Pupi, pupazzi, poesie e un’avventura

di Redazione [QUI il PDF]

Marionette e burattini sono qualcosa che tutti/e ricordiamo di aver visto almeno una volta nell’infanzia. La semplicità del teatro di figura è la sua forza, e come uno specchio ci ricorda che dietro ogni maschera ci sono forze che la controllano. Questa visione sembra negare radicalmente l’autonomia dei personaggi e rimanda ai peggiori incubi cospirativi, eppure la visione catartica del teatro fa ridere, piangere, incazzare, commuovere e, toccando la nostra sfera emotiva, insegna piccole e grandi verità. Così fanno le storie del Teatrino Pellidò di Ancona, che vi raccontiamo con un’intervista al burattinaio Vincenzo Di Maio.

Ben altri pupazzi comandano la regione Marche. Una banda di neofascisti, omofobi, antiabortisti e ultracattolici che stiamo imparando, nostro malgrado, a conoscere e siamo talmente schifati che in questo numero non riusciamo neanche a parlarvene. Accogliamo però una breve riflessione dal Molise e raccontiamo l’esperienza abruzzese del Campetto occupato di Giulianova, attualmente sotto minaccia di sgombero. Un altro spazio di autogestione che ci piace sostenere (e ci ripromettiamo di raccontare in un prossimo numero) è Casa Galeone, nelle campagne maceratesi, che sta cercando di superare una delicata fase di assestamento per proseguire il suo percorso partecipativo, orizzontale e autogestionario del lavoro e della vita di gruppo.

Abbiamo poi storie di partigiani, di librerie indipendenti e continuiamo a parlare di Intelligenza Artificiale nel mondo che verrà e di come declinare, qui e ora, la tensione rivoluzionaria.

A partire da questo numero, inoltre, proveremo ad avvicinarci alla poesia, dedicando un nuovo spazio di dibattito a una materia che spesso è dimenticata o ci sfugge.

Ci siamo chiesti e chieste che cos’è la poesia e cosa può aggiungere a Malamente che è già una parola dalle tante accezioni e un avverbio resistente, per chi lo sa apprezzare. Proveremo a capirlo insieme, nel corso delle uscite, seguendo il nostro fiuto, l’ispirazione e il ritmo dei versi. Come quelli di Franco Scataglini, che ci raccontano di un dialetto che non si è estinto e di una poesia che può essere la voce di chi voce non ha.

Oltre a tutto questo, è arrivato il momento di presentare il nostro nuovo progetto. Dopo mesi di lavoro dietro le quinte, possiamo finalmente annunciare che stanno per nascere le Edizioni Malamente. Dall’esperienza e dalle complicità che andiamo costruendo dal 2015 con questa rivista, abbiamo raccolto la giusta dose di coraggio e voglia di fare qualcosa in più per continuare a essere uno strumento di critica sociale e agitazione culturale.

logo edizioni malamente

A partire dall’autunno 2021 pubblicheremo i primi titoli che potrete trovare sul nuovo sito edizionimalamente.it e sui nostri consueti canali di distribuzione, ma che potrete ordinare anche in qualunque libreria, indipendente o di catena. Inizieremo con un testo quanto mai adatto a questi tempi: Mutuo appoggio. Costruire solidarietà durante questa crisi (e la prossima), di Dean Spade, realizzato in collaborazione con le Brigate Volontarie per l’Emergenza. Seguirà Breve storia dei gas lacrimogeni di Anna Feigenbaum, di cui pubblichiamo qui, in anteprima, l’introduzione francese di Julius Van Daal. Entrambi i titoli sono inediti in Italia e speriamo possano essere l’inizio di una nuova bella avventura.

Conoscenza, condivisione, solidarietà e lotta continuano a essere i punti cardinali sulla nostra bussola, ma sarà soprattutto la possibilità di incontro con lettori e lettrici che renderà utile e speciale questo viaggio.

Il giuramento del partigiano Wilfredo

Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alfredo Antomarini [QUI IL PDF]

Wilfredo Caimmi (Ancona 1925-2009) è stato un partigiano comunista. Uno dei tanti giovani che appena diciottenne scelse di stare dalla parte giusta e salì in montagna a combattere il nazifascismo; successivamente insignito della medaglia d’argento al valore militare. Nel novembre del 1990 fu al centro di un clamoroso fatto di cronaca di rilievo nazionale: ce lo racconta in questa intervista Alfredo Antomarini, amico e compagno di Wilfredo, che nel libro “Ottavo chilometro” (Ancona, il lavoro editoriale) ha ricostruito insieme a lui la storia partigiana di Caimmi e dei suoi compagni.

L’intervista – in uscita su Rivista Malamente n. 22 (luglio 2021) – è stata raccolta poche settimane prima che Alfredo Antomarini, per tutti Edo, ci lasciasse improvvisamente, il 17 giugno 2021, dopo una breve malattia. [Nota della redazione]

Alfredo Antomarini

Possiamo raccontare come Wilfredo diventa antifascista e i suoi primi passi da partigiano?

Wilfredo nasce ad Ancona nel 1925, dunque nel 1943 è diciottenne, l’età considerata idonea dall’organizzazione clandestina per essere destinati alla resistenza armata. Al di sotto di questo limite non si reclutavano combattenti, tuttalpiù gappisti, con funzioni di supporto.

L’episodio che fa diventare Caimmi antifascista è legato al periodo del liceo scientifico. A scuola era piuttosto bravo, aveva ottimi voti. Frequentava il primo anno. Un giorno un professore indica due studenti, li invita a mettersi in fondo alla classe e comunica loro che da domani non dovevano venire più a scuola. Visto che non avevano compiuto nessuna cattiva azione, Wilfredo alza la mano e chiede le ragioni di questa decisione. Il professore irritato lo invita a non intromettersi e comunque afferma perentoriamente che, essendo ebrei, lo Stato vietava loro la frequentazione scolastica. Di fronte alla contestazione il preside convoca il padre di Wilfredo e rimarca l’atteggiamento indisciplinato del figlio, che da quel momento diventa antifascista.

Il fatto non sfugge all’organizzazione clandestina partigiana attenta a qualunque segnale che potesse indicare dei giovani da cooptare, soprattutto i ragazzi che facevano vita di strada, anche svelti di mano. E così Wilfredo e altri suoi amici, divenuti anche loro partigiani, frequentano la scuola di pugilato del maestro Fernando Cerusico, repubblicano e antifascista rigoroso: un vero “maestro di vita”, che dà a quei ragazzi portati alla rissa di strada una certa “disciplina”.

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Non di solo Stato vive la scuola. In difesa delle scuole libertarie

Intervento di Francesco Codello

Agli inizi di marzo il sito Dinamo Press – che si definisce come un progetto di informazione indipendente nato dalla cooperazione tra diversi spazi sociali di Roma, giornalisti professionisti, ricercatori universitari, video maker e attivisti – ha pubblicato un articolo di Angela Pavesi e Michele Dal Lago intitolato “Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie”. Mettendo in un unico calderone esperienze educative tra loro anche molto diverse, gli autori attaccano duramente tutte le realtà che si muovono esternamente alla scuola statale, identificata come l’unica scuola pubblica possibile, al di fuori della quale ci sarebbe solo la giungla del modello neoliberista. Pubblichiamo una replica di Francesco Codello, pedagogista, tra i fondatori della Rete per l’educazione libertaria, che è stato dirigente scolastico ed è da lungo tempo impegnato nella ricerca storico-educativa. Codello ha parlato ai microfoni di Radio Blackout, nella rubrica Anarres condotta da Maria Matteo, difendendo le esperienze concrete di educazione libertaria che, tanto oggi quanto nella loro ormai lunga storia, si sono sviluppate come strumenti di cambiamento sociale in senso antiautoritario: riportiamo qui il dialogo radiofonico con l’autorizzazione dell’autore, e ci ripromettiamo di tornare sul tema anche sulle pagine di Rivista Malamente.

[Maria Matteo] Vuoi raccontare brevemente cosa dice l’articolo pubblicato su Dinamo Press o preferisci partire dalla realtà delle scuole libertarie?

[Francesco Codello] Preferisco sicuramente partire dalle nostre idee e dalle nostre pratiche, perché ritengo quell’articolo pubblicato da Dinamo Press violento nei toni, inqualificabile, che sprigiona ignoranza e/o malafede. I toni e i modi, oltre che i contenuti, non stimolano l’apertura di un dibattito, non aiutano il confronto e nemmeno spingono a fare riflessioni e autocritiche, peraltro sempre necessarie. Nel corso della discussione spero di riuscire a far emergere alcuni concetti importanti sia dal punto di vista storico che attuale, che in quell’articolo non vengono minimamente considerati.

[M.M.] Cominciamo allora con il dissipare un po’ di confusione, che certamente Dinamo Press ha contribuito ad alimentare, perché il percorso delle scuole libertarie non può essere equiparato alla sola educazione parentale, né tantomeno a percorsi come quelli delle scuole private, confessionali o di altro genere.

[F.C.] Partirei da una prima considerazione: gli autori dell’articolo che esprimono questi giudizi, e portano un così duro attacco all’educazione libertaria, palesano una profonda ignoranza di tutta la storia dell’educazione libertaria. Non sanno nulla, almeno così traspare dall’articolo, di una storia della quale noi siamo orgogliosamente fieri, che ci appartiene e di cui sentiamo anche la responsabilità. Quando si intraprendono pratiche di educazione libertaria si deve infatti sentire il senso di appartenenza a una tradizione che ha segnato profondamente il rinnovamento della pedagogia nel corso della storia. A cominciare da William Godwin, che per primo parlò contro l’idea di un curricolo scolastico unico e quindi di gestione in esclusiva del sistema scolastico da parte dello Stato, per arrivare fino alle esperienze concrete dei giorni nostri.

C’è poi anche una profonda ignoranza di ciò che si è dibattuto e discusso nella storia della scuola italiana. Tra il 1900 e il 1926, cioè fino all’imporsi delle leggi cosiddette “fascistissime”, la scuola italiana ha subìto due grandi processi di cambiamento: la legge Daneo-Credaro del 1911 e la riforma Gentile del 1923. Mi soffermo in particolare sulla legge Daneo-Credaro, con la quale lo Stato italiano, in ritardo di molti anni rispetto ad altri paesi europei, avoca a sé la gestione e quindi l’organizzazione delle scuole di base, così si chiamavano le elementari, che fino ad allora erano state a gestione comunale. Questa legge rappresenta sicuramente un importante passaggio, anche in senso positivo, ma dà inizio anche a un percorso di statalizzazione esclusiva dell’organizzazione scolastica. Tra gli anarchici si sviluppa in quegli anni tutto un dibattito che possiamo semplificare nella domanda: scuola laica o scuola libera? Cioè era positivo il tentativo di togliere la scuola dal condizionamento clericale, perché era questo che succedeva con la scuola a gestione comunale, soprattutto nei piccoli comuni che rappresentavano la maggior parte del tessuto sociale italiano, ma d’altra parte a questa idea di scuola laica veniva contrapposta un’idea di scuola libera.

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Tempi duri, tempi nostri

di Redazione [QUI IL PDF]

copertina malamente 21
Ancona, 6 febbraio 2021 – Foto di Valeria Tinti

Non sapevano che fosse impossibile, allora lo hanno fatto.
Mark Twain

Facciamola semplice: sono tempi duri, niente sarà più come prima.

Questa consapevolezza si fa strada in noi, e non è l’eccesso di durezza di questi tempi a preoccuparci, ma la mancanza di lucidità nel continuare ad aspettare che la tempesta virale passi per tornare alla vita di sempre. È urgente fare nostri questi tempi duri, non aspettarne altri, perché la necessità di fermare il disastro riempie il presente di possibilità.

In questo numero proprio perché è più difficile viaggiare in tempi pandemici vi portiamo a fare un giro per il mondo, raccontando altri disastri più “classici” dal punto di vista di chi ha coraggio e rabbia da vendere: neo-colonialismo in Africa, brutalità di Stato in Brasile, campi di concentramento per migranti a Lipa in Bosnia.

Nei tempi duri però non siamo del tutto scoperti. Lo sforzo per costruire altri modi di vivere è costante e tenace anche nei nostri territori. La polisportiva Ancona Respect compie 20 anni di storia e non solo ha difeso il calcio popolare ma lo ha aperto anche alle bambine e alle ragazze, il collettivo Caciara proprio nella sventurata Ascoli si batte per mantenere pubblica la biblioteca comunale, le donne di tutte le età scendono di nuovo in strada per rispondere alle aggressioni della giunta di Acquaroli, Ciccioli e altri “nazisti dell’Illinois” che vogliono trasformare le Marche in una distopia familista.

Raccontiamo anche come è nata e come si sta rafforzando l’opposizione alla didattica a distanza nelle Marche. L’uso e l’abuso della rete internet e delle piattaforme digitali, proprietà dei soliti padroni del mondo, da salvagente d’emergenza per non sentirsi soli durante il primo lockdown è diventato un ingombrante e dannoso strumento autoritario che attanaglia la scuola italiana. Siamo alla terza ondata e l’imbuto digitale di marca Google in cui sono scomparsi milioni di studenti viene messo in discussione da una minoranza che sta crescendo. Quella di Priorità alla Scuola è anche una bella storia di auto-organizzazione ai tempi del Covid-19 e non a caso il suo motore sono le donne che stanno soffrendo e pagando di più l’impatto dell’epidemia e dell’incompetenza istituzionale.

Lo sviluppo del digitale porta con sé contraddizioni e rischi enormi che si avvistano quando si ascolta il dibattito sulla Intelligenza Artificiale. Per aumentare la nostra ostilità nei confronti di chi vuole trasformarci in una funzione algoritmica e lavora anche nelle nostre università è necessario studiare meglio e di più. Per questo abbiamo ricordato che anche un rapinatore può scrivere di filosofia, forse meglio di chi non ha mai messo in discussione una banca, Bernard Stiegler insegna.

Oggi poi si fa fatica anche a scendere in piazza per una manifestazione pacifica e paciosa. Le giuste precauzioni anti-covid sono diventate anche una scusa per restringere gli spazi di manifestazione e di espressione e in troppi si stanno abituando. La storia ci insegna che tocca prendersi qualche rischio per difendere la libertà. La rivoluzione non sarà su Zoom. Per questo, ad esempio, ci riempie sempre di gioia e di speranza leggere di guerriglie che parlano più lingue e che hanno la pelle di tanti colori, come quella condotta con coraggio e intelligenza contro i fascisti dal Corno d’Africa al Monte San Vicino. Per questo abbiamo il dovere di portare con forza e con rabbia, fuori dalle mura delle carceri del nostro paese, le voci di chi oggi è privato e privata della propria libertà, di chi si è ribellato e di chi ha perso la vita per mostrarci con la lotta che non sempre “lontano dagli occhi” vuol dire “lontano dal cuore”.

Dentro le scuole, fuori dagli schermi

Intervista di Vittorio a Livia Accorroni, fondatrice di Priorità alla Scuola-Marche

da Malamente 21, aprile 2021 [QUI IL PDF]

Abbiamo intervistato una delle fondatrici del comitato Priorità alla scuola (PaS) nelle Marche, che in questi mesi di relativa passività e rassegnazione delle lotte sociali nella nostra regione è stata una voce forte e attiva. Ci mettiamo in ascolto di questa iniziativa in difesa della scuola pubblica, anche se siamo sempre stati critici verso gli aspetti più istituzionalizzanti, disciplinari e repressivi della scuola di Stato. Pensiamo infatti che la scuola oggi vada difesa non come istituzione statale ma come spazio di relazione sociale pubblico, per trasformarla radicalmente e non per salvare il modello che anche prima della pandemia aveva troppi difetti. Dirigenti e insegnanti, tra l’altro, non stanno dando generalmente una bella prova, accettando con troppa facilità il nuovo paradigma autoritario, verticale, trasmissivo e passivizzante che si esprime nella quasi totalità delle attività svolte in didattica a distanza.

Ancona, 12 gennaio 2021

Quando e perché è nato il comitato di Priorità alla Scuola delle Marche? Da chi è composto?

Il Comitato Marche del movimento Priorità alla Scuola (PaS) è nato il 27 maggio 2020 dalla volontà, ma anche dalla disperazione, di tre madri lavoratrici anconetane Silvia Mariotti, Livia Accorroni e Valentina Rubini che – lo raccontiamo sempre – non si conoscevano nemmeno tanto bene e disponevano soltanto di una chat Whatsapp. Inizialmente denominato Comitato di Ancona, il gruppo è nato in risposta alla lettera-petizione indirizzata alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, pubblicata su AVAAZ il 18 aprile 2020 da un gruppo di madri, docenti, professioniste che chiedevano a gran voce che fine avessero fatto le scuole nel piano nazionale previsto dalla Fase 2 e pretendevano che l’istruzione tornasse al centro dell’agenda politica. Quelle scuole che infatti erano state la prima attività a dover essere interrotta, alla fine di febbraio non venivano nemmeno citate dai proclami della Fase 2 e 3, quando – per ricordarlo a tutti – si poteva ricominciare ad andare dall’estetista, in palestra, nei bar e ristoranti, e successivamente anche in discoteca, ma non si poteva in alcun modo rientrare negli edifici scolastici.

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Le Marche intensive. Tutta (ma proprio tutta) la storia del Covid Hospital di Civitanova Marche

Di Mario Di Vito [QUI IL PDF]

A un certo punto sembravamo spacciati. Il numero di contagiati saliva ogni giorno insieme al numero delle vittime, decine di milioni di italiani si erano chiusi in casa a tempo indeterminato, il presidente del consiglio Giuseppe Conte appariva in televisione ogni due o tre giorni per emanare nuove regole. Le terapie intensive sembravano sul punto di scoppiare, in televisione virologi e opinionisti più eventuali che vari continuavano ad accapigliarsi su questioni difficilmente comprensibili ai più, su Facebook i post degli infermieri e delle infermiere con il volto sempre segnato dalla fatica si moltiplicavano, così come le foto inquietantissime dei cadaveri portati via dai mezzi militari nella notte. Quattro o cinque generazioni, in vita loro, non avevano mai visto il baratro così tanto da vicino.

Marzo 2020, l’Italia è un paese in ginocchio. Terrorizzato dal Covid-19, acronimo inglese di Coronavirus Disease 19, ovvero infezione da Sars-CoV-2, una malattia respiratoria difficile da identificare. Non solo l’Italia, che comunque è stata tra i primi paesi a chiudere tutto, l’intero pianeta Terra è sconvolto e reagisce nelle maniere più disparate: chi ignora il problema, chi utilizza l’esercito, chi si colloca a metà tra queste due cose.

Qui e seguenti: “Pandemia” – Opera di Blu, Campobasso 2019

Il contesto

Nelle Marche, all’estrema periferia dell’impero, già alla fine di febbraio il governatore Luca Ceriscioli si era lanciato in una personalissima guerra al governo centrale per imporre la chiusura delle scuole della sua regione per cercare di contenere i contagi. Una vicenda in qualche modo paradigmatica del caos italiano di quei giorni: lunedì 24 febbraio Ceriscioli convoca i giornalisti per annunciare la serrata degli edifici scolastici. Nel bel mezzo della conferenza stampa, però, il presidente marchigiano riceve una telefonata dal presidente Conte, che lo obbliga a desistere dal suo proposito. Smentita in diretta, dunque, e gran brutta figura per Ceriscioli. Martedì 25 febbraio, al mattino, il governo incontra in videoconferenza i rappresentanti di tutte le regioni italiane e, senza obiezioni, si trova un accordo sul fatto che qualsiasi decisione dovrà essere presa tutti insieme. Le fughe in avanti della Lombardia e del Veneto, che nella settimana precedente avevano cominciato a produrre ordinanze, sembravano arginate. Ma il pomeriggio dello stesso giorno, a sorpresa, Ceriscioli con un atto d’imperio chiude le scuole, questa volta per davvero. Il governo si innervosisce e decide di impugnare davanti al Tar il provvedimento della Regione Marche.

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Il marchingegno si è rotto. RetroMarch(e): cambiare direzione

Intervista di Sergio Sinigaglia a Carlo Carboni e Michele Serafini [QUI IL PDF]

A metà marzo ad Ancona, presso la Facoltà di Economia, si doveva tenere un incontro pubblico promosso dalla nostra rivista insieme al mensile Gli Asini e al Circolo Laboratorio Sociale. Alla vigilia di una tornata elettorale in cui si prefigurava un successo della destra, l’intento era quello di ragionare sulle trasformazioni avvenute nelle Marche, sui mutamenti sociali, economici, culturali e antropologici, specchio del contesto più generale. Tra i relatori era previsto Carlo Carboni, docente di sociologia presso la stessa facoltà, autore di numerosi saggi tra cui “Il marchingegno”, edito nel 2005 da Affinità elettive, che analizzava il defunto modello marchigiano incentrato sul “piccolo è bello” e cercava di ragionare sulle possibili alternative.

L’incontro di Ancona è saltato a causa delle restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19; abbiamo però ritenuto opportuno intervistare Carboni sulle tematiche di cui avremmo dovuto discutere a marzo. L’intervista contiene alcuni riferimenti alla “classe dirigente” che ovviamente non ci appartengono visto che le nostre idee guida sono, piuttosto, i concetti di autonomia sociale, autogestione, autogoverno. In ogni caso ci sembra un contributo importante e qualificato per riflettere sui cambiamenti in atto, con l’auspicio che nella prossima primavera si possano ricreare le condizioni per riproporre l’iniziativa annullata.

Per ampliare il quadro sulla situazione regionale abbiamo intervistato anche Michele Serafini che, ritornato nelle Marche dopo due anni da ricercatore in antropologia a Londra, ha contribuito alla formazione del gruppo di ricerca interdisciplinare “Emidio di Treviri” formato da antropologi, sociologi e urbanisti, seguendo fin dalle primissime fasi le vicende del terremoto e post-terremoto 2016. Michele ci ha parlato delle dinamiche dell’entroterra, in particolare delle conseguenze determinate dall’ultimo sisma in territori già gravemente alle prese con fenomeni sociali ed economici che ne hanno fortemente indebolito il tessuto civico.

Andrea Pazienza, “Vignette”

Intervista a Carlo Carboni

Nel 2005 hai scritto “Il marchingegno” dove riflettevi sul modello di sviluppo tradizionale della nostra regione e di come ormai mostrasse la corda, quindi sottolineando la necessità di un suo superamento e di un cambio di paradigma. A quindici anni di distanza sembra che siamo ancora al palo…

Non è cambiato nulla, anzi il contesto è peggiorato. Già due anni fa Ilvo Diamanti a un convegno all’Istao (Istituto Adriano Olivetti, ndr.) ad Ancona aveva osservato come le Marche fossero scivolate nella “media mediocritas” italiana. Devo dire che dopo la vicenda del terremoto di quattro anni fa, a cui dobbiamo aggiungere lo scossone della crisi del 2008, con tutte le conseguenze avute sia nell’apparato produttivo che nel sociale, molti di quelli che hanno fatto i cantori di questo modello di sviluppo diversi anni fa – mi riferisco al nostro ambito accademico – abbiano peccato di un eccesso di entusiasmo rispetto a una realtà che ha invece mostrato tutti i suoi limiti strutturali.

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Pesaro in movimento: dal Centro sociale allo Spazio popolare

Intervista di Luigi al Collettivo Anna Campbell di Pesaro

Se volete trovate la nostra rivista a Pesaro potete andare allo Spazio popolare Anna Campbell, dove puntualmente, ogni tre mesi, portiamo le copie fresche di stampa. Con questo nome e nell’attuale sede, lo Spazio ha aperto da pochi anni – libero da bieche logiche di “area” politica – raccogliendo l’eredità di quasi quarant’anni di autogestione nella città di Pesaro. Quattro decenni di conflittualità sociale, di battaglie culturali e politiche, di solidarietà attiva, di musica senza prezzo e di antidoti alla rassegnazione. Con questa intervista ad alcuni membri del nuovo Collettivo di gestione (intervista che abbiamo raccolto a luglio, in occasione di un pranzo a sostegno della rivista) raccontiamo che cos’è oggi lo Spazio popolare, come si inserisce e confronta con la città e quali sono i suoi progetti, in corso e futuri.

Pesaro spazio popolare Anna Campbell

Partiamo dalla storia di questo posto, che oggi è lo Spazio popolare Anna Campbell, ma che raccoglie l’eredità storica del centro sociale di Pesaro. Quale percorso vi ha portato fino a questa sede e alla formazione dell’attuale Collettivo?

Giuseppe: L’attuale esperienza nasce da quella che era la realtà del centro sociale Oltrefrontiera di Pesaro, portata avanti nella sua ultima fase dal Collettivo Malarlevèt (“male allevati”, in dialetto). Lo sgombero dalla sede storica, nel gennaio 2017, è stato uno spartiacque enorme. Noi veniamo da lì, anche se per età, interessi, trasferimenti ecc., diversi compagni non sono più nel Collettivo; quella di oggi è quindi una nuova fase, ripartita con quelli che sono rimasti.

Lo sgombero avvenne perché le azioni del Collettivo Malarlevèt si erano spesso scontrate con le forze politiche che amministravano la città. Ad esempio: la battaglia contro il jobs act e contro lo “Sblocca Italia” che favoriva le trivellazioni in mare (a Pesaro, la nuova piattaforma Bianca-Luisella), il sostegno al popolo palestinese (il comune abbandonò il gemellaggio con Rafah nella striscia di Gaza), ecc. Nel periodo antecedente allo sgombero, tra l’altro, avevamo preso una posizione netta per il No al referendum costituzionale del 2016, creando il comitato “per il No sociale” e organizzando iniziative anche colorite, come il funerale della democrazia, con tanto di bara e candele che avevamo esposto di fronte al centro sociale mentre era di passaggio il sindaco, che stava andando lì vicino, a un comizio pro Sì al referendum.

Giuseppina: Circa un mese dopo quell’episodio, un venerdì notte, hanno cambiato la serratura del posto. La mattina successiva, quando siamo arrivati, abbiamo appunto trovato la serratura cambiata e attaccato sulla porta c’era un cartello scritto a penna che avvertiva che quella era una proprietà comunale e se qualcuno entrava sarebbe stato sanzionato. Il posto infatti non era uno spazio occupato, ma era dato in comodato d’uso gratuito, da oltre trent’anni.

Quella mattina c’erano già pronte le macchine della digos, che stavano a vedere se avessimo forzato la porta. Noi però non siamo rientrati in quel momento, ma abbiamo deciso di porre il problema pubblicamente. La scusa accampata dall’amministrazione comunale è stata che avevano chiuso il posto perché pericolante, quando in realtà nello stesso edificio c’era uno spazio per gli anziani del quartiere, che noi stessi avevamo costruito tirando su un cartongesso, e quello è rimasto – ed è ancora – tranquillamente lì. Quando abbiamo sollevato la questione che avevano sequestrato all’interno cose nostre, compresi mobili, computer e una piccola biblioteca, ci hanno fissato un appuntamento per poter rientrare a riprenderle: quando siamo arrivati avevano già buttato tutto fuori, in mezzo al fango perché aveva piovuto. Tutto buttato così.

centro sociale Oltrefrontiera Pesaro 2017
C.S.A Oltrefrontiera Pesaro, via Leoncavallo (2017)

Giuseppe. Per completare il racconto va anche detto che, la settimana prima dello sgombero, un ragazzo che frequentava assiduamente lo spazio con difficoltà economiche e legali (rinnovo del permesso di soggiorno) venne chiamato in questura e dopo due giorni si presentò “spontaneamente” in Comune per consegnare copia delle chiavi del centro sociale. Con quel gesto gli uffici comunali costruirono un ridicolo atto di rinuncia del nostro Collettivo alla concessione dello spazio (in essere dal 1985), riuscendo loro – dopo vari tentavi fatti nel corso degli anni – a entrare nella struttura e quindi a sgomberarci. Da quel momento è iniziato il nostro viaggio per riprenderci lo spazio sociale della città di Pesaro. Dopo inutili tentavi di dialogo con gli uffici comunali e i politici locali, abbiamo convocato un’assemblea cittadina molto partecipata: non bastò a cambiare la situazione, ma servì a organizzare la lotta.

Passati pochi giorni abbiamo organizzato una manifestazione/sit-in di fronte al municipio, che aggirando la polizia si è trasformata nell’occupazione di alcuni uffici comunali per mezza giornata. Questo bastò a scuotere l’amministrazione che decise di incaricare un nuovo referente politico, l’allora assessore Bartolucci, per gestire e risolvere il pasticcio. Bartolucci trasformò l’atto di sgombero in una proposta di “trasferimento” in una nuova sede (lo spazio dove siamo ora).

Discutemmo nell’assemblea cittadina della proposta. Avevamo due scelte: rientrare nel posto da cui eravamo stati sgomberati, con un’occupazione e una successiva resistenza, oppure accettare la trattativa con l’amministrazione comunale per il trasferimento. Scelta difficile, alla luce di tanti casi come il nostro, finiti male. Alla fine l’assemblea fu costretta a votare e, con poco scarto, fu presa la decisione di accettare la proposta di trasloco. Ci sono poi volute tante riunioni in Comune e tante lettere protocollate ed è passato più di un anno prima di poter entrare effettivamente nel nuovo spazio, ma alla fine ci siamo riusciti e ora dobbiamo lottare per mantenerlo, perché se è vero che abbiamo risolto i problemi tecnico/burocratici quelli politici sono ancora tutti lì.

sgombero oltrefrontiera pesaro gennaio 2017
In piazza dopo lo sgombero, sotto la sede del Comune di Pesaro, gennaio 2017

Quindi siamo arrivati ad oggi. In questa nuova fase avete anche cambiato il nome del Collettivo, come lo avete scelto?

Giuseppe. Dopo tutto il percorso fatto, appena preso possesso del nuovo spazio il Collettivo ha scelto di darsi un nuovo nome. Sono state fatte diverse proposte, ma il nome di Anna Campbell, che due ragazze del Collettivo avevano conosciuto, è piaciuto ed è stato accettato da tutti e tutte. Anna Campbell è stata una martire per la liberà e i diritti civili: una delle tante combattenti straniere andate a difendere il popolo curdo del Rojava, unitasi alle YPJ (Unità di difesa delle donne). Si trovava ad Afrin il 15 marzo 2017 per impedire l’ingresso dell’ISIS ed è rimasta uccisa a ventisei anni a causa di un missile turco. La scelta è stata unanime, anche perché il nostro Collettivo ha sempre sostenuto l’esperienza politica e sociale del confederalismo democratico del Rojava. Tra l’altro nel 2015 abbiamo anche partecipato alla raccolta di aiuti denominata Carovana per Kobane.

Quali sono le prime iniziative che avete messo in piedi?

Giuseppina. Siamo partiti con il Festival delle cucine popolari autogestite. Nel 2018 abbiamo ospitato la terza edizione, tutte le assemblee sono state fatte qui allo Spazio e l’evento pubblico al parco Miralfiore. L’idea è che anche la cucina, a partire dalla materialità del cibo e da tutto quello che gli ruota attorno, può essere un terreno di lotta, di costruzione dell’autonomia, di rivendicazione politica. Queste cucine – come la nostra “cucina resistente” – sono anche cucine “in movimento”, perché disponibili a spostarsi in caso di necessità, ad esempio si è andati a far da mangiare per i migranti bloccati sul confine a Ventimiglia; noi ci siamo spostati spesso, anche per dare sostegno a Bologna a XM dopo il primo tentativo di sgombero.

festival delle cucine in movimento Roma

La Boutique di Anna che cos’è e come è nata?

Giuseppe: Quella che abbiamo chiamato la Boutique di Anna è una stanza piena di vestiti e altri generi, tutti suddivisi e ordinati, che sono liberamente a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, secondo le sue necessità. Sono vestiti raccolti in occasione del terremoto del 2016 da parte delle Brigate di solidarietà attiva, di cui facciamo parte. In quell’occasione c’eravamo offerti come centro di raccolta per il Centro-Nord. I beni venivano smistati e mandati nei vari campi di terremotati ma, come spesso accade per le emergenze derivate da calamità naturali, le risposte solidali delle persone sono state molto più abbondanti delle esigenze reali. Avendo raccolto più del necessario, per un certo periodo, durante la fase dello sgombero, abbiamo organizzato lo “scambio solidale”: ogni sabato mattina ci mettevamo in piazza, proprio sotto al municipio, per scambiare prodotti che nel cratere non servivano più, come dentifrici e prodotti per l’igiene, in cambio di cose più strettamente necessarie.

Giuseppina: Finché a un certo punto si è posto il problema di cosa fare di tutto quello che era avanzato, in particolare avevamo ancora scatoloni e scatoloni di abbigliamento. Abbiamo pensato di continuare a dar loro una destinazione di solidarietà e così in questa nuova sede abbiamo organizzato la Boutique di Anna. Qui non facciamo una selezione tra chi può venire a prendere e chi no, non chiediamo credenziali né documenti perché siamo fuori dalla logica di certe istituzioni, dove chi si presenta in stato di necessità deve anche dimostrare di essere povero, cosa che ci sembra perfino umiliante, o dove non si può scegliere quello che si vuole ma solo prendere quello che è stato assegnato. E comunque molte persone che vengono più o meno frequentemente a prendere spesso portano anche altre cose, dando vita a un circuito solidale di scambio.

boutique di anna pesaro spazio sociale
La Boutique di Anna, Pesaro

Giuseppe: È infatti nata una rete di relazioni attorno alla Boutique, possiamo chiamarla una “comunità resistente”, che si organizza e collabora per sostenersi: chi ha di più, dà di più, chi ha bisogno prende. Nelle nostre iniziative cerchiamo sempre di ampliare la comunità e i campi d’azione, e così arriviamo a parlare anche dell’ultimo passo, la creazione dello Spaccio popolare, che è un modo diverso di procurarsi il cibo, più vicino al nostro sentire, fuori dalla grande distribuzione, genuino e solidale. È un passo molto impegnativo ma fondamentale, perché il cibo è un bene primario da sottrarre al capitalismo. Come abbiamo già detto, grazie alla nostra cucina popolare abbiamo negli anni creato delle relazioni che, ora, ci hanno permesso di dare vita a questo Spaccio popolare al quale partecipa una rete di produttori locali ed etici, che non sfruttano il territorio, le persone, gli animali (il nostro obiettivo è di dirigerci verso uno Spaccio prevalentemente vegetariano).

Quali sono altre iniziative e attività che ruotano attorno allo Spazio popolare?

Giuseppe: Il nostro spazio vuole essere aperto alla città, ovviamente a quella parte di città con cui condividiamo dei principi e dei valori di base (antifascismo, antirazzismo, antisessismo, antispecismo). Il Collettivo Anna Campbell ha attivato pratiche di mutualismo, azioni anticapitaliste e ambientaliste, lotte alle discriminazioni, riuscendo così a tessere una serie di legami con le associazioni del territorio e ad avviare collaborazioni che prima il centro sociale non aveva. Adesso diverse associazioni vengono qui o comunque sono in contatto con noi – come l’ONG La Palla rotonda, l’ODV Stay Human, l’APS Arcigay Agora, il Collettivo studentesco Iskra, l’APS Giovani profughi e altre – e con loro organizziamo diverse attività. Detto questo, non ci facciamo però mancare altri tipi di attività come il presidio antifascista ogni volta che Casa Pound si presenta, il sostegno alla comunità LGBTQI (l’anno scorso abbiamo partecipato all’organizzazione del primo Pride Marche), il boicottaggio dei prodotti israeliani per cui facciamo parte della rete BDS (movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane), l’attenzione al mondo del lavoro con il supporto ai sindacati di base, ecc.

biliardino spazio popolare anna campbell
Biliardino in terrazza, Spazio popolare Anna Campbell

Giuseppina. Ad esempio La Palla rotonda è un’associazione che tenta di fare integrazione e aggregazione attraverso sport e cultura. Con loro abbiamo fatto diverse serate dal titolo “Conosci il mio paese”: ogni volta, chi è originario di un paese lo presenta, racconta cosa succede politicamente e non solo, insomma cerca di farcelo conoscere e dopo la presentazione c’è sempre una cena collettiva in cui proviamo a cucinare alcuni piatti tipici di quel paese. Facciamo una ricerca e cerchiamo di riprodurli, anche se non è facile per via degli ingredienti che possiamo reperire qui (in particolare le spezie sono di solito molto importanti). A fine serata c’è una cosa simpatica, un quiz a squadre, che mette alla prova la conoscenza su quel determinato paese; in palio non c’è niente, ma è una piccola cosa che coinvolge molto e sprona alla conoscenza reciproca: conoscenza che è la base del vivere insieme. Di queste serate a tema ne abbiamo fatte su tanti paesi, come Bosnia ed Erzegovina, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Mali, Slovenia…

Un’altra iniziativa che è appena partita è la Ciclofficina. Vogliamo organizzare una piccola officina di attrezzi, così chi vuole ripararsi la bici può venire qui e con l’aiuto di qualcuno di noi, o da solo se è capace, può farlo, oppure se ne ha bisogno può prendere una delle bici che abbiamo già rimesso a posto; quelle che abbiamo adesso sono biciclette abbandonate che il comune (di Gabicce, non di Pesaro) ha recuperato e, passato un certo tempo in cui nessuno le ha reclamate, ce le ha donate.

foto di gruppo cena spazio sociale anna campbell pesaro
Foto di gruppo alla cena Conosci il mio paese [Iraq e Pakistan], dicembre 2019

Tra le associazioni con cui collaborate hai citato Giovani profughi. Tu, Adama, che ne sei formalmente il presidente, ci racconti chi siete e che cosa fate?

Adama: Il nome della nostra associazione – Giovani profughi – l’abbiamo scelto per far capire subito chi siamo veramente: siamo i profughi che la gente ha visto sbarcare e che ancora sbarcano qui. Siamo venuti tutti via mare, alcuni già sette anni fa. Prima dell’associazione, che è nata ufficialmente il 30 gennaio 2020, ci vedevamo come gruppo di amici, ci siamo infatti conosciuti nelle strutture di accoglienza che ci hanno accompagnato per un periodo, fino a quando due anni fa la legge le ha chiuse e molti ragazzi si sono trovati in difficoltà. Così abbiamo iniziato ad aiutarci tra di noi: chi aveva un lavoro o una casa non poteva lasciare un fratello fuori. E poi vogliamo condividere la nostra esperienza con chi è arrivato da poco e con quelli che arriveranno. Aiutarli a capire cosa serve per integrarsi, per imparare la lingua, per vivere qui scegliendo una buona strada.

In particolare sul lavoro è molto importante essere informati, perché se non conosci i tuoi diritti non puoi neanche chiederli e allora ci facciamo aiutare da chi è più esperto, dai sindacalisti ad esempio. All’inizio ci siamo incontrati proprio per problemi di lavoro di alcuni ragazzi che erano sottopagati, abbiamo invitato qui, in questo Spazio di Pesaro, un sindacalista dell’USB che poteva darci una mano; quel giorno abbiamo scoperto anche tanti altri problemi che aveva la nostra gente e così è nata l’idea dell’associazione. Da poco abbiamo aperto una nostra sede a Mercatale di Sassocorvaro, ma rimane un legame speciale con lo Spazio di Pesaro che è sempre stato aperto e disponibile con noi.

Ultimamente, durante il lockdown, abbiamo aiutato nella preparazione e distribuzione dei pacchi viveri per le famiglie in difficoltà.

Cosa vedi nel vostro futuro?

Adama: La prima cosa che vorrei vedere è l’integrazione: una società senza discriminazione, senza razzismo, senza tutte queste difficoltà che abbiamo per ottenere una casa e un lavoro, perché ci sono persone che guardano solo il colore della pelle o da dove vieni. Noi siamo qui perché non potevamo stare dove eravamo e adesso cerchiamo di integrarci. Penso che l’integrazione tra i popoli sarà inevitabile nel tempo. Trovare chi ci lascia sempre indietro e ci tratta male rende solo le cose più difficili e lascerà segni di dolore nelle menti e nei cuori che saranno difficili da cancellare. Se tu mi aiuti a integrarmi non avremo nessun problema e vivremo in pace, ma se tu adesso mi respingi, quando sarò integrato avrò sempre una brutta immagine di te. Nel nostro futuro vogliamo avere bei ricordi, non brutti ricordi.

Nei prossimi giorni ospiterete qui allo Spazio popolare una serata informativa sulle lotte per i diritti degli animali, con cena vegan, da cosa nasce questa iniziativa?

Paolo: Io sono attivista per i diritti degli animali da circa cinque anni, sono stato in vari gruppi; ultimamente, parlando con altri attivisti, abbiamo pensato di organizzare una cena, sia per conoscerci meglio tra di noi, sia per invitare altri e condividere informazioni sulle lotte per i diritti degli animali. Valentina ci ha proposto di farla qui allo Spazio popolare, ci è sembrata una buona idea e così è nato questo incontro. Personalmente mi sto concentrando sul filone della comunicazione efficace per attivisti perché mi rendo conto che è molto difficile parlare con altre persone di argomenti come veganismo, diritti degli animali e loro liberazione – immediata! Alcuni attivisti arrivano addirittura ad accusare una sindrome da stress. Ci sono persone che ci si dedicano full time, che vanno ad esempio a fare i rescue (liberazioni) degli animali negli allevamenti intensivi, ma la condizione di un attivista, o anche solo di una persona vegana, è quella di far parte di una piccola minoranza costantemente sotto pressione e quasi sotto attacco da parte di altre persone che magari non hanno affinato il ragionamento su certi argomenti. Non solo non vieni compreso, ma spesso vieni marginalizzato e quasi umiliato per la tua scelta, che in fondo non è che la ricerca del benessere per i viventi. Un libro cardine su questo discorso è “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”, di Melanie Joy: lei si occupa proprio di fare formazione per gli attivisti proponendo diverse strategie di comunicazione efficace. Credo sia bene iniziare a discutere di questo, la serata che faremo qui sarà l’inizio di questo confronto.

Concerto del Trio Kaos Pesaro 2019
Concerto del Trio Kaos, 3 agosto 2019

Fermo restando la verità oggettiva sintetizzata nello slogan ACAB (All cops are bastards), voi avete seguito e ora vi state legando alla rete ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). Ci raccontate qualcosa di questa rete e di come sta nascendo qui allo Spazio popolare di Pesaro un suo nodo territoriale?

Giuseppina: ACAD è rete eterogenea di persone, di diversa provenienza, che si è associata a partire dai casi di Federico Aldrovandi (2005), Uva, Cucchi e tanti altri, tutti morti nelle mani delle forze dell’ordine. Il percorso prima informale ha poi portato alla nascita dell’associazione, con un coordinamento nazionale e vari nodi territoriali. ACAD è diverse cose: un osservatorio per monitorare e contrastare gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, un pronto intervento che grazie a un numero verde si attiva immediatamente in caso di segnalazione di abusi, un mutuo soccorso solidale per le vittime e le loro famiglie, un centro di controinformazione per smontare le versioni dei verbali di polizia.

Noi, a Pesaro, stiamo diventando uno dei nodi territoriali di ACAD, anche se in questo momento il Covid ha un po’ bloccato la situazione. Vogliamo dare appoggio a chi ne ha bisogno, anche perché abbiamo riscontrato che a Pesaro gli abusi sono evidenti, i più comuni riguardano il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, il continuo approfittare di chi ha documenti in scadenza, perquisizioni assurde e così via.

Giuseppe: In realtà questa non è un’attività nuova per noi, nel senso che un sostegno di questo tipo lo abbiamo sempre dato, anche con il supporto del nostro avvocato che ci segue da anni e degli avvocati di strada di Pesaro. Il nostro arrivo in ACAD è stato quindi naturale, la cosa positiva è che ci dà una struttura di riferimento, una rete.

Il vostro spazio sociale si trova nella zona pesarese di Villa Fastiggi, pochi chilometri più avanti lungo la strada c’è un carcere dove – come purtroppo in moltissimi altri istituti penitenziari – le condizioni dei detenuti sono pessime, c’è sovraffollamento, ci sono problemi sanitari, sono avvenuti maltrattamenti e anche episodi molto più gravi, come ad esempio la morte di Eneas (Anas Zamzami) nel 2015. Vi siete fatti un’idea di cosa succede in questo carcere?

Giuseppina. Eneas era un giovane che stava scontando una lieve condanna nel carcere di Villa Fastiggi e si è tolto la vita. Su come sia arrivato a questo gesto sappiamo che ci sono fondate responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria. Il caso di Eneas lo abbiamo seguito e siamo tuttora in contatto con il gruppo di amici e amiche che sta cercando di far luce sulla sua morte.

Verità per Eneas, morto di carcere, dicembre 2018

Giuseppe. Il carcere è un luogo di raccolta di “poveracci” e di disperati, il sunto della repressione di tutti coloro che sono emarginati, i cui problemi si potrebbero affrontare con ben altri strumenti; con il welfare, la solidarietà, le politiche sanitarie… Le storie di abusi, violenze, atti di autolesionismo e purtroppo di suicidi escono dal carcere di Villa Fastiggi e ci riempiono di rabbia e sconforto. Purtroppo, oltre la condanna del tribunale, la volontà punitiva verso i detenuti che si vive nell’ambiente del carcere è una cosa che abbiamo percepito e che ci è stata ampiamente raccontata. Per quanto possiamo, cerchiamo di attivarci a ogni sollecitazione, come nel caso di Eneas o collaborando con l’associazione Antigone. Vorremmo andare anche oltre, per questo abbiamo incontrato due volontari di Pesaro che tramite il rugby sono riusciti a organizzare attività sportiva nel carcere, dopo tre anni di richieste e di ostacoli. Ci aspetta un lavoro lungo e difficile.

A Pesaro, come in tutta la riviera, conoscete bene che cos’è lo “sfruttamento stagionale”, cioè quel lavoro in alberghi, ristoranti, stabilimenti, che dura qualche mese ed è fatto orari di lavoro interminabili, paghe ridicole, contratti non rispettati, assenza di turni di riposo eccetera. So che siete attivi/e anche su questo fronte, vero?

Giuseppina. Abbiamo aderito fin da subito alla campagna “Mai più sfruttamento stagionale” e al coordinamento nazionale, nato principalmente da attivisti dell’USB di Bologna, poi diffuso a Rimini, qui a Pesaro, in Toscana, in Sardegna. Si sta estendendo lungo tutte le zone costiere, dove lo sfruttamento stagionale si sente di più (certo, esiste anche in montagna, ma per ora il coordinamento è più presente sul mare). La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è una piattaforma di rivendicazioni, la prima cosa che chiede è, almeno, come minimo, il rispetto del contratto Collettivo nazionale, che è pessimo e pieno di criticità, ma è meglio di niente.

Io posso parlare per esperienza personale, ho iniziato a fare le stagioni quando avevo quattordici anni e ti posso assicurare che è vero che anche allora si lavoravano 15 ore al giorno, ma con tre o quattro mesi di lavoro mi pagavo gli studi e le vacanze, d’inverno non gravavo sulla famiglia. Gli stagionali di allora sapevano che per quei mesi avrebbero praticamente vissuto dentro l’albergo o il ristorante, però poi avevano tutto l’anno a disposizione. Oggi è molto diverso, si lavora sempre per tantissime ore, senza giorno libero, ma le paghe sono ben diverse e non c’è mai un vero contratto in regola. Io adesso ho un contratto a chiamata: spesso la sera mi dicono se la mattina dopo devo andare a lavorare oppure no. Non esiste nessuna garanzia, nessun diritto. Anzi, oggi più che mai con la pandemia in corso, molti datori di lavoro ti fanno sentire fortunato ad essere sfruttato, in confronto a tanti altri che con il Covid sono rimasti disoccupati.

Giuseppe. Bisognerebbe puntare a un vero e proprio sciopero degli stagionali, ma è difficile. Per ora ci sono riusciti i bagnini di salvataggio della Versilia, che come categoria hanno una certa forza perché se non si presentano lo stabilimento non può aprire, e quindi hanno ottenuto qualcosa. La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è stata accompagnata anche da un’indagine, sotto forma di questionario, dove tra l’altro è emersa una delle cose più tristi del lavoro stagionale cioè gli abusi, le molestie, con parole e atteggiamenti: per le donne la situazione è ancora più pesante.

Da Londra ad Ascoli Piceno. La scena punk in una regione quasi tranquilla

Intervista di Luigi ad Alessia Masini e Carlo Cannella [QUI IL PDF]

Dopo aver raccontato la scena hip-hop del nord delle Marche (Malamente #6, dicembre 2017), abbiamo deciso di fare un viaggio nel sottobosco punk per scoprire origini, storia e vicende di questo fenomeno musicale e culturale che dalla fine degli anni Settanta ha attraversato, in maniera forse anche inaspettata, la paciosa e sonnolenta tranquillità di questi territori.

Abbiamo intervistato Alessia Masini, ricercatrice in storia, studiosa in particolare del rapporto tra giovani e politica in età contemporanea, collaboratrice di Rai Storia e autrice e speaker del programma radiofonico Vanloon in onda su Radio Città Fujiko (Bologna). Alessia ha da poco pubblicato il libro “Siamo nati da soli: punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna, 1977-1984” (Pacini, 2019). Poi, per mettere a fuoco il punk marchigiano, abbiamo conversato con un testimone d’eccezione, Carlo Cannella, voce storica della scena punk hardcore italiana. Cresciuto ad Ascoli Piceno, ha fondato nel 1983 i Dictatrista, nel 1985 gli Stige, nel 1992 gli Affluente. Nomi che a qualcuno/a ricorderanno i tempi del walkman sparato nelle orecchie e l’energia del pogo sotto i più improbabili palchi. Nel libro “La città è quieta… ombre parlano” ha raccontato la storia di quell’umanità disagiata e sperduta nella foresta punk ascolana, schiumante rabbia di vivere; la quarta edizione è in uscita per Red Star Press.

E allora non ci resta che partire per questo viaggio nel “nostro” punk: in fondo, dal pogo al riot, il passo può essere molto breve.

Rivolta dell’odio (Ancona), Al Tuwat di Carpi, 1985 circa

Intervista ad Alessia Masini

Il tuo libro sulla storia del punk ha una delimitazione temporale ben precisa: 1977-1984. Queste date rappresentano un inizio e una fine? Quali sono i motivi di questa periodizzazione del punk?

Non definirei queste date un inizio e una fine. O meglio, forse un inizio sì, ma non una fine. Il 1977 è il momento in cui il fenomeno punk ha una delle sue manifestazioni più visibili, cioè diventa concretamente un elemento delle culture giovanili. Nell’ottobre 1977 il punk compare in televisione, per la prima volta la RAI parla di punk in un programma che si intitolava “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo”. Pochi mesi prima, a maggio, iniziava a comparire anche tra le maglie dei movimenti, delle controculture, a partire dalla rivista “Re Nudo”. Nelle memorie dei punk italiani si ritrovano spesso questi due eventi: quasi tutti citano “Odeon” e qualcuno racconta anche di “Re Nudo”. Quindi da questo punto di vista si può dire, secondo me, che il 1977 sia un inizio.

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