Il governo francese ha appena avviato la procedura di “scioglimento” per il movimento Soulèvements de la Terre.
Ma ciò che cresce ovunque non può essere dissolto.
Soulèvements de la Terre ha rilanciato.
La rete è più viva che mai. Nuovi sollevamenti crescono ovunque, in difesa dei territori e del nostro futuro.
Tutta la nostra solidarietà.
Qui sotto il loro più recente comunicato.
Il 21 giugno, in consiglio dei ministri, il governo ha avviato la procedura di scioglimento di Soulèvements de la Terre. Dopo averci tirato in faccia le sue granate, ora sostiene che non abbiamo più il diritto di esistere insieme e di organizzarci. Il governo sta cercando di dissolvere un sollevamento con tutti i mezzi che ha a disposizione – anche arrestando gli/le attivisti/e nelle loro case, come è successo il 20 giugno.
Dai sinistri uffici di piazza Beauvau, questo scioglimento si prefigurava come una mannaia. Doveva essere la fine della storia. Eppure le voci che si diffondono nel Paese, dove le speranze ancora germogliano, raccontano una storia diversa. Sussurri contagiosi e innumerevoli slanci di solidarietà ci ricordano che i peggiori attacchi a volte producono rovesci inaspettati.
E se questo scioglimento fosse in realtà un invito ministeriale a unirsi in un grande movimento di resistenza? Una rete che vanta già 110.000 membri, 180 comitati locali e tante persone impegnate nella vita pubblica, nei collettivi e nei sindacati. Un movimento che si pretende di vietare ma che è collettivamente inarrestabile, preso di mira dalle autorità ma radicato nei territori, presente nei luoghi di lavoro e nelle scuole, nei fienili e negli scantinati, fino al cuore delle amministrazioni. Il governo sosteneva che saremmo scomparsi, in realtà diventiamo ogni giorno più visibili.
Il 1° maggio, in attesa di salutari sommosse e scioperi generali per fare “come in Francia”, qualcuno di noi ha partecipato alla manifestazione nazionale di Pesaro contro la costruzione di un biolaboratorio di “alta sicurezza” (ovvero di “alta pericolosità”) dell’Istituto zooprofilattico sperimentale Umbria-Marche, che è solo un tassello nella rete di nuovi biolaboratori previsti in Italia. Circa 8.000 le presenze, in larga parte provenienti dai movimenti contro il green pass; qualche influencer del dissenso sul palco ad arringare follower dall’età media decisamente alta, un crescendo di condivisioni social di immagini e video e un corteo silenzioso sfilato nel deserto della periferia. Eppure, nella ridondante e a tratti fumosa accozzaglia di discorsi (rivolti al popolo che – anche giustamente – non si fida dei poteri forti) c’è un nucleo di argomentazioni che nutrono la critica sociale e che hanno portato diversi anarchici ed ecologisti radicali a manifestare a Pesaro.
È necessario mantenere lucidità di analisi e capacità di adattare i propri paradigmi di pensiero alla veloce evoluzione del contesto contemporaneo, se vogliamo decifrare una società assediata dalle nocività e dai danni del suo stesso sviluppo, che tenta di difendersi accelerando la corsa senza limite delle biotecnologie, medicalizzando ogni aspetto della sua misera esistenza, puntando non solo a controllare ma a manipolare le basi della vita. Dietro a tutto questo non c’è la promozione della “salute”, ma le logiche di potere e di profitto, la lunga mano della ricerca militare, la visione di un’umanità sempre più dipendente dalle tecnologie, sempre meno in equilibrio con il pianeta che la ospita, sempre meno capace di autonomia nel suo stare al mondo, confinata a una vita controllata e sicura, a misura di stabulario.
Pochi giorni dopo, il 6 maggio, mentre stavamo chiudendo il numero, l’iniziativa del movimento femminista e transfemminista Non una di meno ha portato in piazza ad Ancona più di 2.000 persone per denunciare lo schifo del “modello Marche” di applicazione delle politiche anti-abortiste e bigotte della destra di governo. Dai soliti noti della sinistra di palazzo, fino ai Centri sociali delle Marche, c’erano proprio tutti/e, ma mentre il corteo colorato e giovane arrivava sotto la statua dell’imperturbabile conte Cavour, poche centinaia di metri più in là i padroni della città gongolavano protetti da tutto l’arsenale della questura anconetana. E, due giorni dopo, il centro cittadino ha ospitato festante il comizio di Meloni, Salvini e Tajani a sostegno del candidato del centro-destra. Una città forse troppo al passo con i tempi, quelli cupi.
Ieri (07 maggio) a Kiev, in una località che è stata tenuta segreta per motivi di sicurezza, si è svolta la commemorazione di tre volontari internazionalisti caduti in combattimento a Bakhmut il 19 aprile, quasi impercettibili tra le centinaia di vite che vengono falciate ogni giorno dalla guerra sul lato ucraino e russo.
Questi tre uomini hanno però un significato particolare perché raccontano una storia minoritaria ma per noi molto importante all’interno della tragedia in corso. Dmitriy «Leshy» Petrov, Finbar «Chia» Cafferkey e Cooper «Harris» Andrews erano tutti e tre internazionalisti e attivisti antifascisti nei loro paesi. La piccola celebrazione in forma privata ha coinvolto decine di attivisti ucraini e di altre nazionalità, insieme ad alcuni familiari giunti dall’estero per l’occasione.
A Kiev dall’inizio della guerra esiste infatti una piccola ma resiliente rete di volontari/e, attivisti/e, militanti che nonostante e contro le difficoltà della guerra lottano per l’emancipazione sociale, sostengono lotte sindacali, forme di mutuo appoggio, forniscono sostegno materiale ed emotivo alle vittime della guerra e mantengono viva una elaborazione politica critica verso la società ucraina mentre al tempo stesso partecipano alla sua difesa. La cerimonia è stato un momento di emozione intensa, in cui sono emerse le biografie di questi uomini che nel momento della morte hanno mostrato controluce le aspirazioni, le passioni, le difficoltà di milioni di esseri umani che lottano per la liberazione in questo mondo in fiamme.
La propaganda russa anche in Italia sta tentando in questi giorni, inutilmente, di infangare il loro nome e la loro traiettoria di lotta con fantasiose ricostruzioni che raccontano una inesistente collaborazione o subordinazione alle forze neonaziste ucraine. Chi conosce la storia, l’etica e la pratica di questi compagni caduti o chi si sia preso il disturbo di passare anche solo qualche giorno in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo capisce che quelle che circolano sui canali filorussi sono solo manipolazioni e infamie.
Tuttavia è importante fermarsi a raccontare e approfondire la storia e il profilo di questi attivisti perché essi mostrano una ricchezza umana, un coraggio e una capacità di visione del futuro che dobbiamo difendere e rafforzare nella nostra pratica quotidiana. Nelle loro biografie, infatti, la guerra non appare come un valore in sé o come qualcosa da celebrare, ma come un elemento tragico e inevitabile nei conflitti per l’emancipazione delle classi subalterne. C’è un filo rosso che unisce le lotte nelle metropoli degli Stati Uniti e della Russia, nelle campagne dell’Irlanda e del Rojava, con quello che sta succedendo oggi sul fronte est dell’Ucraina.
Il 26 marzo scorso nella località rurale di Sainte-Soline si è svolta una grande azione di protesta del movimento Soulèvement de la Terre contro un progetto di costruzione di un mega-bacino artificiale e di privatizzazione delle acque agricole.
La violenza della repressione ha sconvolto la Francia, già attraversata da manifestazioni molto radicali. Perché lo Stato ha difeso un buco coperto di plastica lanciando più di 5.000 granate (potenti più di una bomba carta) ferendo centinaia di persone di cui due gravemente?
Perché, nonostante questo, le proteste continuano e il sostegno popolare a pratiche radicali di sabotaggio ecologista sta crescendo?
I nostri amici di Lundimatin hanno pubblicato otto pagine di una relazione dei SRCT, l’equivalente della nostra Digos, che spiegano perché lo Stato teme Soulèvement de la Terre: perché funziona!
Spesso le parole dei nostri nemici sono in grado di descrivere meglio di tanta retorica “dei compagni” lo stato di salute di un movimento sociale, nella misura in cui esso è in grado di svolgere la sua necessaria e per noi benefica funzione di minacciare l’ordine costituito.
Con questo testo vogliamo aprire una sezione di approfondimento su quello che sta succedendo in Francia e sulle possibilità di relazione e di apprendimento – quanto mai necessario – per le lotte territoriali in Italia.
Stando alle dichiarazioni del ministro dell’Interno Gérald Darmanin, lo scioglimento di Soulèvements de la Terre sarebbe giustificato dagli «eventi inqualificabili» che si sono verificati a Sainte-Soline e «dall’estrema violenza di gruppuscoli che sono nel mirino dei servizi di intelligence da molti anni».[1] Tuttavia, un rapporto del Service central du renseignement territorial in riferimento a Soulèvements de la Terre getta una luce completamente diversa su questo annuncio. Leggendo infatti questa nota confidenziale sorprendentemente elogiativa si capisce che al di là del pretesto della violenza, se il ministro cerca di sciogliere il movimento, è perché questo ha successo!
In che senso ha successo? Il nocciolo della questione è questo: attraverso una serie di analisi elogiative che fanno riferimento alla capacità di federarsi, di uscire dal letargo politico e di avere un impatto reale sui progetti distruttivi per l’ambiente, ci viene spiegato in otto pagine che il problema fondamentale con questo movimento è che invece di fare la sua bella contestazione entro i limiti stabiliti riesce ad incidere in campo politico. Ciò che il governo indica, facendo seguire a questa nota di intelligence un tentativo di scioglimento, è che per lui, d’ora in poi, qualsiasi opposizione efficace che intralci le sue politiche – e quelle delle lobby finanziarie e industriali che lo sostengono – deve scomparire. Sciogliere tutta l’opposizione, anche se ciò significa farlo in un bagno di sangue prima di raggiungere i meandri dei tribunali.
Al di là di questa trasparente visione delle motivazioni del governo, il compitino scritto da un sociologo di polizia sfidato dalla vivacità del suo soggetto risulta tuttavia falsato dalla manifesta incapacità di percepire il movimento per quello che realmente è. Invariabilmente, tutto ciò che è effervescenza, rete, coalizione viene ridotto – per meglio incriminarlo in seguito – alla supervisione di un gruppo dirigente. Soprattutto, è necessario dare l’impressione che le persone e i gruppi che agiscono siano guidati solo da motivazioni fredde e strumentali e che vogliano opportunisticamente dirottare la causa ecologista e contadina verso una ricerca puramente astratta di motivi di scontro e violenza. Ma come stupirsi che dei funzionari, che scrivono dalle loro scrivanie al servizio di un governo che si ostina a distruggere terre coltivabili, foreste, fattorie, fiumi ecc., non riescano a capire e ad afferrare quel che viene difeso e costruito, i legami, la solidarietà e le gioie che ne derivano? Non sorprende nemmeno che gli autori del rapporto riducano tutto il fermento politico locale e decentralizzato, a cui Soulèvements de la Terre fa da eco e da catalizzatore, al rigido assetto verticistico che è il solo che conoscono.
Al di là della povertà delle loro analisi, è chiaro che se negli ultimi due anni folle crescenti non si sono accontentate di marciare ma hanno cercato gesti diretti per bloccare cantieri, per impedire il saccheggio dell’acqua o dei terreni, è perché si avverte un’urgenza vitale di agire. Tentativo di dissoluzione o meno, repressione brutale o meno, questo senso di urgenza non potrà che aumentare finché i decisori politici continueranno a promuovere infrastrutture che incarnano una violenza ecologica e sociale che molte persone hanno ormai scelto di affrontare.
Il 30 marzo, il quotidiano “Le Monde” ha pubblicato un articolo intitolato Nous sommes les Soulèvements de la Terre in cui decine di attori/trici, artisti/e, parlamentari e scrittori/trici hanno rivendicato di far parte del movimento. Attualmente conta più di 20.000 firme.
Liberamente tratto da “Superintelligenza” di Nick Bostrom
ChatGPT è in pieno sviluppo. Dove arriverà? Molti scienziati stanno già mettendo in guardia sui possibili imprevedibili sviluppi dell’Intelligenza artificiale. Un’intelligenza che può crescere in maniera esponenziale, al di fuori dei limiti di un cervello biologico.
Senza dover diventare specialisti delle nuove frontiere della ricerca tecnologica, sapere in che direzione stanno andando le sue strade ci permette di comprendere le logiche che la sottendono e intravedere gli sviluppi futuri, motivando la nostra critica che, prima di essere tecnica, è sociale e politica.
Per capire cos’è l’Intelligenza artificiale – che non è solo ChatGPT, ma ben di più – pubblichiamo degli estratti dal libro “Superintelligenza” di Nick Bostrom (Bollati Boringhieri, 2018; ed. originale: 2014). L’autore non è certo un rivoluzionario luddista, il contrario. È un filosofo e scienziato di origine svedese, che è stato a lungo uno dei principali sostenitori del potenziamento umano, fondatore della World Transhumanist Association, direttore del Future of Humanity Institute. Insomma, tutto meno che un nostro compagno di strada. Bostrom però, con la sua profonda e non acritica conoscenza dell’argomento, riesce a descrivere in maniera chiara e divulgativa tematiche di grande complessità e a mettere in guardia sulle nubi minacciose che si addensano all’orizzonte.
Il pericolo che il genere umano corre con lo sviluppo artificiale delle superintelligenze è di portata esistenziale, perché in mano ad apprendisti stregoni incapaci di fermare gli spiriti che stanno evocando.
L’articolo è lungo, mettetevi comodi.
Le vie per arrivare alla superintelligenza
Per il momento le macchine sono di gran lunga inferiori agli esseri umani quanto a intelligenza generale, tuttavia un giorno saranno superintelligenti, cioè dotate di un intelletto che supererà di molto le prestazioni degli esseri umani, in tutti i campi. Come arriveremo a questa situazione futura? Iniziamo esplorando le diverse strade che possono portare l’umanità allo sviluppo di una superintelligenza: l’Intelligenza artificiale è solo una tra queste.
Nelle ultime settimane, il coraggio e la creatività delle proteste francesi hanno generato nel pubblico italiano un misto di vergogna e incredulità. Ma come, noi ci siamo fatti fregare e mazziare per anni senza dire niente e questi fanno il diavolo a quattro per molto meno?
Inutile insistere sulla corruzione dei nostri sindacati confederali, sulla viltà di chi ancora usa lo spauracchio di Genova 2001 per giustificare la sua passività rispetto alla violenza della polizia o su fantasmagoriche ricostruzioni storiche o antropologiche sulla diversità dei francesi rispetto al presunto carattere subalterno dei popoli mediterranei.
“Chi parla male, pensa male, vive male”, diceva bene uno che di vivere male nello stagno della sinistra italiana se ne intende.
Allora è meglio ascoltare direttamente le parole, nate da una pratica arricchita da un dibattito politico e culturale sincero, che sorgono dal fuoco delle lotte.
E provare a imparare qualcosa perché ne abbiamo estremo bisogno.
Dopo l’annuncio del ricorso all’articolo 49.3 – che ha permesso l’approvazione della riforma delle pensioni senza il voto parlamentare – la mobilitazione contro tale riforma si è riaccesa. Scioperi, blocchi, manifestazioni diurne e marce notturne si moltiplicano e si rafforzano. Con una preoccupante fuga in avanti, il governo di Emmanuel Macron ha scelto di intensificare la sua brutalità. Nelle strade le squadre di polizia sono in agguato, intimidiscono, colpiscono, arrestano e feriscono. Ogni giorno i social network diffondono nuove spaventose immagini di abiezione da parte della polizia, e qualcuno si ostina ancora a incolpare le solite “mele marce”. In realtà, il governo lascia al movimento solo due opzioni. La prima, quella che il potere desidera, consiste nel tornare tutti a casa, più o meno terrorizzati ma sicuramente sconfitti. La seconda opzione sta nel rendere più articolata l’azione di piazza, mettendo in campo nuovi metodi e strategie per evitare la violenza e approfondire la solidarietà. Questo testo propone alcune strade in questo senso.
Questioni
Dopo aver fatto una coraggiosa apparizione in diverse città il 7 marzo, prima di eclissarsi parzialmente l’11 e il 15 dello stesso mese, il Cortège de tête [testa del corteo in cui, dal 2016, hanno iniziato a ritrovarsi militanti radicali decisi ad alzare la conflittualità e rispondere alla repressione, insieme ad altre, eterogenee, componenti][1] ha fatto irruzione nelle grandi città il 23 marzo, alimentato, arricchito e rinfocolato da una settimana di continue manifestazioni selvagge, in particolare a Parigi, dove la prospettiva di andare fuori dal percorso stabilito ha galvanizzato i manifestanti. La giornata di giovedì 23 marzo ha smentito la contrapposizione tra modalità selvaggia e modalità de tête, ponendo l’articolazione strategica delle due forme come sfida per la settimana successiva.
L’obiettivo di questo articolo non è quello di passare in rassegna tutte le implicazioni della giornata del 23 – altri probabilmente lo faranno meglio – ma di avanzare una proposta per contribuire all’articolazione di queste due modalità.
Dalla rivista ecologista “Do or Die” [da Rivista Malamente #27, dic. 2022. Scarica il PDF]
Cosa accadrebbe se un giorno venissero abbandonate le metropoli? Se quegli spazi coperti di asfalto e cemento, brulicanti di umani e merci, alimentati da combustibili ed elettricità, soffocati dalle loro scorie, fossero di punto in bianco liberati dalla virulenza dei loro abitanti? Questo articolo – tratto dalla rivista ecologista “Do or Die” (n. 10, luglio 2003), tradotto in opuscolo da Istrixistrix e qui riproposto con una nuova revisione – traccia con una qualche attendibilità scientifica le tappe e i passaggi che segnerebbero nei decenni e secoli successivi all’abbandono la riconquista del territorio da parte delle forze naturali. In fondo, nella vita del pianeta, la nostra specie è solo di passaggio. Quello che ha edificato cadrà e, prima o poi, perfino le macerie saranno spazzate via.
«L’inferno è una città molto simile a Londra» scrisse Shelley due secoli fa. Ma non è sempre stato così. Prova a immaginare un periodo dieci volte più lontano nel passato dell’epoca di Shelley, quando il panorama in Parlament Square era molto diverso. Là dove ti trovi adesso, un grazioso ruscello scorre giù dalle colline di Hampstead. Proprio di fronte ci sono le sponde piene di canneti dei meandri del Tamigi. Sulla destra, dove verrà eretta l’Abbazia di Westminster, c’è Thorney Island [Isola Spinosa], chiamata così per l’abbondanza di rovi selvatici. Dietro c’è la quiete dei campi contornati da salici. Ancora un migliaio di anni fa, quando Edoardo il Confessore la stava prendendo in considerazione come sito per la sua grande abbazia, Thorney Island era un posto tranquillo e rustico. «Un luogo delizioso, circondato da terre fertili e campi verdi», scrisse un monaco nella sua biografia di Edoardo. È possibile far tornare indietro l’orologio, e che Londra sia di nuovo un paradiso silvestre? Se hai mai nutrito il desiderio di vedere il traffico svanire, gli edifici crollare e le colline e le valli di Londra di nuovo piene di fiori, di alberi e del canto degli uccelli, non sei solo. Verso la fine dell’Ottocento il naturalista Richard Jefferies era così disgustato dalla sporcizia della capitale da scrivere After London, romanzo in cui i londinesi si estinguono in modo misericordioso e la città ritorna rapidamente a essere una palude. Ma cosa accadrebbe realmente se Londra tornasse alla natura? Supponiamo che questo fine settimana i londinesi fuggano in seguito a un incidente nucleare tipo Chernobyl. O che le notizie della sera annuncino che è stato rilasciato un virus geneticamente modificato, come nel film 28 Days Later. Oppure, che improvvisamente i londinesi si sentano così male a causa della vita in città da seguire il consiglio di Shelley e fuggire «verso i boschi selvaggi e le colline erbose». Quanto impiegherà Londra abbandonata per tornare a essere un paradiso rurale? In che modo la natura prenderà il controllo?
Recensione a: Andrea Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Laterza, Bari- Roma, 2022
di A. Soto
L’autore è uno dei maggiori studiosi della storia contemporanea russa. Legge il cirillico, ha studiato e insegnato tra Stati Uniti, Russia ed Europa ed è autore, tra l’altro, di una storia dell’Unione Sovietica 1914-1991 uscita per il Mulino tra il 2007 e il 2008.
Di orientamento democratico liberale, vicino al mite progressismo di Giuliano Amato, col quale ha scritto un libro, è uno degli intellettuali più informati sulla situazione russa, qui passata attraverso il vaglio dell’analisi storica. Questo suo testo, che collaziona interventi e studi degli anni precedenti aggiornandoli alla luce della guerra, a mio avviso dà utili coordinate interpretative, anche se è scritto in maniera non sempre brillante e non è lineare nella sua struttura. Inoltre offre conferme riguardo alla lettura della guerra come frutto dell’imperialismo russo, fornendo ulteriori elementi di approfondimento a riguardo.
Prendiamo il toro per le corna e, data la presa in Italia del discorso putiniano, sul fatto che sarebbe stato il mancato rispetto delle promesse fatte di non allargare la Nato a oriente a costringere Mosca a scatenare la guerra, Graziosi ci ricorda che:
non si tratta di promesse ma di discorsi informali sul possibile futuro di una Germania riunificata tenutisi all’inizio del 1990 tra diplomatici sovietici e americani;
il 5 dicembre 1994 Mosca firmò con Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina il trattato di Budapest, un impegno questo sì formale e solenne a non violare, e anzi a garantire, i confini di quest’ultima in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione e del trasferimento graduale di più di 4.000 testate nucleari dall’Ucraina alla Russia;
che la Nato non costituisse una minaccia, per di più crescente, è confermato dai fatti: per preparare l’invasione dell’Ucraina la Russia ha ammassato truppe ai suoi confini per mesi; al contrario, i 315.000 soldati americani in Europa nel 1989 erano diventati 107.000 nel 1995 e circa 60.000 nel 2006 rimanendo su questo livello fino al 2021.
Redazione, Rivista Malamente n. 28 (marzo 2023) Per acquistare la copia cartacea o abbonarsi alla Rivista: Rivista Malamente 28 – Edizioni Malamente Giudici della giustizia… Read More »Ridateci la forca!
Su Rivista Malamente, a fine 2019 (n.15), abbiamo pubblicato una intervista Danilo e Valentina, due compagni anarchici che hanno vissuto un lungo periodo di detenzione preventiva, in regime di Alta Sorveglianza, nell’ambito del processo Scripta Manent (assolti in primo grado e in appello). Il processo, per il quale Alfredo Cospito rischia ora l’ergastolo ostativo in regime di 41bis, fa riferimento a una serie di attacchi firmati da diverse sigle collegate alla Federazione Anarchica Informale. Ci siamo fatti raccontare alcune impressioni sulla loro esperienza di carcerazione, anche perché spesso chi è “fuori” non si rende conto fino in fondo cosa voglia dire stare “dentro”, soprattutto in sezioni ad Alta Sorveglianza come quelle dove il potere rinchiude gli anarchici e le anarchiche.
Voi siete stati reclusi in sezioni AS2, cioè sezioni ad alta sorveglianza destinate unicamente agli arrestati per terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Una distinzione che viene storicamente fatta nelle carceri è quella tra detenuti “comuni” e detenuti “politici”: quanto è profonda questa separazione e come l’avete vissuta nella vostra esperienza?
Danilo: La differenziazione nasce proprio con l’intento di non creare un contatto tra detenuti cosiddetti “comuni” e prigionieri politici della guerra sociale, della lotta di classe.
Io posso fare un ragionamento anche in rapporto alla precedente esperienza carceraria che abbiamo avuto, nel 2005. Allora non esistevano le sezioni AS2 ma c’erano le EIV (elevato indice di vigilanza), che in teoria comportavano lo stare separati dai “comuni”, ma in Italia le sezioni EIV erano solo un paio quindi si finiva solitamente in una sezione AS; all’epoca l’alta sorveglianza era unica, non differenziata come adesso in AS1 (per gli appartenenti alla criminalità organizzata declassificati dal 41 bis), AS2 (per i “politici”) e AS3 (per le organizzazioni criminali comuni legate allo spaccio). Questo significa che essendo sottoposti a regime a elevato indice di vigilanza, ma all’interno di una sezione AS, si finiva insieme a prigionieri legati alle associazioni a delinquere organizzate, a spacciatori internazionali, etc., non era proprio un rapporto col grosso dei prigionieri “comuni”, ma c’era comunque un minimo di interazione con altri detenuti che non fossero politici. Ora non è più così, nelle sezioni AS2 ci si ritrova in un numero esiguo, in cinque, sei, sette compagni per sezione, senza nessun contatto con i “comuni” e con tutta una serie di restrizioni pratiche. La sezione AS2 è organizzata e gestita proprio per questa tipologia di prigionieri, per anarchici e comunisti.