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Marche

Ma cosa vuoi che sia una canzone…

Di Luigi

La mattina del 7 settembre 1894, il delegato di polizia di Fano, Achille Riello, si siede alla sua scrivania, estrae dal cassetto un foglio di carta intestata al Regio ufficio di pubblica sicurezza, impugna la penna e redige una nota diretta al procuratore del Re. Oggetto: «manifestazioni sovversive». Da informazioni confidenziali ricevute qualche giorno addietro, risulterebbe che la sera di domenica 2 settembre, intorno alle ore 19.00, nell’osteria fuori porta Cavour, alcuni individui non ancora identificati ma descritti come «una comitiva di anarchici socialisti» abbiano intonato canzoni proibite dalla legge.

Appena ricevuta la segnalazione, l’ufficio di polizia si era subito messo in moto. L’indagine era partita con l’interrogatorio dei conduttori dell’osteria, i coniugi Laura Latini e Achille Pandolfi, i quali riferivano che quella domenica, nel cortile del loro esercizio, erano presenti circa settanta persone divise in vari gruppi, da uno dei quali – è vero – tra un bicchiere e l’altro si erano levate «alcune canzoni popolari». In prima battuta, Latini e Pandolfi affermano di aver riconosciuto tra i canti l’Inno dei lavoratori, ma poi confermano all’interrogante che le strofe udite contenevano le parole «bandiera rossa e nera». Pertanto, il delegato Riello non ha dubbi: non si tratterebbe dell’Inno dei lavoratori, ma del ben più famigerato Inno della canaglia.

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Banditi della Marca del Sud

Intervista di Luigi a Raoul Dalmasso

L’intervista a Raoul Dalmasso – autore di Storia dei Quaranta, ovvero La verissima storia de li quaranta banditi di Amandola che se ne andarono a menar guerra al Turco, Edizioni Malamente, 2024) – è uscita su Rivista Malamente #34, ott. 2024. Raoul ci accompagna in un lungo viaggio tra potere e contropotere nelle Marche del Cinquecento, sulla scia dei banditi protagonisti della “Storia dei Quaranta”. Il libro è disponibile sul nostro sito e in tutte le librerie.

Con la tua “Storia dei Quaranta” ci proponi un romanzo storico ambientato nel XVI secolo. È la storia di una compagnia di banditi di Amandola (piccolo paese sui Monti Sibillini, nelle Marche) che attraverso molteplici vicissitudini si ritrova a combattere contro i turchi a Famagosta. Ci sono una trama e un’ambientazione complesse, tradotte in una narrazione “pop” e accattivante, un sottofondo di humor ma anche etico e politico e altre caratteristiche che potrebbero farci classificare il tuo libro nel cosiddetto genere New italian epic (se ancora esiste…). Senti calzante questa etichetta?

Sì. Direi che se si volesse proprio classificare S40 sotto un genere letterario questo sarebbe il NIE. Wu ming 1, proponente della definizione, definisce il New Italian Epic come una “nebulosa” di opere aventi alcuni elementi in comune ma altrimenti diversissime fra loro. Una definizione piuttosto ampia che può accogliere tranquillamente il mio scritto. A mio avviso è principalmente una caratterista del mio libro a renderlo parte della nebulosa, ed è la sua natura ibrida. Storia dei Quaranta, infatti, ha diversi livelli di lettura. Sicuramente è un romanzo storico (“cappa e archibugio”, se vogliamo), e lo stile narrativo è volutamente pop. I fatti narrati sono truci e sanguinosi, il tono è hardcore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalla forma: non si tratta di un’opera di fantasia. O meglio: lo è, ma solo in minima parte. Per questo motivo S40 può essere letto indifferentemente come un romanzo d’avventura o come una trattazione storica di eventi che ebbero luogo nel decennio 1565-1575 nella Marca Anconitana dello Stato Pontificio e più in generale nel Mediterraneo. Dipende da chi legge.

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Il progetto Edison per un impianto di trattamento rifiuti pericolosi a Jesi

Intervento di Augusto De Sanctis

Qualche settimana fa si è tenuto a Jesi (AN) l’incontro pubblico “Ad alto rischio ambientale. L’impianto Edison di trattamento rifiuti pericolosi alla ZIPA” con l’intervento di Augusto De Sanctis, attivista ecologista e autore di pubblicazioni scientifiche in campo ambientale. De Sanctis ha presentato un’analisi critica del progetto, basata sulla documentazione ufficiale, mettendone in luce le profonde criticità ambientali, sanitarie e sociali. Un progetto che in nome di ben precisi interessi privati si vorrebbe imporre al territorio, in un’area prossima al centro cittadino e a quartieri ad alta densità abitativa. Fermarlo non è facile, ma necessario.

Conosciamo Edison. Noi l’abbiamo incontrata e battuta in una campagna storica, quella del sito inquinato di Bussi, in provincia di Pescara, uno dei siti più inquinati del mondo. Ci siamo occupati di quel sito a partire dal 2007 e abbiamo ottenuto l’individuazione di Edison come responsabile della contaminazione; ora non solo l’azienda deve procedere alla bonifica, ma c’è un procedimento in corso al tribunale civile, con in ballo un risarcimento danni da un miliardo e mezzo di euro. Quindi, quando ho saputo del progetto di una società del gruppo Edison qui a Jesi mi sono subito attivato e informato e, come sempre faccio, sono andato a vedere “le carte”, perché sulle carte bisogna intanto cominciare a discutere. Io sono un attivista da tanti anni, mi occupo molto di valutazioni di impatto ambientale. Allo stato attuale il progetto è in questa fase, una fase centrale che prevede la partecipazione del pubblico; chiunque può infatti proporre delle osservazioni, e ancor di più lo dovrebbero fare l’amministrazione di Jesi e quelle dei paesi limitrofi, perché chiariamo subito un concetto: questo è un progetto di scala nazionale (a mio avviso anche extranazionale) per la quantità di rifiuti che vogliono gestire e quindi, come minimo, l’attenzione deve essere alta in tutto il territorio della provincia.

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Una storia, mille storie

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicoletta Grammatico

Questo racconto è stato ricostruito sulla base delle interviste concessemi da Scilla e Anna, che ringrazio moltissimo. La testimonianza in prima persona è funzionale a restituire una storia intima, che da personale si fa collettiva, per trasportare lettori e lettrici nel vivo di una narrazione vissuta sulla propria pelle e sui propri corpi da molte donne. Dai racconti raccolti emerge come, nello specifico della regione Marche ma non solo, sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza sia sulla carta un diritto, nella realtà viene sempre più spesso ostacolata e negata. Oggi abortire nelle Marche è diventato molto complicato: con il personale medico obiettore che invade i reparti ospedalieri e la promozione di associazioni pro-vita, la legge 194 ha subito un duro colpo e con essa anche la libertà di scelta individuale. Queste storie ne sono una testimonianza diretta.

¶ Non ho mai pensato di voler diventare mamma. No, non l’ho mai voluto. Nemmeno da piccola quando le altre bambine del quartiere giocavano a mamma e figli. Non volevo essere mamma nemmeno per gioco. Così fu per me facile decidere di abortire quando scoprii di essere incinta, meno facile fu invece trovare chi mi facesse abortire. Tante volte mi sono chiesta dove finisca la linea dell’aspettativa sociale e inizi quella della volontà soggettiva, dell’autodeterminazione. Nelle varie storie di aborto che ho ascoltato, e nella mia esperienza, la percezione che ne ricavavo era che la prima trainasse inesorabile la seconda, la scelta non era assecondata se contrastava il modello sociale imposto. A chiunque mi domandi: «ma non hai avuto paura?», rispondo sempre allo stesso modo: «ho veramente avuto paura, paura di non riuscire ad abortire».

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Lo stato dei fiumi nelle Marche

Intervista di Luigi a Fabio Taffetani – da Rivista Malamente #27, dic. 2022

Qual è lo stato dei fiumi e dei bacini fluviali delle Marche? Quali interventi si sono rivelati inutili se non dannosi, compromettendo biodiversità e funzionalità dei corsi d’acqua, e quali invece andrebbero incoraggiati? Come mantenere una visione d’insieme, che superi la presunta “messa in sicurezza” di singoli tratti fluviali per prendersi cura in maniera integrata del territorio? Abbiamo discusso di questi temi con Fabio Taffetani, professore ordinario di Botanica presso l’Università Politecnica delle Marche (Ancona), esperto di questioni ambientali riguardanti in particolare il territorio marchigiano.

In estrema sintesi, quali sono le caratteristiche di un ambiente fluviale?

Nei fiumi, indipendentemente dalla loro importanza e portata, possiamo distinguere un tratto montano, che comprende la sorgente, lungo il quale le acque scorrono rapide e prevalentemente su un letto incassato su roccia spinte da una pendenza significativa, ben differenziato da un tratto intermedio, spesso il più importante ed esteso, dove le acque scorrono più lentamente assumendo un andamento meandriforme, rimaneggiando a ogni piena il proprio letto, formato dai detriti continuamente sedimentati o erosi nel corso dei secoli. Infine si arriva alla foce, al contatto con il mare, dove le acque lentamente si immettono e si mescolano con quelle del mare, dando spesso origine ad aree umide. Ambienti umidi che sono assai rari nel caso della costa marchigiana, e quindi estremamente importanti per gli spostamenti degli uccelli migratori. I fiumi marchigiani, così come la gran parte dei fiumi dalla Romagna fino al Molise, procedono paralleli tra l’Appennino e la costa adriatica, con l’eccezione del Nera che si versa sul Tirreno. Come tutti i fiumi, anche quelli marchigiani presentano un’elevata biodiversità e costituiscono attualmente una delle poche vie di collegamento della REM (Rete ecologica marchigiana), un corridoio ecologico divenuto pressoché unico e indispensabile per la vita di tutte le specie, sia vegetali che animali in un paesaggio collinare ormai completamente desertificato dall’agricoltura industriale e dalle diverse forme di urbanizzazione.

Andando subito ad analizzare i fattori che hanno reso la recente alluvione così devastante, al di là del fiume come corso d’acqua strettamente inteso c’è da considerare tutto il bacino circostante, cioè quel territorio dove si raccolgono e scorrono le acque piovane. Le colline marchigiane sono in gran parte terreni coltivati: quanto incide l’attuale modello di agricoltura industriale sulla gestione del suolo, sulla sua stabilità e sulla capacità di assorbire le precipitazioni?

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Antichi Piceni e Romani: una storia popolare di guerre, insurrezioni e rivolte

Di Joyce Lussu [QUI IL PDF]

Con questo testo di Joyce Lussu (da Malamente #25) facciamo un salto nella storia antica dei nostri territori. Lo abbiamo ripreso, riducendolo e adattandolo, dalla sua “Storia del Fermano”, pubblicata nel 1970 (prima da Lerici, poi da Marsilio editore): un libro che Joyce Lussu aveva pensato per le scuole superiori e che era stato accolto quasi come una provocazione verso il modo comunemente accettato di “fare storia”. È un racconto che ci parla dei nostri antenati sovrapponendo alla freddezza delle fonti la passione della ricerca, con il cuore dalla parte giusta, quella ostile ai potenti di ogni epoca.

Il territorio dei Piceni (Pangea Comunicazione)

Chi erano i piceni?

Non si sa bene quando arrivarono (le ipotesi variano dal X al VI secolo avanti Cristo) né da dove. Sembra però, da quanto è lecito ricostruire dai reperti archeologici e dagli scarsi documenti, che i piceni venissero dalla Sabina, probabilmente dalla zona di Rieti, in cerca di terre fertili da coltivare. Era usanza normale che gruppi si staccassero dalle tribù originarie per cercare nuovi insediamenti, quando nei vecchi la terra era troppo sfruttata o troppo aumentato il numero delle persone. Queste emigrazioni avvenivano in primavera, per avere il tempo di seminare i cereali nella nuova sede e non erano spedizioni militari conquistatrici, ma pacifiche trasmigrazioni di contadini, che si muovevano in lunghi cortei con le donne, i bambini, le mandrie e le greggi, con i carri colmi di suppellettili e di attrezzi, con i simboli degli dei protettori e le insegne che indicavano l’identità della tribù. Giovani armati proteggevano il corteo da eventuali ostilità della natura e degli uomini; ma si preferivano le terre non contestate e la trattativa e l’accordo con le tribù incontrate lungo il cammino. Quello che appare certo, è che l’immigrazione dei piceni non avvenne estromettendo con la violenza le popolazioni che abitavano la zona in precedenza, ma mescolandosi ad esse e allargando l’area delle coltivazioni.

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La vita è un gioco, a punti

Di Captain Swing [QUI IL PDF]

Tutto è misurabile al giorno d’oggi. Le «rigogliosità non qualificabili» della vita – per dirla con Vaneigem – vengono tranquillamente incasellate, pesate e ricondotte alla loro «forma economica», la sopravvivenza. Tutto molto razionale ed efficiente. E così, se la giornata si compone di piccole azioni quotidiane, perché non scorporarle e attribuire loro un valore? Che ci si sia alzati dal letto col piede giusto o con quello sbagliato poco importa, purché le regole del gioco della vita siano chiare: una sequenza di punti da guadagnare, di classifiche da scalare, di bonus da ottenere ci aspettano là fuori. Quanto più ci si comporta bene e si adotta uno stile di vita sostenibile, tanto più aumenteremo il nostro punteggio.

Stiamo parlando dei wom, voucher digitali che rappresentano l’unità di misura con la quale si soppesa il valore sociale generato dalle azioni quotidiane degli individui, permettendo di premiare i comportamenti virtuosi (in attesa che le regole del gioco vengano implementate per punire i comportamenti viziosi, dissoluti, immorali, criminosi). Per ogni minuto di azione positiva si guadagna un wom. Il presupposto di partenza è che ci siano azioni individuali che generano delle “esternalità positive”, che hanno cioè un valore sociale, quantificabile. Queste azioni, opportunamente registrate, fanno guadagnare punti che poi, raggiunte certe soglie, possono essere spesi sotto forma di voucher nell’economia reale.

Dietro questo gioco c’è l’azienda Digit srl, spin-off universitario già sviluppatore di una pletora di soluzioni tecnologiche che quando va bene sono inutili ma molto più spesso veicolano una visione del mondo in cui la tecnologia ha già vinto la partita, ha già imposto la forma attorno alla quale si deve modellare la materia organica e all’essere umano non resta che asservirsi alla sua logica e alle sue modalità di relazione.

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Un normale disastro di provincia

Di Vittorio

Fin dalla notte di giovedì 15 settembre in molti avevamo percepito la gravità della situazione. Insieme ai compagni e alle compagne delle Brigate volontarie per l’emergenza (BVE) che vivono a Senigallia avevamo discusso molte volte dell’eventualità di una nuova alluvione e di cosa fare per rispondere ad essa, ma a causa della scarsa preparazione tecnica e della mancanza di una relazione con il sistema comunale di Protezione civile poco abbiamo potuto fare se non allertare amici e vicini e tirare fuori gli stivali di gomma.

Nella notte il fiume Misa è esondato a più riprese. Alla mattina lo scenario era peggiore di quello dell’alluvione del 2014. La città era allagata in più punti, dal centro alle periferie. I paesi a monte vicini al fiume erano pesantemente colpiti, Arcevia e Barbara avevano molti ponti inagibili e grandi frane. I morti davvero troppi.

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