sull’uomo della civilizzazione industriale e urbana dobbiamo
considerare probabile la fine della natura con, per qualche tempo, una
confortevole sopravvivenza nella spazzatura: solida, liquida o sonora. E se
qualche incidente sconvolgerà la grande macchina, non saranno più solamente i
pesci a marcire all’aria aperta, ma gli uomini fisicamente e soprattutto
spiritualmente asfissiati.
La natura resta l’indispensabile
superfluo della società industriale. I mass media diffondono quotidianamente il
mito del Mare, della Montagna o della Neve. Il turista non è che un voyeur,
il suo viaggio si riduce al monumento o al sito classificato d’interesse.
Ovunque l’artificio cerca di restituirci la natura. Isolato dalla natura nella
sua auto, il turista guarda con occhio sempre più indifferente il piatto
documentario che passa dietro al finestrino. Ammirare i ghiacciai attraverso le
finestre di un palazzo non impedisce di lamentarsi se il riscaldamento è troppo
basso. Un turista non vive, viaggia; appena mette piede a terra, il clacson del
pullman lo richiama all’ordine; il turismo e la vita autentica si mescolano tra
loro come l’olio fa con l’acqua. Con la società capitalistica il turismo è
diventato un’industria pesante. Le agenzie turistiche fabbricano in serie
prodotti standard, il cui valore è quotato in borsa. Non ci sarà più natura in
Francia, ma autostrade che condurranno da fabbrica a fabbrica – chimica o
turistica.
Notre table rase, 1971
Non dobbiamo difendere la natura in sé, ma la
natura abitata, il diritto alla campagna che implica dei duri compiti. I
naturalisti furono i primi a scoprire l’ecologia. Ma se ci atteniamo alla
difesa di biotopi e specie, trascuriamo l’essenziale del problema, che è umano,
e rimaniamo soddisfatti di riforme ad hoc. Alla fine la natura sarà salvata da
qualche riserva – naturale perché protetta dalla polizia – dove solo
l’ambientalista certificato potrà entrare e anzi non vedrà di cattivo occhio i
terreni militari chiusi al pubblico. Per lui, più un territorio è inabitabile,
più è interessante: è per questo che difende le zone inospitali più delle
campagne. Come il protettore dei siti d’interesse, il naturalista vede solo il
suo lavoro e per salvare la natura è pronto a privarne l’uomo. Eppure è il
primo a sapere che l’uomo non vive dello spettacolo della natura e che
rifiutargli l’acqua e il pesce è ucciderlo.
Non credo che eviteremo lo
scontro con la società attuale, anche se sarebbe bello se scomparisse senza
lotte. La rivoluzione verde (o ecologica, se preferite: non mi interessa la
parola, è la cosa che conta per me) mette in discussione, molto più del
socialismo, i principi e gli interessi della società borghese in cui viviamo. Ci
saranno da combattere niente meno che Dio e il portafoglio: la Chiesa e il supermercato.
Eviteremo la violenza, la guerra? Chi ama la campagna ha di meglio da fare che giocare
al piccolo soldato, ma temo che i rapporti tra il movimento ecologista e la
nostra società rimarranno pacifici solo nella misura in cui il movimento
resterà confinato nel recinto in cui è stato parcheggiato. Non vedo come potrà
evitare atti di sabotaggio punibili dalla legge, che in questo caso si
applicherà con più rigore rispetto a quando si tratta di inquinamento dei
fiumi. È probabilmente quando vedremo versare il suo sangue che sapremo che la
rivoluzione del 2000 è nata.
Le Système et le chaos. Critique du développement exponentiel, 1973
L’azione della tecnica è automatica, precede la riflessione. Il suo ritmo troppo veloce eccede la previsione; quando crediamo di coglierne gli effetti, è già oltre. […] L’uomo dunque non è più il fine di questa evoluzione che lo supera, ma soltanto la sua provvisoria giustificazione; la macchina non è più il mezzo di cui una società si serve, ma la potenza che la modella: i cambiamenti tecnici determinano trasformazioni economiche che provocano a loro volta trasformazioni sociali: nel nostro mondo ossessionato dall’efficacia, queste seguono e non precedono. La tecnica allora fa la storia, perché domina le forze naturali e le forze spirituali si rifiutano di controllarla. Le nostre rivoluzioni non modificano più le condizioni sociali e non riescono a stare al passo di quelle generate dalle tecniche. La macchina a vapore ha fatto di più per cambiare la società che non i principi del 1789, se la libertà non si è stabilita sulla terra, la fabbrica sì.
Le Système et le chaos, 1973
La società industriale vede bene
il deficit delle società sottosviluppate o del passato, ma ignora il suo; anche
perché giudica alla luce dei propri criteri. Per percepire i costi naturali e
umani, bisogna aver scelto la natura e l’uomo.
La ragion d’essere e il difetto
di ogni apparato è di sostituirsi all’uomo fisico o spirituale. Ogni
meccanizzazione si paga con una perdita di coscienza; alcuni ne approfitteranno
per porla altrove, ma non è questo che succede di solito. Guidare bene un’auto
vuol dire non pensarci più e agire automaticamente, la riflessione è troppo
lenta per il ritmo della macchina. Così il suo automatismo conquista l’uomo che
talvolta trova la pace in questa incoscienza; se certi operai soffrono alla
catena di montaggio, molti ci stanno bene, nella gradevole consapevolezza del
loro vuoto interiore. Forse il progresso dell’organizzazione risponde al
segreto desiderio dell’uomo: fabbricare l’automa che un giorno si incaricherà
di pensare e vivere al suo posto.
Chronique de l’an deux mille, 1974
Si è visto che la crescita esponenziale mentre risolveva problemi ne poneva di nuovi; aveva costi di ogni genere: economici, ecologici, sociali. Si è scoperto che ogni azione è ambigua; la produzione può essere anche chiamata distruzione della materia prima: la produzione di legno rade il bosco. La stessa cosa si può dire in due modi. La civiltà dell’igiene è allo stesso tempo una civiltà della spazzatura. […] Se non ci si interroga più sui costi delle proprie azioni, allora le conseguenze saranno per lo più negative: potremmo allungare all’infinito questo catalogo di produzioni distruttive di una società che si rifiuta di mettere in discussione le conseguenze dell’economia. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una crescita esponenziale: la curva irresistibilmente decolla e si raddrizza, e tende verticalmente, cioè all’assoluto. Ma lo spazio-tempo della Terra è finito… Più andiamo, più pagheremo caro vantaggi che s’assottigliano. All’inizio i benefici della crescita sono evidenti: con pochi milioni abbiamo potuto guadagnare mesi sulla traversata atlantica, ma per guadagnare tre ore abbiamo investito miliardi. Così come le centrali atomiche, costeranno care. E non sarà solo in dollari, ma in un’organizzazione raffinata, in una disciplina implacabile: in libertà.
Le totalitarisme industriel, 2019
Le Feu vert, autocritique du mouvement écologiste, 1980
Un bel giorno, il governo sarà
costretto a praticare l’ecologia. Senza farci illusioni possiamo pensare che, a
meno di una catastrofe, il cambiamento ecologico non sarà dovuto a
un’opposizione minoritaria e sprovvista di mezzi, ma alla borghesia dominante,
il giorno in cui non potrà fare diversamente. Saranno i vari responsabili della
rovina della terra che organizzeranno il salvataggio di quel poco che rimane e
che, dopo l’abbondanza, gestiranno la penuria e la sopravvivenza. Poiché queste
persone non hanno pregiudizi, credono tanto nello sviluppo quanto nell’ecologia:
in realtà credono solo nel potere, facendo ciò che è inevitabile.
L’amante della natura è
perfettamente integrabile nel sistema industriale come gestore delle riserve naturali
o dei parchi nazionali, che fungono da alibi per le necessità industriali, immobiliari,
fondiarie e turistiche, nella proporzione di un’allodola per un cavallo. In
questi spazi-reliquia, amministrativamente congelati, il naturalista può soddisfare
la sua passione per la natura intatta come l’etnologo quella per le società
tribali chiuse in altre riserve e musei. Ma tra la natura provvisoriamente
riservata e la cultura del cemento e dell’asfalto, quello di cui gli individui
saranno privati è la campagna in cui l’agricoltore vive e preserva la terra per
tutti. Non essendo né bestia né angelo, né orso né ecologista incaricato di
studiarlo e ospitato come tale nel parco nazionale, posso solo rifiutare una
società che mi proibisce di vivere la mia patria: la terra.
La chiave del problema non è
nella natura o nell’uomo, ma nel loro rapporto, soprattutto in uno spazio
profondamente umanizzato come l’Europa delle città e delle campagne.
L’ecologismo ha un solo modo per risolvere la contraddizione tra natura e uomo:
eliminare quest’ultimo. […] L’amante della natura ha una sola soluzione da
offrire all’uomo: la riserva naturale estesa su tutto il pianeta. E, per
finire, la partenza per Saturno o il suicidio dell’ultimo elemento
perturbatore: il direttore di questo museo. […] Ma la coscienza attiva della
natura è una questione di morale o, piuttosto, di etica: è un risveglio dello
spirito. La protezione della natura affonda più nella libertà che nella
materia.
Producendo un superfluo che può essere aumentato indefinitamente, l’industria del tempo libero è uno dei motori dello sviluppo e, poiché la natura è il suo oggetto principale, è la causa numero uno della sua devastazione. Solo la guerra può sprecare ancora più energia e spazio. Questo svago standardizzato e concentrato, perché organizzato, non ha motivo di essere se non per i profitti degli operatori turistici. La sua giustificazione è di fornire a tutti ciò che in realtà distrugge: natura e libertà.
Henriette e Bernard
Bibliografia su Bernard Charbonneau
Bernard
Charbonneau: une vie entière à dénoncer la grande imposture, sous la
direction de Jacques Prades, Ramonville, Érès, 1997.
Daniel
Cérézuelle, Écologie et liberté: Bernard
Charbonneau, précurseur de l’écologie politique, Parigi, Parangon, 2006.
Bernard
Charbonneau: habiter la Terre. Actes du colloque du 2-4 mai 2011,
Université de Pau et des pays de l’Adour, 2012.
Daniel Cérézuelle, Bernard
Charbonneau, in 20 penseurs vraiment critiques, coordonné par Cédric
Biagini, Guillaume Carnino et Patrick Marcolini, Montreuil, L’Échappée, 2013.
Bernard Charbonneau, Jacques
Ellul, Nous sommes des révolutionnaires malgré nous: textes pionniers de
l’écologie politique, Pargi, Seuil, 2014.
Bernard Charbonneau &
Jacques Ellul: deux libertaires gascons unis par une pensée commune,
présentation et choix d’extraits par Jean Bernard-Maugiron, [Bordeaux], Les
Amis de Bartleby, 2017.
Daniel
Cérézuelle, Bernard Charbonneau ou La critique du développement exponentiel,
Lione, Le Passager clandestin, 2018.
https://lagrandemue.wordpress.com
(sito dedicato al pensiero di B. Charbonneau).
[1] Le due citazioni: Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul,
Parigi, La Table Ronde, 1994; Jacques Ellul, Une introduction à la pensée de
Bernard Charbonneau, in “Ouvertures. Cahiers du Sud-Ouest”, n. 7, 1985, p.
41.
[2]
B. Charbonneau,
L’État, (1949); nuova edizione: Parigi, R&N, 2020.
Intervista a Matthieu Amiech, d Rivista Malamente n. 18, giu. 2020 (QUI IL PDF)
Matthieu Amiech, editore e saggista francese del gruppo Marcuse (Movimento autonomo di riflessione critica a uso dei sopravvissuti dell’economia), ha di recente pubblicato una nuova edizione di La Liberté dans le coma (La Lenteur, 2019), un libro che affronta di petto l’informatizzazione di ogni ambito della società in quanto problema non solo individuale ma collettivo e politico. Una questione che, se era attuale già qualche anno o mese fa, oggi troviamo assolutamente amplificata dall’epidemia di coronavirus, che sembra aver fatto della comunicazione digitale l’ancora di salvezza della nostra vita sociale. Il libro descrive come ha preso forma un mondo in cui la maggior parte delle nostre azioni quotidiane passano, sempre più “necessariamente”, attraverso le tecnologie informatiche e digitali e sono dunque automaticamente registrate. Una schedatura continuativa e di massa, nuova forma di “servitù volontaria”, possibile grazie a un consumo sfrenato di energia e risorse. Vengono inoltre approfondite le conseguenze disastrose che il modo di vita perennemente connesso ha sulla nostra autonomia, sulle nostre libertà, sulle nostre capacità di opporci alle grandi organizzazioni dalle quali dipende ormai la nostra vita materiale. Abbiamo tradotto e fuso insieme due recenti interviste ad Amiech: “Il nostro libero arbitrio è risucchiato da internet”, intervista raccolta da Kévin Boucaud-Victoire, in “Marianne”, 19 agosto 2019 e “Il digitale è al centro della catastrofe ecologica”, intervista raccolta da Gaspard d’Allens e Hervé Kempf, in “Reporterre”, 26 novembre 2019. La terza intervista, “L’isolamento in casa amplifica la digitalizzazione del mondo”, sempre raccolta da Gaspard d’Allens per “Reporterre”, è uscita il 30 marzo 2020 e affronta il rapporto tra digitale e isolamento sociale per come si è venuto a configurare nella presente fase di emergenza sanitaria.
“Reporterre”. A che punto siamo arrivati, oggi, sul fronte della digitalizzazione della vita?
Siamo andati lontano, ancora più lontano di quando abbiamo iniziato a scrivere la prima edizione del nostro manifesto contro l’informatizzazione del mondo, La Liberté dans le coma (La Lenteur, 2013). La società è oggi informatizzata da cima a fondo. Quello che è stato sottratto, non sono più solamente i mezzi di sussistenza, ma il mondo stesso, l’accesso al mondo. Nelle grandi città c’è come un fenomeno esistenziale: una cosa non esiste se non la fotografo nel momento in cui la vedo. Non ha importanza se non la registro, la catturo e la condivido sulle reti sociali. Si consulta il proprio smartphone in maniera compulsiva, da appena svegli, qualunque momento di pausa si riempie guardando il flusso delle notizie, dei messaggi o dei giochi…
In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.
Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.
Protesta dell’associazione Lupus in fabula, luglio 2018
Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa
Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.
Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]
Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.
Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.
Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).
Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.
A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.
Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.
Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale
Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.
Fig. 1 – Mappa delle placche tettoniche della Terra
L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.
È noto come quei presupposti sui quali le cooperative sono nate, mutualità, solidarietà e controllo democratico, ormai da tempo siano stati smarriti e soppiantati dalla meschina cultura imprenditoriale che le rende in tutto simili a una qualunque impresa privata. Sempre più spesso i soci lavoratori devono lottare se vogliono strappare anche i più elementari diritti. Uno stimolante dibattito su “Cooperative vere e false: nuova frontiera dello sfruttamento e dei diritti negati” si è svolto in occasione della festa nazionale USI-AIT che quest’anno si è tenuta a Fano dal 4 al 6 settembre 2015, organizzata da compagni e compagne dell’USI Marche e ospitata dallo Spazio sociale autogestito Grizzly. Riportiamo qui la testimonianza diretta, una volta tanto relativa ad una lotta vincente, di un compagno socio lavoratore di una cooperativa sociale del fermano.
Almanach du Père Peinard 1899
“La situazione economica di chi lavora nelle cooperative non si differenzia in alcun modo dai lavoratori impiegati nelle imprese private dove, però, l’operaio può ricorrere alla lotta e allo sciopero per reclamare più salario o rivendicare più diritti per le condizioni di lavoro. Ben altro stato di fatto nelle cooperative, dove gli operai debbono subire la mercede fissata, anche se infima, senza poter reclamare ed ottenere un trattamento migliore poiché la cooperativa non avrebbe la possibilità di soddisfare alle richieste dei propri soci, operai-padroni. Si credeva che la cooperazione avrebbe soppresso lo sfruttamento dell’appaltatore, ma questo riappare sotto altre spoglie. I grossi direttori di cooperative, che intascano le quindici, le venti, le trenta lire giornaliere (un operaio percepisce tre lire, due e cinquanta e non di rado anche una lira e cinquanta al giorno) fra stipendi, indennità, percentuali, diarie, ecc., non guadagnano meno di certi imprenditori contro i quali spesso si sono appuntati gli strali dei lavoratori sfruttati”.
Alibrando Giovannetti, sindacalista USI, 1915
Almanach du Père Peinard 1896
Voglio raccontare l’esperienza portata avanti nella cooperativa sociale in cui lavoro e di cui sono socio, per dimostrare che le lotte si possono anche vincere. La cooperativa, attiva in provincia di Fermo, con circa 250 soci lavoratori gestisce servizi socio educativi e socio sanitari, oltre che formazione e progettazione.
Circa due anni fa a causa della crisi economica e delle speculazioni che nel nome di questa hanno preso vigore, la mia cooperativa ha iniziato a corrispondere le retribuzioni mensili con consistenti ritardi. Svariate sono state le lettere di richiamo e le riunioni con la dirigenza ma il problema era ed è quello di molte realtà: la mancanza di liquidità e i ritardi da parte della committenza nel pagamento delle fatture. Il CDA ha così deciso di affidarsi a un esperto che ha avuto la brillante (e fallimentare) intuizione di progettare un piano di ricapitalizzazione per innalzare il valore del patrimonio della cooperativa, da mettere a garanzia con le banche per l’anticipo di denaro contante con cui pagare gli stipendi. Ovviamente a pagare sono sempre i soliti noti e così molti di noi hanno sottoscritto un finanziamento tra i 1.200 e i 2.000 euro da pagare in “comodissime detrazioni dalla busta”. Peccato che nel piano di rientro avessero previsto di raccogliere 180.000 euro e invece ne hanno incassati solo 60.000: quota che non ha nessun valore ai fini del tentativo di innalzare il patrimonio a garanzia. Il risultato è che i lavoratori non solo hanno continuato a prendere gli stipendi in ritardo, ma tutt’ora si vedono detrarre mensilmente la somma per il pagamento del finanziamento.
L’aria è cominciata a diventare pesante e, per timore di azioni sindacali, l’amministrazione ha ben pensato di inserire all’ordine del giorno dell’assemblea dei soci ordinaria dello scorso ottobre l’approvazione di un regolamento interno (ai sensi dell’articolo 6 della legge 3 aprile 2001 n. 142) dal contenuto a dir poco scandaloso. Il regolamento comprendeva articoli contrari al contratto nazionale, come ad esempio l’ipotesi per cui la corresponsione dello stipendio mensile era “vincolato alla disponibilità economica della cooperativa” e che la stessa avrebbe potuto pagare acconti di stipendio anche con ritardi di tre mesi, stabilendo una graduatoria tra i soci a seconda dei crediti da questi maturati. Ulteriori questioni non secondarie riguardavano l’utilizzo di lavoro gratuito volontario obbligatorio, la gratuità delle ore di formazione e tanto altro.
In sede di assemblea, una volta conosciuto il contenuto di quello che loro descrivevano come una pallosa formalità, io e altri colleghi abbiamo bloccato il voto e abbiamo chiesto di indire un’altra assemblea dei soci in cui noi stessi avremmo presentato una diversa bozza di regolamento e avremmo chiesto di mettere a voto contemporaneamente le due versioni. Intanto faccio pubblicamente presente ai soci i motivi per cui andava fermato il regolamento proposto dal CDA. Il primo è il rifiuto totale per l’ipotesi di una contrattazione di secondo livello in deroga ai più elementari diritti sindacali, che dimostra anche l’irresponsabilità del CDA in quanto un accordo del genere sarebbe di certo stato impugnato generando ciò che loro tentavano di scongiurare (le azioni sindacali); il secondo motivo era rappresentato dalla dinamica dirigenza/lavoratori che è qualcosa che dovrebbe essere distante dal concetto di cooperazione. Accuso quindi il CDA di aver adottato scrupolosamente il metodo Marchionne in un contesto dove discorsi di questo tipo non dovrebbero assolutamente trovare spazio e rilancio pretendendo che la situazione venisse affrontata attraverso l’adozione di dinamiche mutualistiche e di solidarietà tra i lavoratori e non con lo schifo che ci stavano somministrando. Infine, propongo di costituire un fondo di solidarietà che supporti i lavoratori in difficoltà e che possa essere usato anche come anticipo stipendi.
Almanach du Père Peinard 1897
Lavoriamo per altri due mesi circa e ci presentiamo alla partecipatissima assemblea straordinaria con un nuovo regolamento in cui non solo vengono cassate tutte le offese ai lavoratori, ma vengono messi al centro gli aspetti peculiari del cooperativismo e dell’azione diretta e partecipativa che esso dovrebbe rappresentare, aggiungendo a integrazione dell’articolo sulla crisi aziendale la prescrizione per cui entro due mesi i lavoratori avrebbero costituito un fondo di solidarietà in cui sarebbero stati convogliati i soldi della mancata ricapitalizzazione fermi ad ammuffire in un conto di Banca Etica.
L’assemblea è stata qualcosa di esaltante: articolo dopo articolo i soci votavano contro la bozza dei padroni, fino all’approvazione totale del nostro regolamento. Il fondo di solidarietà ha quindi un regolamento e, soprattutto, ha come base i 60.000 euro amaramente ceduti dai nostri padroni. Ora toccherà ai soci iscriversi al fondo e donare ore lavoro, ferie, permessi ai lavoratori in difficoltà. Nello specifico, il fondo è costituito da tre diverse misure: il fondo per l’anticipo sugli stipendi in caso di ritardo e per altre necessità; la banca ore lavoro per i lavoratori a cui è stato ridotto l’orario o come cuscinetto in caso di attivazione della cassa integrazione e la banca ferie e permessi donati dai lavoratori ad altri lavoratori che ne abbiano bisogno; il fondo per l’acquisto di libri di testo e cancelleria per i figli dei soci in difficoltà.
Il percorso che abbiamo intrapreso come soci lavoratori è incentrato sul tema del cooperativismo originario e sulla funzione centrale che ha l’assemblea nella scelta delle strategie e delle visioni future: questa secondo me è l’unica strada possibile per resistere alla crisi prendendosi la responsabilità di un bene collettivo. Alla crisi, infatti, si resiste con una propensione al mutuo aiuto e non con tagli e licenziamenti. Un vero cooperativismo dev’essere all’insegna della solidarietà attiva e questo è quello che cerchiamo di fare con l’istituzione di fondi di solidarietà e bloccando in assemblea qualunque deroga sui contratti. Confrontandomi con altri compagni che già avevano affrontato situazioni identiche in giro per l’Italia e che hanno visto realizzato ciò che noi con fatica abbiamo respinto, ho sentito il bisogno di sintetizzare la nostra esperienza positiva, sperando che possa servire ad altri per non arretrare di un passo su ciò che faticosamente in anni e anni di lotte abbiamo conquistato e per rilanciare l’azione diretta all’interno dei nostri posti di lavoro.
Trivelle in Adriatico
Intervento di Augusto De Sanctis
Fig. 1 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Il mare Adriatico, dalla Puglia all’Emilia-Romagna, si trova al centro di una serie di progetti energetici che riguardano in particolare l’installazione di piattaforme per l’estrazione di idrocarburi e le perforazioni per lo stoccaggio in profondità di biossido di carbonio prodotto dalle emissioni industriali, con tutto il corollario di impianti di gestione e di logistica. Anche senza doversi interrogare su cosa farne dell’energia, di quanta e per quale modello di sviluppo ne dovremmo avere bisogno, è evidente che progetti di questo tipo presentano un significativo impatto inquinante sull’ambiente, tanto più in un mare piccolo e chiuso come l’Adriatico, oltre a fattori di rischio non prevedibili. In gioco ci sono grandi profitti per le multinazionali che fanno girare l’economia del petrolio, agevolati dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi che individuando in questi progetti delle attività “di interesse strategico nazionale” li impone dall’alto ai territori e alle comunità che vi abitano.
Dopo il corteo abruzzese del 23 maggio 2015 che ha visto sfilare a Lanciano sessantamila persone, anche nelle Marche sono partite le mobilitazioni per cercare di impedire l’ennesima devastazione ambientale. Per informare su quanto sta accadendo di fronte alle nostre coste e organizzare la resistenza si sono svolte assemblee pubbliche molto partecipate e stimolanti in diverse località marchigiane. Riteniamo importante costruire un’opposizione dal basso a questa grande opera, inutile per le nostre vite e dannosa per il territorio, ma allo stesso non dimenticare la pluralità delle lotte per l’ambiente e la salute che, benché su scala minore, necessitano del nostro impegno e della nostra azione.
Non riponiamo fiducia nelle battaglie condotte a suon di ricorsi amministrativi e carte bollate e nessuno riuscirà a convincerci che le istituzioni locali possano essere nostre alleate, così come non ci interessa porci su un piano prettamente tecnico-scientifico per confutare le affermazioni degli specialisti del petrolio e dimostrare la nocività dei loro progetti. Ci ostiniamo però a voler ostacolare con ogni mezzo i disegni di dominio del capitalismo, tanto più nella sua forma industriale, e per questo siamo interessati ad approfondirne la conoscenza. Su questo numero di Malamente pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Augusto De Sanctis, attivista del coordinamento “No Ombrina”, registrato durante l’assemblea del 1° luglio al Parco del campo d’aviazione di Fano.
Fig. 2 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Buonasera a tutti, questa è già la quarta volta che vengo nelle Marche e sono molto contento del movimento che si sta sviluppando attorno a questi temi. Io vorrei questa sera illustrare, anche da un punto di vista un po’ tecnico, la problematica della deriva petrolifera che i governi da Monti in poi, fino a Renzi, stanno cercando di implementare e imporre sui territori. Vi invito intanto a visitare i nostri siti e le nostre pagine (https://stopombrina.wordpress.com). Per la manifestazione di maggio a Lanciano ci siamo inventati anche un photo contest e ovunque le persone andavano, dall’Argentina a Cuba, dalla Malesia all’Islanda, ci mandavano foto con cartelli con scritto “No ombrina”; addirittura una persona si è portata dietro la bandiera “No ombrina” e si è fatta un percorso in bicicletta, passando peraltro anche da qui, per arrivare fino in Croazia.
In generale, per noi è importante studiare e approfondire, poi però andiamo sempre nelle piazze. Durante la conversione in legge del decreto Sblocca – io lo chiamo Sporca – Italia siamo stati in sit-in davanti a Montecitorio. Io rivendico questo passaggio, credo sia un passaggio fondamentale per i prossimi anni del movimento ambientalista in Italia, perché in quella mobilitazione ci siamo incontrati con diverse centinaia di persone provenienti da tutta Italia per farci sentire non solo rispetto alle trivellazioni ma anche su tanti altri temi, dal momento che il decreto parla non solo di petrolio, ma anche di gasdotti, di stoccaggio gas, di bonifiche, di privatizzazione dell’acqua e chi più ne ha più ne metta.
Lo Sblocca Italia è nato ad agosto dell’anno scorso. Il 3 agosto Renzi aveva detto più o meno così: “farò un decreto che sbloccherà l’Italia, solo che purtroppo non posso farlo subito, l’avrei voluto fare oggi, ma prima devo sentire le persone” e quindi apre alla partecipazione. Allora, io che voglio essere un buon cittadino che partecipa, sono andato sul sito del governo e ho cercato il materiale su cui esprimermi. Sul sito, su questo decreto, c’era solamente una pagina scarsa con elencati dieci punti: “Sblocca porti”, “Sblocca autostrade” e giusto due righe di spiegazione; anzi lo “Sblocca porti” non aveva neanche due righe di spiegazione, c’era scritto “Sblocca porti” e basta. Al che io ho mandato un’email per richiedere il materiale. L’indirizzo a cui mandarlo era, non sto scherzando: rivoluzione@governo.it. Nessuno ha risposto alla mia richiesta e il materiale non me l’hanno mandato. È interessante notare che a quanto pare nessuno della stampa abbia fatto il mio stesso percorso, avrebbero potuto far fare una figura meschina a questo governo.
Perché il decreto Sblocca Italia costituisce un punto focale della politica aggressiva del governo sui territori? Ora non ve lo leggo tutto, ma soffermiamoci sull’articolo 38, “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”: “al fine di valorizzare le risorse energetiche nazionali e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti del Paese, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. In questo articolo si dice che qualunque giacimento del paese di idrocarburi, quindi metano e olio, è di interesse strategico nazionale, è di pubblica utilità e anche tutto quello che si trova intorno diventa di pubblica utilità. E quindi si deve fare. Noi abbiamo subito commentato questo passaggio dicendo che è paradossale che il paese del sole, il paese dei beni artistici, delle bellezze paesaggistiche, veda come strategico il petrolio e non i nostri ulivi, le nostre vigne, il nostro paesaggio, che invece vengono tutti dopo lo sviluppo petrolifero.
L’articolo precedente, il 37, dice una cosa che è passata sotto silenzio. Voi nelle Marche avete il parco dei Sibillini e penserete che quello è un posto intoccabile, ebbene in questo decreto c’è scritto che se qualcuno volesse fare un gasdotto enorme, sbancando tutto, verrebbe meno il piano del parco. Automaticamente. Io vengo dall’Abruzzo, nel parco nazionale d’Abruzzo abbiamo la “camosciara” che è famosa in tutto il mondo, protetta da cento anni, ma anche qui, se la Snam decidesse di far passare un gasdotto, ci andrebbero le ruspe e verrebbe meno il piano del parco. Lo dice espressamente l’articolo 37, andatelo a leggere, è una cosa terrificante.
Lo Sblocca Italia pone quindi degli obiettivi molto chiari: privilegio totale delle fonti fossili rispetto a tutto il resto, come se fossimo in un deserto. Su questo noi eravamo già mobilitati. Nel 2008, con migliaia di persone in piazza, abbiamo vinto la battaglia contro il Centro Oli di Ortona che volevano costruire in mezzo alle vigne. Peraltro hanno sbagliato proprio il posto perché a Tollo c’è la più grande cantina sociale abruzzese… e quindi è successo un finimondo! L’abbiamo battuto. Da lì è partita tutta questa lotta che ci ha portato in piazza a Lanciano lo scorso maggio; per sottolineare l’unitarietà, davanti al corteo non c’era nessuna bandiera che non fosse quella “No Ombrina” che ci siamo dati tutti assieme.
Cos’è Ombrina? E perché tutto questo macello in Abruzzo? Davanti alla costa teatina, a sud di Pescara, dovrà arrivare una piattaforma da quattro a sei pozzi, molto vicina alla costa, a sole tre miglia e mezzo, ma la cosa più grave è che questa piattaforma sarà agganciata ad una meganave raffineria lunga 330 metri, tre volte un campo da calcio. Il nome tecnico è FPSO: Floating Production Storage and Offloading. Il nostro petrolio è infatti di scarsa qualità e quindi deve essere desolforato subito, non può essere trasferito a lunga distanza perché la presenza di zolfo andrebbe a rovinare gli oleodotti e le navi per il trasporto. Quindi ci dovrebbero piazzare per venticinque anni un aggeggio del genere davanti alle nostre coste. Quattro mesi fa, a febbraio, una nave simile è scoppiata di fronte alle coste del Brasile, per fortuna stava a duecento chilometri di distanza, ma purtroppo sono morte nove persone se ricordo bene; quattro anni fa di fronte alla Nigeria una FPSO della Shell, quindi di una grossa società, ha perso 40mila tonnellate di petrolio in mare, immaginate cosa vorrebbe dire perderle in Adriatico: mezzo Adriatico verrebbe precluso alle attività umane.
Molto spesso noi ci accorgiamo di questi progetti quando vengono messi a “valutazione di impatto ambientale”. La procedura è pubblica; l’azienda proponente deve fare uno studio di impatto ambientale e mandarlo al Ministero dell’ambiente (perché i progetti, anche in terraferma, adesso sono stati accentrati tutti a Roma, mentre prima se qualcuno voleva fare un pozzo di petrolio doveva mandarlo alla Regione). Sul sito del Ministero dell’ambiente compare quindi l’annuncio e voi avete sessanta giorni di tempo per fare delle osservazioni, poi va tutto a una commissione nazionale, sempre presso il ministero. In questa commissione per l’impatto ambientale le nostre tasse diventano progetti. Qui ogni anno vengono decisi progetti da miliardi di euro di valore, fra cui il TAV, le autostrade, la Quadrilatero qui nella vostra zona.
Si potrebbe pensare che della commissione facciano parte dei grandi nomi. Ebbene, recentemente la stampa nazionale ha evidenziato che alla commissione nazionale ci sono personaggi che come minimo hanno qualche “ombra” sopra, per cui, tra l’altro, sono in corso interrogazioni parlamentari ed esposti a varie procure della Repubblica. Vado a memoria: c’è un personaggio che da dieci anni siede in questa commissione, Vincenzo Ruggiero. Vi invito a fare una prova, cercate il suo nome su internet e troverete la relazione dello scioglimento del consiglio comunale di Gioia Tauro nel 2008 per infiltrazioni mafiose. Il paragrafo su questa persona inizia così: “Ruggiero Vincenzo, commercialista”, un commercialista nella commissione di valutazione impatto ambientale è già un po’ particolare…, “è fortemente sospettato di essere asservito alla cosca dei Piromalli”[1]. Questa persona decide per voi, per noi, se si devono fare questi megaprogetti, compreso Ombrina. Ma non è il solo, su almeno una ventina di questi commissari ci sono ombre da chiarire, soprattutto sul lato del conflitto di interessi.
La questione non riguarda solo l’Abruzzo, o la Basilicata. Questa è la mappa delle concessioni dei titoli minerari in Italia [fig. 3]. Come vedete parte dal Piemonte, dalla zona di Novara, poi scende sulla pianura padana, va in mare davanti alle coste emiliane, riscende sulle Marche dove prende sia la costa che l’entroterra, l’Abruzzo, poi va verso l’interno, la Basilicata, una zona del Salento e il canale di Sicilia: questi sono titoli minerari già concessi.
Fig. 3 – Carta dei titoli minerari in Italia, 2015
Veniamo alle Marche. Noi abbiamo realizzato un dossier che si chiama Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, può essere scaricato in pdf[2]. Nella figura vedete i titoli già concessi [fig. 4]: nelle Marche circa il 22% del territorio è già stato dato alle compagnie petrolifere in concessione, alcune sono già produttive, nella terraferma ci sono una trentina di pozzi, tutti a gas. Poi ci sono altre due istanze, una delle quali a Monte Porzio, proprio qui vicino a Fano, dove c’è la richiesta da parte di una società di ottenere in concessione 20mila ettari di terreno. Tutte queste mappe potete trovarle su un sito ufficiale che funziona molto bene e vi invito a consultare, cioè il sito dell’Unmig, l’Ufficio minerario dello Stato (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it). Apro una parentesi: di solito quando si fa un piano regolatore ci si scanna per qualche metro, poi però piazzano sopra i territori concessioni petrolifere con interi paesi dentro; in Molise le tre più grandi città, Isernia, Termoli e Campobasso sono all’interno di concessioni petrolifere, con tutte le case, tutte le persone. Avete visto che le concessioni petrolifere sono tutte dritte, ricordano i confini dell’Africa: si traccia una riga e cosa c’è sopra non interessa.
Fig. 4 – Carta dei titoli minerari nelle Marche, 2015
Poi abbiamo le concessioni a mare, sono moltissime, circa 400mila ettari di mare sono stati già concessi ai petrolieri. Ci sono diverse piattaforme, venticinque pozzi se ricordo bene, alcuni anche ad olio, non solo a metano. Qui c’è un aspetto particolare che vi riguarda direttamente. In realtà tutte queste concessioni ci riguardano, ma questo è molto particolare perché è un caso unico in Italia e credo uno dei pochi del Mediterraneo. Si tratta di Sibilla. Sibilla non è una concessione per cercare e trovare metano o petrolio, ma è una concessione per verificare se ci sono le condizioni per stoccare in profondità l’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra, che andrebbe sottratta dai cicli produttivi industriali e, appunto, stoccata a migliaia di metri in profondità sfruttando delle rocce porose che si trovano sotto il mare e che secondo loro avrebbero caratteristiche idonee per ospitarla. Sibilla ha già avuto la valutazione di impatto ambientale positiva nel 2013, però è ora dormiente o almeno non ci sono attività a nostra conoscenza. A mio avviso, siccome ci sono stati grossi finanziamenti dell’Unione europea qualche anno fa, loro hanno intanto preso l’autorizzazione e per ora il progetto è lì fermo, potrebbe non partire mai come potrebbe partire improvvisamente. Come ho detto si tratta di un’attività sperimentale, perciò gli impatti non sono ben noti. In Norvegia, dove hanno fatto una cosa simile, si è verificato un problema di tenuta di queste rocce porose riempite a pressione di gas, l’anidride carbonica tendeva a scappare da dove volevano confinarla.
Che il governo italiano stia puntando proprio sugli idrocarburi lo dice chiaramente questa immagine [fig. 5]; questa è una mappa ufficiale, noi tendenzialmente usiamo sempre dati ufficiali anche se certe volte sottostimano il problema. Quello segnato è un permesso di ricerca di prospezione, non di perforazione, risalente al 3 giugno. La Regione Abruzzo, così come la Regione Puglia, faranno ricorso al TAR, noi abbiamo già emesso un comunicato stampa chiedendo anche a Ceriscioli (Regione Marche) di far ricorso. L’attività di prospezione prevede l’utilizzo della tecnica Air-Gun: una nave fa su e giù lungo tutto quel tratto trascinando un aggeggio, scusate i termini, che ogni qualche secondo rilascia aria a pressione creando come un’esplosione e producendo un’onda sonora ad altissima intensità che viene immessa in mare migliaia di volte. Queste onde arrivano negli strati geologici, si riflettono e permettono di registrare dati per individuare in profondità gli eventuali giacimenti. Immaginate l’impatto che potrebbe avere, soprattutto sui cetacei. Esistono ricerche scientifiche che provano come i cetacei reagiscano molto male a questa forma di inquinamento acustico, ma c’è anche forte preoccupazione per le attività di pesca. La cosa che a noi preoccupa di più è che se vogliono fare questa ricerca su aree così immense (si tratta di un milione e mezzo di ettari in mare) è chiaro che hanno idea di venirci poi a trivellare.
Fig. 5 – Aree di prospezione in Adriatico, progetto Spectrum Geo Ltd
Voi però penserete: se trovano il metano qui, a noi ci arriverà gratis, o quasi. Ebbene, avete visto quante concessioni già ci sono nelle Marche in terraferma, vediamo allora a quanto ammontano le famose royalties date alla Regione Marche negli anni. Il massimo è stato un milione e mezzo di euro nel 2012 a fronte di 183 milioni di metri cubi di metano, estratti l’anno precedente. Il gas si paga sugli 80 centesimi a metro cubo, quindi il valore estratto è di circa di 150 milioni di euro. Vi è convenuto dare ai petrolieri 150 milioni di euro di controvalore a fronte di un milione e mezzo? Cioè l’1%. In pratica noi stiamo regalando i nostri giacimenti alle aziende. Questo perché le royalties in Italia derivano da quando c’era l’ENI, che era pubblico, e quindi era una partita di giro: l’ENI dava soldi allo Stato ma era lei stessa dello Stato. Adesso non è più così in quanto ad agire ora sono spesso aziende private straniere. E poi, in teoria, le royalties in Italia sarebbero dal 7 al 10%, ma nella pratica esiste il regime delle franchigie, in base al quale fino a un tetto di produzione le compagnie non pagano niente. E non è poco: in mare fino a 80 milioni di metri cubi di gas all’anno. Noi veramente lo stiamo regalando. Al di là delle questioni ambientali, noi regaliamo a delle aziende il nostro metano. È una cosa incredibile e ci dovrebbero essere rivolte solo su questo aspetto. L’Italia è un territorio dove le aziende multinazionali del petrolio dicono: andiamo lì perché conviene, ce lo danno gratis!
Un altro punto che pochi immaginano va oltre la questione delle trivelle. Forse ancora più preoccupante è infatti quello che c’è dietro, perché il pozzo da solo non può vivere. Ha bisogno del gasdotto, dell’oleodotto, di posti dove stoccare il materiale. E infatti vogliono fare stoccaggi di gas nel vostro territorio, nelle Marche. E poi ci sono i grandi impianti di rifiuti, solo per perforare un pozzo si fanno 3.500 tonnellate di rifiuti; un pozzo in Basilicata solo di acqua inquinata da trattare tira fuori sessanta autotreni al giorno. Dovete perciò immaginare che se un territorio viene indirizzato verso gli idrocarburi, il problema non è solo il pozzo in sé, ma tutta la logistica che viene costruita attorno.
Fig. 6 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini
Faccio un rapido accenno agli stoccaggi perché riguardano due aree del territorio marchigiano, una è San Benedetto del Tronto, l’altro Palazzo Moroni, un po’ più a nord, dove Acea, Gaz de France e altre compagnie vogliono stoccare in profondità il metano estratto dai pozzi. Immaginate come un palloncino che d’estate viene riempito e poi d’inverno, quando c’è la richiesta, il metano viene tirato su e portato coi gasdotti verso il Nord Europa. Quali problemi può comportare? I terremoti. In Italia sulla questione dei terremoti legata agli idrocarburi c’è stata un’omertà micidiale, mentre all’estero, nel mondo della ricerca, gli stessi petrolieri ammettono da decenni che l’estrazione degli idrocarburi può comportare terremoti. L’Italia comunque non poteva far finta di niente per troppo tempo e se prendiamo il decreto di valutazione impatto ambientale dell’anno scorso firmato dal ministro Galletti per lo stoccaggio di San Benedetto troviamo scritto, testuale, che “qualora la micro sismicità riconducibile alle attività di esercizio dello stoccaggio” (ammettono quindi che c’è un legame tra terremoti e un’attività umana), “eguagli o superi la magnitudo locale 3.0” (ma fino a che magnitudo ci possiamo aspettare? 4? 5? L’Aquila era 6), “dovranno essere adottati dal soggetto gestore responsabile tutti gli accorgimenti opportuni atti a riportare la magnitudo massima dei sismi a valori inferiori a 2.0”[3]. Come se ci fosse la manopola con cui il terremoto si regola. Voi, se dovessero fare uno stoccaggio qui sotto, leggendo questa autorizzazione, vi fidereste ad avere una casa qui?
Se cercate in internet “gas storage earthquake” troverete che in Spagna il progetto Castor da un miliardo e mezzo di euro, di fronte a Valencia, lo hanno dovuto spegnere in tutta fretta dopo due mesi perché aveva prodotto oltre duecento terremoti. E adesso gli spagnoli stanno pagando l’azienda con le proprie tasche, con le bollette, perché avevano un contratto dove la parte pubblica si assumeva i rischi. Oppure fate una ricerca su “Groningen earthquakes”: nel più grande campo a metano d’Europa, in Olanda, si è innescata una sequenza sismica dal 2002-2003 in poi. Dopo che per trent’anni hanno tirato su grandi quantità di metano ora si trovano con cento terremoti all’anno, con 150mila case da ristrutturare, trenta miliardi di euro di danni e non si sa che cosa accadrà. C’è una lettera del ministro dell’economia olandese al Parlamento che afferma: abbiamo dovuto ridurre del 20% l’estrazione, ma non sappiamo se si il fenomeno si bloccherà, non sappiamo neanche se si blocca se non estraiamo più niente, non sappiamo quanto sarà forte la prossima scossa, sostanzialmente non sappiamo nulla se non che questo fenomeno si è innescato a causa dell’estrazione di gas.
Fig. 7 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini
Tornando all’Italia, uno dei primi progetti partiti dopo lo Sblocca Italia riguarda proprio le Marche ed è la concessione Santa Maria Goretti (le chiamano con nomi davvero imbarazzanti) a Ripatransone. Lì ha sede una delle più importanti aziende marchigiane di vino biologico. Il titolare, Vagnoni, mentre a ottobre noi facevano il sit-in a Roma stava vincendo i tre calici della guida del Gambero rosso. Immaginiamo che era tutto contento, poi, a gennaio, io sul sito del ministero vedo la notizia di questo pozzo e insieme al comitato di San Benedetto del Tronto facciamo un comunicato stampa. A Ripatransone nessuno sapeva niente, il sindaco non aveva detto niente alla sua popolazione. Insomma quella persona da un giorno all’altro si è trovata con il progetto di un pozzo quasi in mezzo alle sue vigne. A cinquecento metri da uno dei centri storici più belli d’Italia dovrebbe nascere una torre di sicurezza di cinquanta metri con la fiammella accesa in alto. Voi pensate questo imprenditore che esporta tantissimo all’estero, che ha fatto una cantina con le opere d’arte in mezzo alle botti, per dire l’eccellenza del nostro paese, e che ci mette il governo Renzi? Un pozzo.
Nel piano di sicurezza ed emergenza che la società Appennine Energy, inglese, ha previsto per Ripatransone, si trova come primo rischio il blowout, cioè le eruzioni in testa pozzo di cui poi vi dirò qualcosa in più, seguito dall’inquinamento a mare (a mare? Ripatransone sta in mezzo alle colline!), esplosione, incendio, evacuazione sanitaria, mezzi aerei, radioattività, mezzi navali (?!) e operatori subacquei (?!), questo tanto per dirvi come il copia-incolla di questi studi è evidente. Viene presa in considerazione anche l’emergenza maggiore, descritta come “situazione di pericolo già in atto che interessa gran parte o in toto il cantiere e rischia di estendersi all’esterno con conseguenze considerate gravi dal punto di vista umano”, e voi già pensate all’esplosione nel cantiere, a Ripatransone in fiamme… “che potrebbero influenzare negativamente l’immagine della società e dell’attività presso l’opinione pubblica”[4]. Cioè, il problema per loro è chiamare un esperto di marketing che sappia vendere il problema alla popolazione!
A un certo punto abbiamo visto che si parla di radioattività. Questo è un altro problema poco conosciuto. Durante le operazioni dei pozzi si possono produrre, a seconda del contesto geologico, materiali radioattivi, per due motivi. Il primo è un aspetto naturale: quando si scava un pozzo a tremila metri di profondità e si iniziano a tirare fuori idrocarburi, per una questione chimica si concentrano radionuclidi. Non è tantissima ma una certa radioattività è presente ed è vero che è naturale, ma prima stava sotto a tremila metri di profondità, una volta fatta affiorare va gestita, con tutta la filiera legata al corretto trattamento di questi materiali. La seconda ragione è invece legata all’attività di ricerca. Nel pozzo, per studiare il giacimento, vengono mandate ogni tanto delle sonde, dei bussolotti con una sorgente radioattiva. Col piccolo particolare che ogni tanto le perdono nei pozzi e le lasciano andare perché recuperarle sarebbe troppo problematico. In Italia non si sa quante se ne sono perse, una sicuramente in Basilicata l’anno scorso in base alle notizie apparse sulla stampa. Un gruppo di ricercatori nigeriani ha pubblicato un report su quante sonde sono state perse nel mondo: solo negli U.S.A. centoquattro in diciannove anni, che non è un numero piccolo. Negli Stati Uniti, nel 2002, si è verificato un incidente nucleare con irraggiamento di una trentina di persone, in pratica si sono dimenticati la sonda aperta vicino al pozzo per due giorni.
Avevo fatto cenno al blowout, l’eruzione in testa pozzo, che è un fenomeno fortunatamente raro consistente in una risalita incontrollata di idrocarburi nel pozzo a fortissima pressione che, esplodendo, forma una vera e propria eruzione. In Italia è successo a Trecate nel 1994. Per Ripatransone e Ombrina ci hanno detto che non può accadere perché metteranno sopra la testa del pozzo il BOP, il blowout preventer. Cioè un sistema di valvole e ganasce che dovrebbe impedire in caso di risalita la fuoriuscita incontrollata dal pozzo. Io che non sono ingegnere ma mi informo molto, come spero che anche voi farete, ho cercato in rete “accident blowout preventer” e ho trovato il sito della Commissione d’inchiesta del governo degli Stati Uniti (http://www.csb.gov), quindi un sito ufficiale, non ambientalista o altro, in cui si parla del più grave incidente mai accaduto nella storia degli idrocarburi, nel 2010 nel Golfo del Messico. Ricordate? Bene, sul sito trovate anche un bel video, il problema è stato proprio il BOP che non ha funzionato e il suo malfunzionamento ha moltiplicato l’impatto. Quindi, quando i petrolieri dicono che è tutto sicuro, non credeteci, non è vero.
Fig. 8 – Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico, 2010
Un’altra cosa poco nota l’hanno scoperta due ricercatrici di Princeton. Di solito ci si preoccupa sempre dei nuovi pozzi, ma quelli abbandonati? In Italia sapete quanti pozzi sono stati scavati in terraferma e in gran parte abbandonati, anche nelle campagne marchigiane? 7.220 (circa 200 sono ancora attivi). Che fine hanno fatto? Li hanno tappati, si chiama “chiusura mineraria del pozzo”, cioè un bel tappo di cemento. Queste due ricercatrici hanno trovato che questi pozzi perdono in atmosfera quantità di metano non da poco, si stima che solo in Pennsylvania, che è uno Stato industriale, dal 4 al 7% delle emissioni di metano sia legato ai pozzi abbandonati[5]. Questo in atmosfera, poi però dobbiamo pensare anche alle nostre falde acquifere, noi non ce ne accorgiamo ma sotto abbiamo quantità di acqua molto più grandi dei fiumi che vediamo in superficie. Se noi ci piazziamo sopra un pozzo che succede?
Avete mai sentito parlare di fracking? Si pensava che l’inquinamento negli Stati Uniti dei pozzi di acqua potabile fosse legato al fracking, una tecnica molto aggressiva di stimolazione dei giacimenti attraverso l’iniezione a pressione di fluidi che rompono le rocce e fanno sì che gli idrocarburi scorrano in maggior quantità verso il pozzo. In Italia il fracking è vietato, ma comunque non siamo al sicuro perché una ricerca pubblicata in una rivista scientifica tra le più importanti al mondo, gli atti dell’Accademia di scienze degli Stati Uniti, aggrava il problema. I ricercatori hanno infatti dimostrato che non è tanto il fracking a far andare gli idrocarburi nelle fratture per poi arrivare all’acqua, ma in realtà è molto più semplice e può accadere in qualsiasi pozzo, e cioè i pozzi perdono. La contaminazione dell’acqua avviene attraverso le rotture della camicia di cemento attorno al pozzo[6]. E noi stiamo già perdendo la nostra acqua; le Marche hanno perso un quarto della loro acqua di falda, non solo per gli idrocarburi.
Dobbiamo pensare che questa lotta contro il petrolio non è solo perché non vogliamo il pozzo dietro casa, ma è parte di un problema più generale che riguarda il nostro modello di sviluppo e l’impatto dei cambiamenti climatici. Bastano pochi gradi di aumento della temperatura media causata dalle emissioni in atmosfera derivanti dal consumo di fossili, carbone, petrolio, metano e avremo grossi problemi con l’acqua. Perciò noi dobbiamo combattere assolutamente le emissioni in atmosfera, lo dice anche l’enciclica di papa Francesco. Che, devo dire, la cita pure Renzi e questo mi limita molto, ma evidentemente lui non l’ha capita. Io me la sono letta e dice delle cose quasi millenaristiche, visionarie, sulla gravità di quanto sta accadendo sul nostro pianeta. Io sono ateo ma penso che il papa sia un’autorità morale sicuramente importante. I vescovi abruzzesi sono venuti con noi a manifestare, le diocesi abruzzesi hanno scritto secondo me il più bel documento contro lo Sblocca Italia, sostenendo che è necessaria una “biociviltà” con una “democrazia ad alta intensità”. Qualcosa si sta muovendo nelle coscienze, qualche volta ci viene voglia di rispondere in maniera più energica ma noi siamo nonviolenti, però ci ribelliamo e contestiamo, dobbiamo assolutamente combattere quello che sta accadendo, cercando di formare un movimento con l’idea di bloccare lo Sblocca Italia. Già da stasera e nei prossimi mesi ci daremo da fare per organizzare un movimento “Trivelle Zero – Salviamo l’Adriatico”, in tutta la riviera dal Friuli fino al Salento.
[1] Prefettura di Reggio Calabria, Accesso al comune di Gioia Tauro […] eseguito dal 18 dicembre 2007 al 18 aprile 2008. Relazione, <http://www.genovaweb.org/GIOIA-TAURO-Relazione-Comm-Accesso.pdf>.
[2]Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, a cura di Augusto De Sanctis, <http://www.globalproject.info/public/resources/pdf/Tutti_i_numeri_idrocarburi_Marche_2015_10_06_2015.pdf>.
[3] DM-0000166 del 19/06/2014, Stoccaggio gas naturale in strato denominato San Benedetto Stoccaggio, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/108572>.
[4] Appennine Energy Spa, Permesso “Santa Maria Goretti” – Studio di impatto ambientale, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/125264>.
[5] Mary Kang [et al.], Direct measurements of methane emissions from abandoned oil and gas wells in Pennsylvania, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(51): 18173-18177. doi:10.1073/pnas.1408315111.
[6] Thomas Darrah [et al.], Noble gases identify the mechanisms of fugitive gas contamination in drinking-water wells overlying the Marcellus and Barnett Shales, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(39): 14076-14081. doi: 10.1073/pnas.1322107111.
Tutto fumo… niente arrosto. La controversia sui fumi all’ex cementificio di Sassoferrato
Di Alessandro Pietropaoli
Da Sassoferrato in provincia di Ancona ci arriva una storia di declino industriale e devastazione ambientale che ha molti punti in comune con la storia che abbiamo raccontato nel numero 3, quella dello stabilimento industriale Sacelit di Senigallia. Per giunta, questa vicenda mette in luce la situazione difficile delle aree appenniniche delle Marche, colpite oggi anche dal recente terremoto e da sempre oggetto di sfruttamento e controllo politico da parte dei potentati locali. Tuttavia ci piace anche ricordare che Sassoferrato fu per lungo tempo patria di briganti e repubblicani contro il Papa e poi di anarchici e altri resistenti contro il Re e il fascismo. E domani? Queste montagne ci riservano ancora storie e sorprese.
Sassoferrato, ex cementificio
La vicenda che intendo ripercorrere in questo articolo è quella relativa alla situazione di attuale degrado e abbandono che coinvolge l’area dell’ex cementificio SACIC di Sassoferrato, nell’entroterra sub-appenninico della provincia di Ancona. Una storia, a mio avviso, che assume particolare significato per quanto riguarda la lunga controversia sui fumi di scarico che ha coinvolto la popolazione per più di vent’anni segnando all’epoca una vera e propria frattura culturale. Sono nati cioè in quegli anni temi come l’attenzione alla trasparenza, il rifiuto della monetizzazione della salute, il coinvolgimento di ampi strati della cittadinanza e una nuova concezione dell’ambiente che non separa l’interno dall’esterno della fabbrica. Temi sensibili qui a Sassoferrato che hanno portato poi in tempi più recenti ad opporsi (era il 2009) al progetto di creazione di un termovalorizzatore affidato alla locale filiale della multinazionale Ritrama Spa creando un apposito comitato di tutela ambientale e ai giorni nostri, ad ostacolare la creazione di un impianto mini-eolico da 60 Kwp che l’attuale amministrazione ha deciso di installare sopra la frazione di Montelago nonostante l’opposizione della comunità locale guidata da varie associazioni ambientaliste istituzionali tra cui Italia Nostra e Wwf.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ripercorrere le fasi e le alterne vicissitudini affrontate dallo stabilimento con una particolare attenzione al tema dell’inquinamento e al rapporto creatosi tra vertici della fabbrica, popolazione e autorità competenti.
La nostra storia inizia nel lontano 1909 con la creazione della società facente capo ai f.lli Stella per lo sfruttamento della cava di calcare in prossimità del fiume Sentino per ricavare cemento, calce e gesso. Le fasi di cottura avvenivano in tre forni verticali mod. Dietzch (i cui camini di scarico sono ancora visibili). In quel periodo la produzione giornaliera è di circa 80 t/g con l’impiego di 60 operai. I primi problemi produttivi, però, non tardano ad arrivare. Già nel ’14, causa la modesta entità del giacimento calcareo, si è costretti ad importare da Scheggia il materiale tramite carri trainati da buoi in assenza della linea ferroviaria. Più tardi, nel 1931, dopo un periodo di crisi dovuto a vari fattori (crisi economica mondiale del ’29, bassa produttività dello stabilimento rispetto a quello di Magione-Perugia di proprietà della stessa ditta) cessa l’attività e viene dichiarato il fallimento.
Sassoferrato, ex cementificio
È significativo notare come in tale periodo la chiusura del cementificio sia tra le cause che trascinano con sé anche il fallimento del maggiore istituto di credito locale: la Banca Popolare di Sassoferrato il cui presidente è Ermogaste Stella, Podestà fascista del Comune e cugino dei f.lli Stella del cementificio. Quando viene scoperto che ha concesso tramite la banca “prestiti allegri” allo stabilimento e mai più rientrati, viene espulso dalla sezione locale del partito fascista e il Comune viene commissariato. Dopo la cessazione della produzione, autorità locali e sindacati cercano di coinvolgere altri attori per ripartire e decidono di affidare in affitto la gestione in più riprese a due diversi cementifici che però, ben prima della scadenza naturale del contratto, si sganciano dall’impresa causa scarsa produttività dello stabilimento e crollo sul mercato del prezzo di vendita del cemento. Alla fine subentra la Ditta Papini e poco dopo la società prende il nome di “Società Anonima Cementi Portland Italia Centrale” (SACIC). Alcuni ammodernamenti portano la produzione a 100 t/g e nel ’53 la ditta diviene società per azioni.
Arriviamo così alla fase che ci interessa maggiormente, che è possibile ricostruire tappa per tappa grazie alla corrispondenza presente nel Fondo Albertino Castellucci presso l’Istituto di Storia di Ancona. Le prime rimostranze iniziano nel 1954 (anno in cui viene messo in funzione il nuovo forno verticale automatico) sia da parte degli abitanti delle zone limitrofe che della dirigenza di un vicino pastificio preoccupata della qualità dell’aria esterna da immettere negli essiccatoi per la pasta. Il sindaco dell’epoca, Albertino Castellucci, causa la dispersione di grosse quantità di pulviscolo nell’atmosfera, aggravata anche dall’ubicazione a fondo valle dello stabilimento, si vede allora costretto a sollecitare il direttore del cementificio a prendere, nel minor tempo possibile, provvedimenti per limitare il fenomeno. Da qui prende il via tutta una serie di botta e risposta tra i protagonisti in campo che durerà decenni.
Per Castellucci, pedigree da democristiano di razza con studi medi dai salesiani, diploma da agrimensore e laurea economica, impegnato nelle Acli, in Coldiretti (fondatore sez. Ancona e Sassoferrato) e in Azione Cattolica, la vicenda è particolarmente delicata essendo al primo mandato da sindaco dopo l’elezione del ’51 (rimarrà in carica quasi ininterrottamente fino al ’75 intrecciando la sua biografia politica alla vicenda del cementificio) ed essendo a capo di una giunta mista Dc-Repubblicani abbastanza rissosa. Riuscirà comunque a districarsi nella situazione in maniera egregia con una tattica attendista che gli permetterà addirittura di rafforzare la propria posizione politica di dominio incontrastato grazie anche alle amicizie influenti nel Vaticano e a Roma (dove nel ’58 inizierà l’avventura da deputato divenendo anche sottosegretario).
Sassoferrato, ex cementificio
Nella risposta al sollecito il cementificio si difende dicendo che il pulviscolo è quello tipico di tutti gli altri stabilimenti analoghi e che al momento non può permettersi, per il costo proibitivo, l’acquisto di apparecchiature filtranti ma che anzi è cosa che il vicino pastificio dovrebbe eseguire essendo il cementificio sorto prima. Passa un anno e mezzo e il sindaco, sempre più in difficoltà (si dimetterà da lì a breve), scrive al prefetto per chiedere un intervento risolutivo. Dopo meno di un anno, Castellucci è di nuovo in sella, stavolta con un’alleanza più stabile con i socialdemocratici. La situazione dei fumi intanto rimane irrisolta. Dal ’58, forte della sua presenza al governo nazionale, inizia a drenare fondi da Roma verso il territorio sentinate in anni di veloce ricostruzione e qui, con una forte politica di sussidiarietà e creazione clientelare, crea un saldo consenso. Si parla di più di un miliardo di lire in opere pubbliche. Sono anni di boom industriale per Sassoferrato che all’epoca soffriva di cronici problemi di emigrazione e disoccupazione (basti pensare che nel decennio 1951-1961 la popolazione ha subito un calo del 35%, Fonte Istat).
Dal ’60 al ’64 entrano così in funzione a Sassoferrato otto nuovi stabilimenti tra cui due calzaturifici e la fabbrica Ariston di Aristide Merloni, altro uomo potente della Democrazia Cristian in grado di piegare ai propri interessi imprenditoriali un intero comprensorio da sempre sotto ricatto lavorativo.
Ma torniamo alla nostra vicenda. Nel novembre 1960 un esposto di 150 famiglie tira in ballo il Ministero della Sanità e il competente Ufficio di Medicina della provincia di Ancona che, a seguito di tempestivo sopralluogo, certifica l’irregolarità della situazione e la noncuranza dell’amministrazione del cementificio nel predisporre idonei filtri. La risposta piccata e arrogante del direttore non tarda ad arrivare. Egli mette in dubbio il metodo di rilevamento delle polveri, afferma che se 150 famiglie hanno firmato l’esposto, almeno 1.000 (le restanti) non lamentano problema alcuno e invia una frecciatina al sindaco consigliandogli di rivedere il futuro sviluppo edilizio cittadino che è troppo vicino alla fabbrica. Nel settembre 1961 partono un secondo esposto e nuovi solleciti. Nel Fondo spunta anche una lettera personale di auguri dell’amministratore unico del cementificio al sindaco che viene ringraziato per la partecipazione ad una cena privata organizzata dall’azienda a fine anno, il tutto con un registro di pacifico accordo e con un tono estremamente conciliatorio. Negli stessi giorni, infatti, si tiene la seduta del consiglio comunale (27/12/1961) in cui sono verbalizzate le seguenti frasi pronunciate dal sindaco: “Ho già spiegato che un’azione violenta di rottura con la società non è opportuna; bisogna fare le cose di comune accordo […] sia ai fini della pubblica salute che del turismo; facendo cioè le cose con la massima discrezione possibile per non destare allarme né qui né fuori di qui. […] Dico io di fare un’azione serrata e forte, ma tra di noi e continuiamo a dire che a Sassoferrato si sta bene e non si muore affatto a causa della polvere della cementeria […]”.
Sassoferrato, ex cementificio
Da questo breve estratto si evince tutta la cautela con cui si muove l’amministrazione comunale che intende tacitare l’eco che il caso potrebbe assumere anche fuori dei confini del territorio. In altre parole, quello che preme al sindaco è la difesa del “buon nome” del territorio e non alzare troppo i toni per non accendere eventuali riflettori su una situazione “ambigua” che potrebbe penalizzare l’“afflusso turistico” (peraltro sempre con numeri molto bassi essendo costituito per lo più dal ritorno estivo degli ex emigrati nelle case d’origine) e creare turbative all’equilibrio sociale azzerando il possibile conflitto che cova sempre dietro l’ipocrita facciata piccolo-borghese di presunta tranquillità provinciale.
Intanto passa il tempo… Se ne avvantaggiano giunta e cementificio a discapito della salute della popolazione. Siamo ormai al 1965. Arrivano (con quattro anni di ritardo!) i rilevamenti del ’61 di un altro istituto di analisi che sembrano certificare valori nella norma. Castellucci è rieletto stavolta addirittura con una giunta monocolore Dc (grazie agli innumerevoli aiuti governativi, alla fase di sviluppo economico e alla politica “distributiva” a ridosso delle scadenze elettorali).
Un altro sopralluogo, stavolta dell’Ente Nazionale Protezione Ambiente certifica la non attendibilità delle precedenti raccolte di campioni perché fatte solo in pochi punti senza interessarsi delle diverse granulometrie a parità di luogo di prelievo e consiglia anche di fare un’indagine sull’incidenza di lesioni polmonari.
Una data importante per la nostra storia è quella del 18 giugno 1966 ovvero il giorno di costituzione, ad opera di circa venti cittadini “illuminati”, del Comitato Aria Pulita. Questa circostanza porta inevitabilmente ad alzare i toni e il cementificio minaccia un’azione legale con una lettera di diffida in cui insinua che l’amministrazione comunale agevoli l’azione del Comitato e inizia, neanche tanto velatamente, ad usare il ricatto lavorativo di chiusura dello stabilimento se vi saranno ulteriori intralci. Il Comitato inizia subito un forte pressing sul sindaco affermando che negli ultimi cinque anni i casi di tumore polmonare nel territorio sono stati una quindicina a differenza dei due o tre del precedente decennio.
Finalmente nell’ottobre ’69 una convenzione viene stipulata tra Ministero, Comune e cementeria cui seguono ammodernamenti e un nuovo impianto di filtraggio. Ma la problematica della costante nube che avvolge la parte bassa della cittadina non si risolve anzi, peggiora perché intanto la società aveva costruito un secondo forno verticale automatico (modello particolarmente inquinante ma produttivo; ora il livello di produzione è pari a 200 t/g con soli 30 addetti). Allora nel ’71 la SACIC costruisce un meno impattante forno rotante orizzontale. Poi nel ’73, a seguito di un altro esposto del Comitato, una nuova perizia rileva emissioni nocive notevoli (fino a tre volte i limiti di legge) e irregolarità nel funzionamento dei filtri. Ormai la situazione, dopo venti anni, arriva ad una svolta: il 31/12/1974 la società decide di cessare la produzione spegnendo i forni e trasformando lo stabilimento in sito di deposito con ancora problema di polvere, però, dovuto alle fasi di carico/scarico, fino all’83 quando avviene la vendita degli stabili. Nel 1988 il fabbricato senza i macchinari è acquistato dall’Officina meccanica Pacetti che vi installa un mini-impianto idroelettrico per produzione di energia ad uso proprio e tuttora la situazione è rimasta invariata.
Sassoferrato, ex cementificio
Diversi progetti di riqualificazione e recupero dell’area sono stati presentati negli anni sulla base della L.R. n. 16 del 23/02/2005 che disciplina tali interventi ma né investitori pubblici né privati finora hanno mostrato interesse alcuno come invece avvenuto in altre parti d’Italia dove la possibilità di attrarre capitali in tal senso è più elevata. E lo scheletro fatiscente del complesso attuale, posizionato in zona semicentrale del rione Borgo, non è certo un buon biglietto da visita per l’attuale amministrazione comunale che, consapevole di un ritardo decennale nello sviluppo turistico della zona, sta tentando in questo secondo mandato del sindaco Pesciarelli una forte campagna di promozione turistica con l’aiuto di una società di marketing appositamente creata. Un approccio, però, che vede la valorizzazione turistica necessaria solo se subordinata alla finalizzazione economica del bene archeologico e che non esita a mostrare ai potenziali forestieri solo la facciata “lustrata” per l’occasione del territorio, glissando su fenomeni di disagio, degrado e criticità amplificatisi negli ultimi anni che vengono artatamente occultati e non esitando a rivolgere accuse di disfattismo a coloro che evidenziano tali aspetti.
Infine due considerazioni finali. La prima riguarda l’opportunismo tipico dei “capitani coraggiosi” dell’industria italiana i quali, fino a che esistono fondi, sussidi, sgravi fiscali, politiche di sostegno pubblico all’impresa privata e in fasi di congiuntura economica favorevole, mantengono la produzione e macinano profitti mentre quando questo flusso di denaro si arresta o insorgono complicazioni che richiedono magari investimenti o ricapitalizzazioni spiccano il volo con estrema solerzia verso lidi più “appetitosi”.
La seconda riguarda il titolo dell’articolo. Sentendo un po’ in giro la popolazione locale e visionando foto d’epoca (in cui Sassoferrato in certi giorni era avvolta da una vera e propria nube nera) sono giunto alla conclusione di come sia stata messa in pericolo la salute di decine e decine di cittadini per mantenere in piedi una fabbrica che fin dagli inizi è risultata obsoleta e che ha sempre generato bassi livelli di occupazione. Tant’è che nessuna delle persone che ho avuto modo di ascoltare la ricorda con rammarico, anzi. Qui invece è ancora molto viva e scottante la chiusura per fallimento del calzaturificio Vainer (fabbrica che a metà anni Settanta produceva 2,6 milioni di scarpe e occupava 1.000 operai tra Sassoferrato, Cagli, Gubbio e San Severino Marche), dove fino al 2008 lavoravano 250 dipendenti e salito alla ribalta delle cronache giudiziarie anche per reati di bancarotta fraudolenta, distruzione di scritture contabili e per il licenziamento selvaggio di 41 dipendenti (di cui una trentina donne) nello stabilimento di Serra Sant’Abbondio che aveva riaperto dopo la chiusura di quello sassoferratese con personale ridotto.
Per saperne di più
Per ripercorrere le fasi storiche, il contesto e la cronologia del cementificio, l’opera da consultare è l’ottima Storia del cementificio di Sassoferrato (1909-75) di Renzo Franciolini, gennaio 2016, dispensa autoprodotta. Utile per la controversia fumi è la corrispondenza tratta dal Fondo Albertino Castellucci, presso l’Istituto Storia di Ancona. Per saperne di più sul licenziamento alla Vainer di Serra Sant’Abbondio e sulla sortita notturna natalizia della proprietà per portare via i macchinari, leggere l’articolo del 20/01/2012 tratto da «Rassegna sindacale».
Per ripercorrere la biografia di uno dei protagonisti, ovvero Castellucci, consultare la voce wikipedia e la pagina <http://www.sassoferratomia.it/castellucci.pdf>.
Sassoferrato, ex calzaturificio Vainer
Fusioni aziendali
Di Alessandro Pietropaoli
(ad Arthur Scargill)
«Puntiamo all’espansione nel mercato
anche se
il problema della sovrapposizione di figure professionali…
Abbiamo pronto un nuovo piano di rilancio
anche se
il costo del lavoro resta ancora troppo alto…
Facciamo della solidità finanziaria
un nostro segno distintivo
anche se
di questi tempi è bene che
tutti si faccia un po’ di sacrifici…
Vogliamo che le relazioni coi sindacati siano serene
e che la nostra sia una fabbrica di lavoratori felici
anche se
per i primi tempi i ritmi produttivi
non potranno subire alcun rallentamento…».
Mio padre,
operaio specializzato ora in mobilità,
come tanti altri suoi colleghi,
legge tutti i giorni il dizionario.
Dice che la vita di un uomo
dipende
dal modo in cui padroneggia le parole.
Costruire stando in mezzo alle api
Intervista a Tommaso di Apicoltura Corbecco
L’apicoltura Corbecco è presente da parecchi anni sulle nostre colline. Fa parte del circuito Genuino Clandestino ed è una realtà che riesce a “funzionare” basandosi su una mentalità e un modello organizzativo ben distanti dalla tipica impresa aziendale. Il suo percorso e le sue prospettive si inseriscono nelle sperimentazioni di un modello di economia alternativa al sistema economico dominante, un modello fatto di relazioni orizzontali, reti territoriali e partecipazione. In questa intervista Tommaso ci racconta la sua storia, il legame con il territorio e il mondo agricolo, le difficoltà superate e da superare, la lotta costante ai condizionamenti che il mercato vorrebbe imporre, il concetto di “garanzia partecipata”, i limiti della certificazione biologica e tanto altro.
Tommaso e le api – Foto di Andrea Simonetti
Ci racconti come e quando hai iniziato la tua attività di apicoltore?
Appena quindicenne, dopo aver rubato un saggio sulle api dei primi del Novecento in un banco di libri usati, vengo travolto da un forte interesse e curiosità appassionanti. Io e Alessandra ci cimentiamo con i primi sciami naturali intorno al 2001, dopo che ci era morto il primo alveare acquistato in un impeto di fascinazione. La nostra attività si sviluppa nel contesto del gruppo di acquisto solidale di Pesaro, che è stato uno dei primi Gas della nostra zona. In quell’ambito ho avuto la possibilità di vendere i primi barattoli, che all’epoca erano più che clandestini, e questo mi ha permesso di cominciare a far esperienza e sperimentare il mondo dell’apicoltura senza alcun tipo di ansia imprenditoriale e senza dovermi porre troppi problemi, soprattutto quelli che derivano dall’aprire una partita iva sostenendo costi ingiustificati in quello che, se non si è figli d’arte, costituisce un salto nel buio. Questo fu possibile solo perché ero inserito in una piccola comunità che proteggeva questa mia ricerca personale. Nel frattempo per campare facevo altri mestieri: lavoravo come operaio, poi come imbianchino e poi nei cantieri in bioedilizia.
In seguito questa passione per le api è diventata una cosa importante e richiedeva un sacco di tempo. A un certo punto ci siamo resi conto che se volevamo portarla avanti bene dovevamo dedicarci a pieno. Con grande tranquillità e senza aver idea se fosse un mestiere remunerativo, ho quindi deciso di abbandonare i cantieri per fare dell’apicoltura la mia attività prevalente. Solo più tardi abbiamo aperto l’azienda agricola e abbiamo aumentato i volumi della produzione, sempre un passo alla volta. Non abbiamo mai comprato api ma sempre riprodotto i nostri alveari dandoci il tempo di crescere con loro. Esiste un rapporto tra il volume di miele e il numero di alveari che un singolo apicoltore riesce a produrre e a gestire. Penso che facendo apicoltura biologica il livello a cui siamo noi oggi rappresenta circa questo limite. Questo equilibrio fatto di attitudini e compromessi con il mercato ci consente di tirare fuori un reddito dalla nostra attività, cosa che non è affatto scontata. Un’altra volta magari parleremo delle ore di lavoro necessarie a far quadrare il cerchio e come affrontiamo il problema dell’autosfruttamento…
Su che territorio sono presenti le arnie e che tipologie di miele producete?
Il modo in cui gestiamo gli alveari sul territorio è legato alle modalità con cui abbiamo avviato l’attività. All’epoca abitavamo in affitto in una casa alle Cesane, la zona collinare vicino a Urbino, senza terra e senza possibilità di installare un laboratorio. Infatti lavoravamo il miele in condizioni molto precarie, praticamente in una camera da letto. Non avendo terreni di proprietà e d’altra parte non essendo le Cesane un posto particolarmente produttivo, una nostra caratteristica è stata fin da subito quella di cercare di allargare l’areale. Ci siamo ritrovati a spargere in giro gli alveari presso case di amici e aziende affini praticando un po’ di nomadismo. Questo ci ha dato la possibilità di entrare in profondità nelle caratteristiche dei territori esplorandoli attraverso le api. Ora le sensazioni che mi evocano un bosco, un frutteto o una brughiera arsa sono fortemente condizionate da questa specie di lente deformante che porta occhi compositi come un’ape e da cui dipendono anche gli interessi legati alla botanica.
In particolare abbiamo iniziato a sperimentare i mieli monoflora, in un periodo in cui ancora nelle nostre zone la produzione era quasi esclusivamente concentrata su acacia e millefiori. La scelta di puntare sui monoflora è stata per noi una scelta importante e non casuale in una realtà in cui fino a dieci o quindici anni fa il miele era per tutti quello liquido, tipo Ambrosoli, sempre uguale a se stesso in tutta Italia e in tutte le stagioni. Parlare di monoflora e di differenti cristallizzazioni ci permette invece di veicolare tante informazioni, di mostrare come il miele è un prodotto della biodiversità e profondamente legato al territorio. Noi stessi abbiamo con il tempo scoperto questo mondo e vendendo miele cerchiamo di trasmettere questa esperienza. Oggi mi muovo in un raggio di una cinquantina di chilometri da casa, con una quindicina di postazioni diverse, generalmente presso amici e in aziende agricole biologiche. Non nascondiamo alcune piccole “follie” come un apiario stanziale in Toscana e alcune postazioni in Basilicata, che giustifichiamo perché fanno parte di questa ricerca di sapori.
Louis Masai, street art – Londra, Whitecross Street, particolare
Quali sono le differenze principali tra il tuo miele e quello delle grandi aziende industriali che troviamo in vendita nella grande distribuzione?
Le differenze sono tante, a partire dalla qualità del miele e dal trattamento degli alveari. Di recente si è ricominciato a parlare in modo massiccio di frodi e adulterazioni del prodotto ma, al di là di questi casi estremi, quando si lavora su grandi quantitativi i compromessi sono all’ordine del giorno per massimizzare tempi e profitti. Nella logica industriale questo è del tutto normale; tuttavia sono pratiche insensate dal punto di vista della qualità del prodotto. Per la grande distribuzione si lavora acquistando delle partite e, mettendole insieme per fare dei miscugli il più possibile simili a se stessi, si perde qualunque specificità. Tutto viene omogeneizzato e pastorizzato, per cui si guadagna in stabilità del prodotto ma tantissime proprietà se ne vanno via. Poi c’è tutta la gestione degli alveari. L’apicoltura industriale è un’apicoltura che spreme al massimo la produzione dell’alveare. Io non ho una visione vegana, ma riconosco che per ottimizzare al massimo, l’industria mette in opera un vero e proprio sfruttamento, con costi ambientali anche importanti. Inoltre, come tutta l’agricoltura “convenzionale” anche l’apicoltura vive di chimica, di trattamenti per controllare i parassiti. Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta alle api hanno dato veramente di tutto portando alla situazione difficile che abbiamo oggi, perché il risultato è stato selezionare parassiti e problematiche sempre più virulente e aggressive e, d’altra parte, api sempre più deboli, molto produttive ma anche molto fragili, sempre più dipendenti dall’intervento dell’uomo. Sostanzialmente una catastrofe per l’ecosistema, come tutta l’agricoltura intensiva.
Va però detto che sul nostro territorio l’apicoltura industriale non ha raggiunto livelli come quella statunitense, dove le grandi aziende possono avere anche quindicimila alveari. Da noi si ragiona nell’ordine dei mille al massimo perché l’apicoltura ha, anche storicamente, una tradizione tra virgolette sana. Esiste cioè una costellazione di medi e piccoli produttori che comunque hanno un senso, una storia, che affondano le radici in tradizioni locali. Spesso, quindi, il miele che viene venduto all’ingrosso non è il prodotto di grandi aziende industriali, ma proviene da tante realtà medio-piccole e di partenza avrebbe anche una certa qualità. Poi però il grossista lo rovina lavorandolo e standardizzandolo per commercializzarlo sugli scaffali della grande distribuzione. Anche qui nelle Marche la situazione è principalmente questa. Da un punto di vista esclusivamente economico, visto l’aumento costante del prezzo del miele (la domanda aumenta ed è sempre più difficile produrlo) e i quantitativi importanti che produciamo, a un’azienda come la nostra converrebbe sicuramente lavorare con i grossisti. Tuttavia la scelta di produrre cibo per la gente è obiettivo ben più gratificante dell’incasso di fine stagione o di qualche giorno di ferie in più, per cui ad oggi invasettiamo direttamente per la vendita al dettaglio lasciando al grossista solo le eccedenze. È raro trovare un’azienda delle nostre dimensioni che invasetta così tanto prodotto.
Q Cassetti, Robbing The Hive
Una domanda a bruciapelo: ti consideri un “piccolo imprenditore”?
La mia apicoltura è di tipo artigianale ma può essere assimilabile anche a un’idea di realtà contadina, che va un po’ oltre; l’apicoltore non si limita infatti ad avere delle api e produrre del miele, ma è una persona che è inserita in un contesto di campagna e ha un rapporto diretto con l’ambiente circostante. Detto questo, per forza di cose mi sono trovato a dover fare l’imprenditore, cioè ad essere all’altezza di tutta una serie di richieste e questa situazione la vivo quotidianamente come un importante conflitto interiore. Questo senso di inadeguatezza e una certa consapevolezza sono indispensabili per non caderci dentro. Dentro quella mentalità imprenditoriale che poi porta a fare una serie di scelte che diventano concorrenziali, arroganti, arriviste. In questo è fondamentale non essere soli e circondarsi di un contesto fatto di una socialità vasta, rifiutando di affidarsi ai classici “consulenti” di sistema. Questo aiuta nelle piccole o grandi scelte che ci si trova ad affrontare e che determinano lo spartiacque tra cosa sono e cosa non voglio essere come realtà produttiva.
L’apicoltura inoltre richiede precisione, tempi serrati e una presenza continuativa. La misura è data semplicemente dall’osservazione e dall’imitazione delle api nella loro metodicità e nel loro ritmo di lavoro instancabile. Questo significa ripetizione, ottimizzazione, automatismi, quantità. Potrebbe costituire il seme marcio di una visione eccessivamente intensiva. È indispensabile mettere dei limiti alla crescita e allo sviluppo di un’attività, sostituendo l’industrializzazione con la diversificazione. Siamo anche noi agricoltori biologici e ci occupiamo dell’ecosistema come della persona nel suo insieme. Nella mia vita ho dovuto fare un percorso di decrescita per capire qual è la direzione che voglio dare al mio lavoro e questo, secondo me, fa la differenza con la mentalità dell’imprenditore. In questo ovviamente il passo è stato stabilito con chiarezza dalla presenza costante della mia compagna Alessandra e dalla sua visione femminile nel lavoro. Queste consapevolezze sono diventate concrete grazie all’incontro con Genuino Clandestino, proprio mentre mi stavo chiedendo dove mi avrebbe potuto condurre una logica di tipo imprenditoriale e cosa si può fare concretamente in direzione ostinata e contraria. Ed è stato il momento per capire che il castello che avevo costruito non sarebbe dovuto rimanere esclusivamente una mia proprietà, ma poteva essere rimesso in gioco all’interno di un circuito e diventare volano di altre iniziative.
Così l’apicoltura Corbecco è diventata una società di fatto a cui ognuno contribuisce con il proprio lavoro e con una cassa comune da cui attingere in base ai bisogni individuali. È stato semplice perché per ora siamo soltanto in tre. Il nostro nuovo socio è un compagno con cui abbiamo sempre fatto a metà di tutto, anche quando in tempi più duri non c’era niente da dividere. Abbiamo bisogni simili, 2+3 figli a carico e la musica, lo studio e l’attività politica valgono come le ore di lavoro. Come recita il nostro documento di garanzia siamo una società a sentimento. I lavori di cura, i turni per i pasti piuttosto che l’orto di casa sono parte integrante della nostra piccola economia. Questa impostazione è mutuata dalla vita contadina cui assomigliamo pur rimanendo a cavallo (o in bilico) tra l’essenza rurale e la realtà aziendale. Speriamo a breve di liberare risorse per far partire nuove iniziative e diversificare il nostro lavoro. Formalmente utilizziamo quella che si potrebbe definire una partita iva collettiva che è la forma meno costosa di essere in regola da un punto di vista assicurativo e contributivo. Un salto di qualità determinante sarebbe riuscire a costituire una cooperativa che possa raggruppare e tutelare le attività produttive affini del nostro territorio, mantenendo contabilità separate per quanto riguarda il lavoro e proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
Q. Cassetti – Under the golden light
Prima hai fatto un riferimento a una visione vegana, che non ti appartiene, ma come ben sai negli ultimi anni è emersa con forza una sensibilità antispecista all’interno dei movimenti. L’apicoltura è una forma di allevamento, quindi anche se non raggiunge livelli macroscopici di sfruttamento come nell’allevamento di animali da carne o nella produzione di latte, da un certo punto di vista è comunque una forma di dominio dell’uomo su un’altra specie. Per noi, in redazione, questo è un discorso aperto e con molti punti interrogativi. Tu cosa ne pensi? Quando sei nei mercati hai mai dovuto affrontare le rimostranze degli antispecisti?
Il miele è ancora un prodotto che sta su un confine. Se troppo spesso il vegano, ma soprattutto l’antispecista che non lo fa per scelta personale ma in modo militante, diventa violento nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, verso il miele questa violenza è mitigata. C’è sempre un margine di dialogo e di ragionamento. Se invece fossi un allevatore di altri animali con certe persone non potrei neanche parlare e già questo fa capire che in certi atteggiamenti c’è qualcosa che non va.
Il discorso sullo sfruttamento dell’alveare è un discorso davvero molto complesso. A mio parere non si tratta di una pratica di dominio e non soltanto perché non si pratica l’apicidio ma perché noi, facendo apicoltura, in realtà non facciamo altro che creare le condizioni perché le api possano dare il meglio, cosa che si verifica anche naturalmente in determinate circostanze. Mi spiego: ad una famiglia di api bastano 12 chili di miele per svernare, ma in stagione ne può raccogliere anche 50 o 60. L’apicoltore, con il suo lavoro, contribuisce a fare in modo che questa situazione si verifichi non solo in qualche caso ma che la gran parte delle famiglie di api possa produrre molto più miele di quanto in realtà le serve. In sostanza, si tratta di creare le condizioni per poter prelevare un di più.
L’utilizzo di tecniche particolarmente invasive da noi non esiste, anche se ci sono forme di contenimento tipo la “gabbietta” per le api regine, che è una pratica dal mio punto di vista pesante ma a cui in situazioni di emergenza non escludo di ricorrere. In ogni caso non mi sottraggo a un confronto su questi argomenti che credo andrebbe sviluppato in dei gruppi misti, con la partecipazione anche di vegani o antispecisti, perché non si risolve la cosa con un atteggiamento dogmatico per cui tutti quelli che si occupano di animali sono dei nemici.
Q. Cassetti – Hive Alive
Sui tuoi barattoli di miele c’è il marchio della certificazione biologica. Come ci sei arrivato e che valore gli attribuisci?
Quello è stato un passaggio per me molto importante e molto combattuto. Eravamo in una fase in cui non c’era ancora Genuino Clandestino ma capivamo che i Gas non bastavano più. Bisognava uscire fuori delle assemblee di nicchia in cui si parlava di produzioni virtuose e trovare il modo di proporre un paniere serio e completo, che potesse comunicare con tutti. Da questa esigenza è nata l’esperienza dei negozi a gestione partecipata. Gli empori di Fano e Urbino sono nati dopo tre anni di riunioni in cui un gruppo di produttori, insieme a delle figure che avevano interesse ad investirci, si confrontavano e scontravano immaginando come sarebbe dovuto essere il negozio dell’“altra economia”, rispettoso del produttore, del consumatore e del territorio. L’idea che potessero nascere dei negozi eticamente vicini al mio modo di vedere le cose e di produrre era una prospettiva decisamente attraente.
È stato quindi un percorso stimolante anche se, purtroppo, l’interesse privato alla fine ha prevalso sull’interesse collettivo. Nonostante la prodigiosa buona volontà di chi si è messo in gioco, questi ambienti della cosiddetta economia solidale non hanno assolutamente gli anticorpi sufficienti a isolare le logiche del profitto utilitaristico e quindi di fatto non sono stati in grado di portare avanti quelle che erano le istanze etiche dell’operazione. Questo è accaduto sotto vari aspetti. Uno dei fronti su cui abbiamo perso riguarda proprio la certificazione biologica. All’epoca delle assemblee costitutive io ero in un gruppo di lavoro che cercava di elaborare alternative alla certificazione biologica ufficiale. Ci sono piccoli produttori che lavorano bene ma non hanno le forze di certificarsi e d’altra parte sappiamo che le certificazioni vengono date da società pagate dagli stessi produttori, che fanno le porcate che vogliono. Spingevo invece per far passare una prima forma ancora embrionale di “garanzia partecipata”, proponendo una commissione interna al negozio che valutasse autonomamente i produttori. Al mio fianco c’erano però soggetti che avevano anche loro tutto l’interesse a non voler un negozio con certificazioni bio, ma per motivi opposti ai miei: perché tacitamente lavoravano con metodi convenzionali, con diserbanti nei campi e antibiotici nelle stalle. Alla fine la decisione non è venuta dai gruppi di lavoro, ma è stata la cooperativa che ci metteva i soldi e il rischio d’impresa a stabilire che il negozio sarebbe stato certificato biologico. Per questo sono stato in certo senso costretto a intraprendere anche la strada della certificazione biologica. Quando ho registrato l’etichetta ho messo la fogliolina del marchio bio, ma con a fianco la scritta “aderisce alla campagna Genuino Clandestino”. È una dicotomia stridente, che racconta le contraddizioni e gli sforzi del mio percorso.
Q. Cassetti – Sweet Twins
Intravedi il rischio che anche Genuino Clandestino possa diventare un brand che va ad imporsi su una certa fetta di mercato?
È innegabile che Genuino Clandestino sia un logo incredibilmente attraente e non manca chi ha provato ad avvicinarsi perché aveva interesse a utilizzarlo come un marchio. Io come ho detto vengo dal percorso dei Gas, le mie scelte produttive non sono mai state dettate dalla ricerca del profitto in quanto tale. C’era di fatto e c’è tutt’ora una comunità a cui devo rendere conto, ci sono cioè persone che in me ripongono fiducia. E la fiducia è una cosa seria. Se io adesso penso di aver trovato un compromesso positivo tra la necessità di avere un reddito e le scelte lavorative è grazie al fatto che sono cresciuto in questo mondo. Nel mio percorso, e in quello che sarà di Genuino Clandestino, è assolutamente centrale il sistema di garanzia partecipata, di cui si era già iniziato a parlare nel circuito dei Gas. Citando dal manifesto di Genuino Clandestino: “i sistemi di garanzia partecipata sono lo strumento fondamentale per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative”.
Quando parli di una comunità a cui rendere conto il riferimento va a un contesto di nicchia, mentre l’agricoltura di massa è guidata da altre logiche ed è stata colonizzata anche nell’immaginario dal capitalismo più spinto e dal marketing più aggressivo, basti pensare a quello che è stato l’Expo di Milano. Un movimento come Genuino Clandestino tende a trasformare l’agricoltura dominante o, almeno in questo momento, punta a una specie di secessione, a collocarsi cioè in un ambito dove ci si possa garantire un proprio equilibrio sperando di non essere travolti dalla retorica dell’agricoltura mainstream?
Posto che è difficile per ora capire dove stiamo andando, il desiderio di fondo è creare delle realtà che sperimentino un’autonomia dal sistema, sviluppate su una base territoriale forte e su relazioni quotidiane partendo da bisogni primari come quello del fare la spesa. Sono piccoli embrioni di relazioni economiche alternative, che si basano su regole differenti da quelle del mercato. Posso essere solidale e sentirmi vicino con altri produttori che pur provenendo dal mio stesso percorso hanno fatto un salto grande, indebitandosi e sacrificandosi alle richieste del mercato. Questa di fatto è una sconfitta perché molte avanguardie sono state puntualmente riassorbite dal sistema, per cui alla fine ci si ritrova dentro le contraddizioni da cui si stava scappando. Questa consapevolezza secondo me è un po’ più matura dentro Genuino Clandestino che altrove. Se in ambito RES [Rete di economia solidale] parlare di anticapitalismo è diventato quasi un tabù, viene da chiedersi che fine hanno fatto i nostri alternativi e pionieri del primo biologico.
La realtà dei mercati di Genuino Clandestino che vedo qui in zona fa ancora fatica a ricollegarsi con il mondo agricolo del territorio. Il nostro è un collettivo di compagni con una certa idea dello stare insieme, molto legato anche all’aver fatto delle scelte al di fuori dell’economia ordinaria. In prospettiva c’è il desiderio che il nostro mercato diventi un vero e proprio mercato dei contadini del territorio che sono disposti al confronto e ad autogestire i propri progetti con pratiche assembleari. Non si richiede nessuna appartenenza. Per noi fare politica è esclusivamente la partecipazione. Non abbiamo alcun interesse a farlo diventare un mercato in regola gestito da un qualche organizzatore, perché perderemmo il valore dell’autogestione, dell’assemblea di mercato che elabora un messaggio politico da trasmettere. In questo siamo profondamente diversi da tutti gli altri mercati in città.
Oltre a questo, va detto che un progetto di costruzione di un’economia alternativa non può basarsi solo sul prodotto biologico ed etico ma deve saper conquistare anche gli altri piani autorganizzando il soddisfacimento di sempre più bisogni di beni e servizi. Per fare questo stiamo sperimentando dei rapporti economici fatti di scambi e il meno possibile legati all’euro. Oltremercato ha avviato un laboratorio a livello provinciale che punta a riscoprire le monete sociali con la finalità di tiraci fuori dall’euro in un’ottica mutualistica. Abbiamo delle reti sul territorio che già esistono e che possiamo pensare di tirare fuori dal sistema economico dominante per ricondurle al semplice e diretto incontro tra i bisogni di qualcuno e l’offerta di servizi e prodotti da parte di qualcun altro, in modo multireciproco. Si tratta di chiudere dei piccoli cerchi e almeno provare a fare ragionamenti di questo tipo guardando alle possibilità di un modo di vita che non sia per forza collegato all’economia del debito in cui viviamo oggi.
Per quanto riguarda la realtà di Expo non mi va di entrare in merito. È stato un baraccone mediatico di slogan svuotati di senso a sostegno del modello agroindustriale che combattiamo; ma la vera macchia nera è piuttosto l’Expo dei popoli che ci ha fatto vedere come siano state riassorbite totalmente delle istanze che erano invece nate dalla base. In questo senso dobbiamo fornirci di strumenti adeguati, per non lavorare inutilmente e non regalare le nostre conquiste culturali al potere.
Q. Cassetti – Love Bee Hive
In questo quadro virtuoso di economia alternativa riesce però difficile collocare il modello insostenibile della metropoli moderna. D’altra parte, però, anche il solo fatto di costruire un’economia che seppur circoscritta ha una base resistente è già un passo avanti, è quanto meno un punto su cui appoggiare una leva per tentare una trasformazione radicale della società. Vi siete posti questo problema del rapporto tra campagna e città?
Per l’approvvigionamento anche solo dal punto di vista alimentare della metropoli non abbiamo risposte in questo momento, ma sicuramente è un problema che ci poniamo. Teniamo presente che l’agricoltura industriale, finalizzata al profitto, non solo non è il modo migliore ma è un pessimo modo per produrre cibo, basti pensare al consumo di energia e agli sprechi che genera. Un sistema diverso di produrre e distribuire non è detto che non sia applicabile su larga scala, soprattutto in un territorio come l’Italia dove forse è più attuabile che altrove.
Genuino Clandestino nasce proprio come alleanza tra movimenti contadini e movimenti urbani. Il nostro collettivo, come ognuno dei nodi della rete, nasce tra un gruppo di contadini resistenti e degli attivisti di un centro sociale di città, intorno a dei progetti da una parte legati all’agricoltura e dall’altra all’attività politica sul territorio. Non è una problematica ma il nostro punto di forza, la centralità del rapporto tra campagna e città è stata ben presente fin da subito. Accanto a Genuino Clandestino, c’è una realtà come Ri-Maflow di Milano e il progetto “Fuorimercato” che stanno cercando di mettere in piedi: una piattaforma di logistica per risolvere il problema dell’approvvigionamento di cibo in città. Questo significa che ci si sta provando anche in contesti metropolitani e che anzi questi costituiscono uno stimolo ad organizzarsi per i nodi più periferici.
Se noi pensiamo di voler nutrire il mondo con l’agricoltura contadina bisogna che iniziamo a darci questi strumenti. Rifiutando la delega e il controllo, attraverso l’autodeterminazione dei territori cominciare a riorganizzare strati di società in un’ottica integrale[1] e autogestionaria.
Q. Cassetti – Lemniscatic Dance
[1] Il concetto di cooperazione integrale è stato sviluppato inizialmente da una parte del movimento cooperativo e autogestionario catalano in questi termini: “una cooperativa integrale è uno strumento per costruire un contro-potere di base autogestito, auto-organizzato e con democrazia diretta. Questo strumento può aiutare a superare l’attuale stato di totale dipendenza dalle strutture dei sistemi e degli stati, attraverso uno scenario di totale libertà e in cui ciascun individuo può svilupparsi con condizioni paritetiche e pari opportunità”. Dal sito <http://cooperativa.cat/it/che-cose-la-cic>.