Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)
Di Nicoletta Grammatico
Questo racconto è stato ricostruito sulla base delle interviste concessemi da Scilla e Anna, che ringrazio moltissimo. La testimonianza in prima persona è funzionale a restituire una storia intima, che da personale si fa collettiva, per trasportare lettori e lettrici nel vivo di una narrazione vissuta sulla propria pelle e sui propri corpi da molte donne. Dai racconti raccolti emerge come, nello specifico della regione Marche ma non solo, sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza sia sulla carta un diritto, nella realtà viene sempre più spesso ostacolata e negata. Oggi abortire nelle Marche è diventato molto complicato: con il personale medico obiettore che invade i reparti ospedalieri e la promozione di associazioni pro-vita, la legge 194 ha subito un duro colpo e con essa anche la libertà di scelta individuale. Queste storie ne sono una testimonianza diretta.
¶ Non ho mai pensato di voler diventare mamma. No, non l’ho mai voluto. Nemmeno da piccola quando le altre bambine del quartiere giocavano a mamma e figli. Non volevo essere mamma nemmeno per gioco. Così fu per me facile decidere di abortire quando scoprii di essere incinta, meno facile fu invece trovare chi mi facesse abortire. Tante volte mi sono chiesta dove finisca la linea dell’aspettativa sociale e inizi quella della volontà soggettiva, dell’autodeterminazione. Nelle varie storie di aborto che ho ascoltato, e nella mia esperienza, la percezione che ne ricavavo era che la prima trainasse inesorabile la seconda, la scelta non era assecondata se contrastava il modello sociale imposto. A chiunque mi domandi: «ma non hai avuto paura?», rispondo sempre allo stesso modo: «ho veramente avuto paura, paura di non riuscire ad abortire».
da Rivista Malamente, n. 31, dic. 2023 [anticipazione online]
Sono un medico di medicina generale che ha fatto ricerca in immunologia e si ritrova, suo malgrado, in uno stile di vita anarchico. Ho lavorato in diversi paesi oltre che in Italia: negli USA, in Francia; e in quel territorio martoriato che dovrebbe chiamarsi Kurdistan ma che sulle carte non esiste: facevo il medico volontario nella martoriata Kobanê, quando i corridoi umanitari aperti dai turchi lo permettevano, prima di essere stato espulso dalla Turchia come persona non grata.
Nel marzo del 2020 facevo il medico di medicina generale in Francia; quel pomeriggio mi trovavo in un ristorante di Montlhéry con Boris e Abdel. Arrivavano dall’Italia le prime notizie della epidemia da SARS-Cov2 e la sindrome COVID faceva purtroppo già molte vittime, specialmente fra gli anziani del bergamasco. Avevamo dato alla notizia il peso che oramai meritano le informazioni che provengono dalla televisione: attendavamo che la cosa si sgonfiasse da sé. Invece, a fine marzo 2020 il presidente della Repubblica Francese, Macron ci disse a reti unificate, per sei volte di seguito, che oramai eravamo in guerra. Dalla mattina successiva le strade erano deserte, le scuole chiuse, e tutti noi ci trovammo confinati nelle nostre case. Unica finestra aperta sul mondo: la televisione. Avevamo paura persino di respirare.
A Montlhéry era rimasta aperta solamente la boulangerie, per qualche ora del mattino, e il mio ambulatorio medico. I pronto soccorso degli ospedali della zona, a Longjumeau e ad Arpajon, erano già saturi. Una gran parte dei colleghi s’era data malata, qualcuno era partito all’estero prima della chiusura delle frontiere. Mi aggiravo fra i quartieri immersi nell’atmosfera post apocalittica, surreale, che ritroviamo nella peste di Camus. Con mio grande stupore, dagli ospedali tornavano a casa i neri, gli arabi e gli stranieri che erano positivi alla SARS-Cov2 e, sebbene sintomatici, non erano ammessi ai posti limitati nelle rianimazioni. Erano affidati a se stessi e a noi, ai medici di base; e noi li curavamo a casa in modo empirico: antibiotici, anti-infiammatori, vitamine e ossigeno. Qualcuno moriva. Avevo organizzato fuori dell’ambulatorio, dove regnava il silenzio e il deserto, una fila di sedie, distanziate di sei metri l’una dall’altra. La coda era impressionante e surreale: gente seduta in strada che tossiva fino a diventare paonazza. Facevo il triage che si faceva forse a Omaha Beach durante lo sbarco: ricovero immediato con qualunque mezzo… ricovero a domicilio con farmaci e ossigeno… codice rosso: iniezione di corticosteroidi e broncodilatatori e attesa dell’ambulanza medicalizzata… semplice gastro enterite con annesso attacco di panico o psicotico…
Per celebrare il 120° anniversario della nascita di George Orwell e per raccontare il tema della fantascienza letteraria distopica, il magazine di Rai Cultura “Wonderland”… Leggi tutto »Marco Sommariva – Wonderland (RAI4)
A nostro parere la notizia dello scioglimento del movimento Souèvements de la Terre in Francia indica due importanti linee di tendenza anche per le lotte ecologiste nel nostro paese:
è possibile aumentare il livello di efficacia e l’impatto delle azioni contro le industrie ecocide e contro le grandi opere inutili a patto di dotarsi di un’alchimia organizzativa intelligente, generosa e coraggiosa, di cui abbiamo estremo bisogno anche in Italia. La tendenza è globale ed è necessario aprire maggiormente il dibattito nel nostro paese verso ciò che sta accadendo altrove.
gli stati democratici sono in difficoltà di fronte all’enorme contraddizione generata dalla crisi ecologica e fanno ricorso agli strumenti dell’antiterrorismo, alzando così il livello dello scontro in una direzione che era già prevista da numerose analisi e ricerche sul tema e che non deve sorprenderci.
Per questo abbiamo deciso di tradurre e documentare quello che sta succedendo in Francia, anche perché pensiamo che nonostante la generosità estrema di tanti/e attivisti/e ecologisti/e che si impegnano quotidianamente nel nostro paese sia necessario uno scatto di creatività e di determinazione all’altezza della situazione drammatica che stiamo vivendo.
Dopo diversi mesi di esitazione e tentennamenti, il governo ha finalmente deciso di mettere in atto le sue minacce. Durante il Consiglio dei ministri di mercoledì 21 giugno, il presidente della Repubblica, il primo ministro e il ministro dell’Interno hanno firmato il decreto di scioglimento del “raggruppamento di fatto” Soulèvements de la Terre. All’alba del giorno prima, diciassette persone erano state arrestate e le loro case perquisite nell’ambito di due distinte inchieste: una sullo smantellamento dell’impianto Lafarge[1] a Bouc-Bel-Air il 20 dicembre scorso, l’altra sulle manifestazioni a Sainte-Soline.
Poiché molto è già stato detto e scritto su questo scioglimento, sia dai nostri colleghi e colleghe della stampa che dagli stessi Soulèvements de la Terre, ci concentreremo qui su ciò che ci sembra essenziale.
SCIOGLIMENTO E STATO DI EMERGENZA
Dal punto di vista del governo, questa decisione di sciogliere i Soulèvements de la Terre è allo stesso tempo una misura forte e un’ammissione di fallimento.
Il governo francese ha appena avviato la procedura di “scioglimento” per il movimento Soulèvements de la Terre.
Ma ciò che cresce ovunque non può essere dissolto.
Soulèvements de la Terre ha rilanciato.
La rete è più viva che mai. Nuovi sollevamenti crescono ovunque, in difesa dei territori e del nostro futuro.
Tutta la nostra solidarietà.
Qui sotto il loro più recente comunicato.
Il 21 giugno, in consiglio dei ministri, il governo ha avviato la procedura di scioglimento di Soulèvements de la Terre. Dopo averci tirato in faccia le sue granate, ora sostiene che non abbiamo più il diritto di esistere insieme e di organizzarci. Il governo sta cercando di dissolvere un sollevamento con tutti i mezzi che ha a disposizione – anche arrestando gli/le attivisti/e nelle loro case, come è successo il 20 giugno.
Dai sinistri uffici di piazza Beauvau, questo scioglimento si prefigurava come una mannaia. Doveva essere la fine della storia. Eppure le voci che si diffondono nel Paese, dove le speranze ancora germogliano, raccontano una storia diversa. Sussurri contagiosi e innumerevoli slanci di solidarietà ci ricordano che i peggiori attacchi a volte producono rovesci inaspettati.
E se questo scioglimento fosse in realtà un invito ministeriale a unirsi in un grande movimento di resistenza? Una rete che vanta già 110.000 membri, 180 comitati locali e tante persone impegnate nella vita pubblica, nei collettivi e nei sindacati. Un movimento che si pretende di vietare ma che è collettivamente inarrestabile, preso di mira dalle autorità ma radicato nei territori, presente nei luoghi di lavoro e nelle scuole, nei fienili e negli scantinati, fino al cuore delle amministrazioni. Il governo sosteneva che saremmo scomparsi, in realtà diventiamo ogni giorno più visibili.
Il 1° maggio, in attesa di salutari sommosse e scioperi generali per fare “come in Francia”, qualcuno di noi ha partecipato alla manifestazione nazionale di Pesaro contro la costruzione di un biolaboratorio di “alta sicurezza” (ovvero di “alta pericolosità”) dell’Istituto zooprofilattico sperimentale Umbria-Marche, che è solo un tassello nella rete di nuovi biolaboratori previsti in Italia. Circa 8.000 le presenze, in larga parte provenienti dai movimenti contro il green pass; qualche influencer del dissenso sul palco ad arringare follower dall’età media decisamente alta, un crescendo di condivisioni social di immagini e video e un corteo silenzioso sfilato nel deserto della periferia. Eppure, nella ridondante e a tratti fumosa accozzaglia di discorsi (rivolti al popolo che – anche giustamente – non si fida dei poteri forti) c’è un nucleo di argomentazioni che nutrono la critica sociale e che hanno portato diversi anarchici ed ecologisti radicali a manifestare a Pesaro.
È necessario mantenere lucidità di analisi e capacità di adattare i propri paradigmi di pensiero alla veloce evoluzione del contesto contemporaneo, se vogliamo decifrare una società assediata dalle nocività e dai danni del suo stesso sviluppo, che tenta di difendersi accelerando la corsa senza limite delle biotecnologie, medicalizzando ogni aspetto della sua misera esistenza, puntando non solo a controllare ma a manipolare le basi della vita. Dietro a tutto questo non c’è la promozione della “salute”, ma le logiche di potere e di profitto, la lunga mano della ricerca militare, la visione di un’umanità sempre più dipendente dalle tecnologie, sempre meno in equilibrio con il pianeta che la ospita, sempre meno capace di autonomia nel suo stare al mondo, confinata a una vita controllata e sicura, a misura di stabulario.
Pochi giorni dopo, il 6 maggio, mentre stavamo chiudendo il numero, l’iniziativa del movimento femminista e transfemminista Non una di meno ha portato in piazza ad Ancona più di 2.000 persone per denunciare lo schifo del “modello Marche” di applicazione delle politiche anti-abortiste e bigotte della destra di governo. Dai soliti noti della sinistra di palazzo, fino ai Centri sociali delle Marche, c’erano proprio tutti/e, ma mentre il corteo colorato e giovane arrivava sotto la statua dell’imperturbabile conte Cavour, poche centinaia di metri più in là i padroni della città gongolavano protetti da tutto l’arsenale della questura anconetana. E, due giorni dopo, il centro cittadino ha ospitato festante il comizio di Meloni, Salvini e Tajani a sostegno del candidato del centro-destra. Una città forse troppo al passo con i tempi, quelli cupi.
Ieri (07 maggio) a Kiev, in una località che è stata tenuta segreta per motivi di sicurezza, si è svolta la commemorazione di tre volontari internazionalisti caduti in combattimento a Bakhmut il 19 aprile, quasi impercettibili tra le centinaia di vite che vengono falciate ogni giorno dalla guerra sul lato ucraino e russo.
Questi tre uomini hanno però un significato particolare perché raccontano una storia minoritaria ma per noi molto importante all’interno della tragedia in corso. Dmitriy «Leshy» Petrov, Finbar «Chia» Cafferkey e Cooper «Harris» Andrews erano tutti e tre internazionalisti e attivisti antifascisti nei loro paesi. La piccola celebrazione in forma privata ha coinvolto decine di attivisti ucraini e di altre nazionalità, insieme ad alcuni familiari giunti dall’estero per l’occasione.
A Kiev dall’inizio della guerra esiste infatti una piccola ma resiliente rete di volontari/e, attivisti/e, militanti che nonostante e contro le difficoltà della guerra lottano per l’emancipazione sociale, sostengono lotte sindacali, forme di mutuo appoggio, forniscono sostegno materiale ed emotivo alle vittime della guerra e mantengono viva una elaborazione politica critica verso la società ucraina mentre al tempo stesso partecipano alla sua difesa. La cerimonia è stato un momento di emozione intensa, in cui sono emerse le biografie di questi uomini che nel momento della morte hanno mostrato controluce le aspirazioni, le passioni, le difficoltà di milioni di esseri umani che lottano per la liberazione in questo mondo in fiamme.
La propaganda russa anche in Italia sta tentando in questi giorni, inutilmente, di infangare il loro nome e la loro traiettoria di lotta con fantasiose ricostruzioni che raccontano una inesistente collaborazione o subordinazione alle forze neonaziste ucraine. Chi conosce la storia, l’etica e la pratica di questi compagni caduti o chi si sia preso il disturbo di passare anche solo qualche giorno in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo capisce che quelle che circolano sui canali filorussi sono solo manipolazioni e infamie.
Tuttavia è importante fermarsi a raccontare e approfondire la storia e il profilo di questi attivisti perché essi mostrano una ricchezza umana, un coraggio e una capacità di visione del futuro che dobbiamo difendere e rafforzare nella nostra pratica quotidiana. Nelle loro biografie, infatti, la guerra non appare come un valore in sé o come qualcosa da celebrare, ma come un elemento tragico e inevitabile nei conflitti per l’emancipazione delle classi subalterne. C’è un filo rosso che unisce le lotte nelle metropoli degli Stati Uniti e della Russia, nelle campagne dell’Irlanda e del Rojava, con quello che sta succedendo oggi sul fronte est dell’Ucraina.
Il 26 marzo scorso nella località rurale di Sainte-Soline si è svolta una grande azione di protesta del movimento Soulèvement de la Terre contro un progetto di costruzione di un mega-bacino artificiale e di privatizzazione delle acque agricole.
La violenza della repressione ha sconvolto la Francia, già attraversata da manifestazioni molto radicali. Perché lo Stato ha difeso un buco coperto di plastica lanciando più di 5.000 granate (potenti più di una bomba carta) ferendo centinaia di persone di cui due gravemente?
Perché, nonostante questo, le proteste continuano e il sostegno popolare a pratiche radicali di sabotaggio ecologista sta crescendo?
I nostri amici di Lundimatin hanno pubblicato otto pagine di una relazione dei SRCT, l’equivalente della nostra Digos, che spiegano perché lo Stato teme Soulèvement de la Terre: perché funziona!
Spesso le parole dei nostri nemici sono in grado di descrivere meglio di tanta retorica “dei compagni” lo stato di salute di un movimento sociale, nella misura in cui esso è in grado di svolgere la sua necessaria e per noi benefica funzione di minacciare l’ordine costituito.
Con questo testo vogliamo aprire una sezione di approfondimento su quello che sta succedendo in Francia e sulle possibilità di relazione e di apprendimento – quanto mai necessario – per le lotte territoriali in Italia.
Stando alle dichiarazioni del ministro dell’Interno Gérald Darmanin, lo scioglimento di Soulèvements de la Terre sarebbe giustificato dagli «eventi inqualificabili» che si sono verificati a Sainte-Soline e «dall’estrema violenza di gruppuscoli che sono nel mirino dei servizi di intelligence da molti anni».[1] Tuttavia, un rapporto del Service central du renseignement territorial in riferimento a Soulèvements de la Terre getta una luce completamente diversa su questo annuncio. Leggendo infatti questa nota confidenziale sorprendentemente elogiativa si capisce che al di là del pretesto della violenza, se il ministro cerca di sciogliere il movimento, è perché questo ha successo!
In che senso ha successo? Il nocciolo della questione è questo: attraverso una serie di analisi elogiative che fanno riferimento alla capacità di federarsi, di uscire dal letargo politico e di avere un impatto reale sui progetti distruttivi per l’ambiente, ci viene spiegato in otto pagine che il problema fondamentale con questo movimento è che invece di fare la sua bella contestazione entro i limiti stabiliti riesce ad incidere in campo politico. Ciò che il governo indica, facendo seguire a questa nota di intelligence un tentativo di scioglimento, è che per lui, d’ora in poi, qualsiasi opposizione efficace che intralci le sue politiche – e quelle delle lobby finanziarie e industriali che lo sostengono – deve scomparire. Sciogliere tutta l’opposizione, anche se ciò significa farlo in un bagno di sangue prima di raggiungere i meandri dei tribunali.
Al di là di questa trasparente visione delle motivazioni del governo, il compitino scritto da un sociologo di polizia sfidato dalla vivacità del suo soggetto risulta tuttavia falsato dalla manifesta incapacità di percepire il movimento per quello che realmente è. Invariabilmente, tutto ciò che è effervescenza, rete, coalizione viene ridotto – per meglio incriminarlo in seguito – alla supervisione di un gruppo dirigente. Soprattutto, è necessario dare l’impressione che le persone e i gruppi che agiscono siano guidati solo da motivazioni fredde e strumentali e che vogliano opportunisticamente dirottare la causa ecologista e contadina verso una ricerca puramente astratta di motivi di scontro e violenza. Ma come stupirsi che dei funzionari, che scrivono dalle loro scrivanie al servizio di un governo che si ostina a distruggere terre coltivabili, foreste, fattorie, fiumi ecc., non riescano a capire e ad afferrare quel che viene difeso e costruito, i legami, la solidarietà e le gioie che ne derivano? Non sorprende nemmeno che gli autori del rapporto riducano tutto il fermento politico locale e decentralizzato, a cui Soulèvements de la Terre fa da eco e da catalizzatore, al rigido assetto verticistico che è il solo che conoscono.
Al di là della povertà delle loro analisi, è chiaro che se negli ultimi due anni folle crescenti non si sono accontentate di marciare ma hanno cercato gesti diretti per bloccare cantieri, per impedire il saccheggio dell’acqua o dei terreni, è perché si avverte un’urgenza vitale di agire. Tentativo di dissoluzione o meno, repressione brutale o meno, questo senso di urgenza non potrà che aumentare finché i decisori politici continueranno a promuovere infrastrutture che incarnano una violenza ecologica e sociale che molte persone hanno ormai scelto di affrontare.
Il 30 marzo, il quotidiano “Le Monde” ha pubblicato un articolo intitolato Nous sommes les Soulèvements de la Terre in cui decine di attori/trici, artisti/e, parlamentari e scrittori/trici hanno rivendicato di far parte del movimento. Attualmente conta più di 20.000 firme.
Liberamente tratto da “Superintelligenza” di Nick Bostrom
ChatGPT è in pieno sviluppo. Dove arriverà? Molti scienziati stanno già mettendo in guardia sui possibili imprevedibili sviluppi dell’Intelligenza artificiale. Un’intelligenza che può crescere in maniera esponenziale, al di fuori dei limiti di un cervello biologico.
Senza dover diventare specialisti delle nuove frontiere della ricerca tecnologica, sapere in che direzione stanno andando le sue strade ci permette di comprendere le logiche che la sottendono e intravedere gli sviluppi futuri, motivando la nostra critica che, prima di essere tecnica, è sociale e politica.
Per capire cos’è l’Intelligenza artificiale – che non è solo ChatGPT, ma ben di più – pubblichiamo degli estratti dal libro “Superintelligenza” di Nick Bostrom (Bollati Boringhieri, 2018; ed. originale: 2014). L’autore non è certo un rivoluzionario luddista, il contrario. È un filosofo e scienziato di origine svedese, che è stato a lungo uno dei principali sostenitori del potenziamento umano, fondatore della World Transhumanist Association, direttore del Future of Humanity Institute. Insomma, tutto meno che un nostro compagno di strada. Bostrom però, con la sua profonda e non acritica conoscenza dell’argomento, riesce a descrivere in maniera chiara e divulgativa tematiche di grande complessità e a mettere in guardia sulle nubi minacciose che si addensano all’orizzonte.
Il pericolo che il genere umano corre con lo sviluppo artificiale delle superintelligenze è di portata esistenziale, perché in mano ad apprendisti stregoni incapaci di fermare gli spiriti che stanno evocando.
L’articolo è lungo, mettetevi comodi.
Le vie per arrivare alla superintelligenza
Per il momento le macchine sono di gran lunga inferiori agli esseri umani quanto a intelligenza generale, tuttavia un giorno saranno superintelligenti, cioè dotate di un intelletto che supererà di molto le prestazioni degli esseri umani, in tutti i campi. Come arriveremo a questa situazione futura? Iniziamo esplorando le diverse strade che possono portare l’umanità allo sviluppo di una superintelligenza: l’Intelligenza artificiale è solo una tra queste.
Nelle ultime settimane, il coraggio e la creatività delle proteste francesi hanno generato nel pubblico italiano un misto di vergogna e incredulità. Ma come, noi ci siamo fatti fregare e mazziare per anni senza dire niente e questi fanno il diavolo a quattro per molto meno?
Inutile insistere sulla corruzione dei nostri sindacati confederali, sulla viltà di chi ancora usa lo spauracchio di Genova 2001 per giustificare la sua passività rispetto alla violenza della polizia o su fantasmagoriche ricostruzioni storiche o antropologiche sulla diversità dei francesi rispetto al presunto carattere subalterno dei popoli mediterranei.
“Chi parla male, pensa male, vive male”, diceva bene uno che di vivere male nello stagno della sinistra italiana se ne intende.
Allora è meglio ascoltare direttamente le parole, nate da una pratica arricchita da un dibattito politico e culturale sincero, che sorgono dal fuoco delle lotte.
E provare a imparare qualcosa perché ne abbiamo estremo bisogno.
Dopo l’annuncio del ricorso all’articolo 49.3 – che ha permesso l’approvazione della riforma delle pensioni senza il voto parlamentare – la mobilitazione contro tale riforma si è riaccesa. Scioperi, blocchi, manifestazioni diurne e marce notturne si moltiplicano e si rafforzano. Con una preoccupante fuga in avanti, il governo di Emmanuel Macron ha scelto di intensificare la sua brutalità. Nelle strade le squadre di polizia sono in agguato, intimidiscono, colpiscono, arrestano e feriscono. Ogni giorno i social network diffondono nuove spaventose immagini di abiezione da parte della polizia, e qualcuno si ostina ancora a incolpare le solite “mele marce”. In realtà, il governo lascia al movimento solo due opzioni. La prima, quella che il potere desidera, consiste nel tornare tutti a casa, più o meno terrorizzati ma sicuramente sconfitti. La seconda opzione sta nel rendere più articolata l’azione di piazza, mettendo in campo nuovi metodi e strategie per evitare la violenza e approfondire la solidarietà. Questo testo propone alcune strade in questo senso.
Questioni
Dopo aver fatto una coraggiosa apparizione in diverse città il 7 marzo, prima di eclissarsi parzialmente l’11 e il 15 dello stesso mese, il Cortège de tête [testa del corteo in cui, dal 2016, hanno iniziato a ritrovarsi militanti radicali decisi ad alzare la conflittualità e rispondere alla repressione, insieme ad altre, eterogenee, componenti][1] ha fatto irruzione nelle grandi città il 23 marzo, alimentato, arricchito e rinfocolato da una settimana di continue manifestazioni selvagge, in particolare a Parigi, dove la prospettiva di andare fuori dal percorso stabilito ha galvanizzato i manifestanti. La giornata di giovedì 23 marzo ha smentito la contrapposizione tra modalità selvaggia e modalità de tête, ponendo l’articolazione strategica delle due forme come sfida per la settimana successiva.
L’obiettivo di questo articolo non è quello di passare in rassegna tutte le implicazioni della giornata del 23 – altri probabilmente lo faranno meglio – ma di avanzare una proposta per contribuire all’articolazione di queste due modalità.