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Banditi della Marca del Sud

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Intervista di Luigi a Raoul Dalmasso

L’intervista a Raoul Dalmasso – autore di Storia dei Quaranta, ovvero La verissima storia de li quaranta banditi di Amandola che se ne andarono a menar guerra al Turco, Edizioni Malamente, 2024) – è uscita su Rivista Malamente #34, ott. 2024. Raoul ci accompagna in un lungo viaggio tra potere e contropotere nelle Marche del Cinquecento, sulla scia dei banditi protagonisti della “Storia dei Quaranta”. Il libro è disponibile sul nostro sito e in tutte le librerie.

Con la tua “Storia dei Quaranta” ci proponi un romanzo storico ambientato nel XVI secolo. È la storia di una compagnia di banditi di Amandola (piccolo paese sui Monti Sibillini, nelle Marche) che attraverso molteplici vicissitudini si ritrova a combattere contro i turchi a Famagosta. Ci sono una trama e un’ambientazione complesse, tradotte in una narrazione “pop” e accattivante, un sottofondo di humor ma anche etico e politico e altre caratteristiche che potrebbero farci classificare il tuo libro nel cosiddetto genere New italian epic (se ancora esiste…). Senti calzante questa etichetta?

Sì. Direi che se si volesse proprio classificare S40 sotto un genere letterario questo sarebbe il NIE. Wu ming 1, proponente della definizione, definisce il New Italian Epic come una “nebulosa” di opere aventi alcuni elementi in comune ma altrimenti diversissime fra loro. Una definizione piuttosto ampia che può accogliere tranquillamente il mio scritto. A mio avviso è principalmente una caratterista del mio libro a renderlo parte della nebulosa, ed è la sua natura ibrida. Storia dei Quaranta, infatti, ha diversi livelli di lettura. Sicuramente è un romanzo storico (“cappa e archibugio”, se vogliamo), e lo stile narrativo è volutamente pop. I fatti narrati sono truci e sanguinosi, il tono è hardcore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalla forma: non si tratta di un’opera di fantasia. O meglio: lo è, ma solo in minima parte. Per questo motivo S40 può essere letto indifferentemente come un romanzo d’avventura o come una trattazione storica di eventi che ebbero luogo nel decennio 1565-1575 nella Marca Anconitana dello Stato Pontificio e più in generale nel Mediterraneo. Dipende da chi legge.

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Il progetto Edison per un impianto di trattamento rifiuti pericolosi a Jesi

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Intervento di Augusto De Sanctis

Qualche settimana fa si è tenuto a Jesi (AN) l’incontro pubblico “Ad alto rischio ambientale. L’impianto Edison di trattamento rifiuti pericolosi alla ZIPA” con l’intervento di Augusto De Sanctis, attivista ecologista e autore di pubblicazioni scientifiche in campo ambientale. De Sanctis ha presentato un’analisi critica del progetto, basata sulla documentazione ufficiale, mettendone in luce le profonde criticità ambientali, sanitarie e sociali. Un progetto che in nome di ben precisi interessi privati si vorrebbe imporre al territorio, in un’area prossima al centro cittadino e a quartieri ad alta densità abitativa. Fermarlo non è facile, ma necessario.

Conosciamo Edison. Noi l’abbiamo incontrata e battuta in una campagna storica, quella del sito inquinato di Bussi, in provincia di Pescara, uno dei siti più inquinati del mondo. Ci siamo occupati di quel sito a partire dal 2007 e abbiamo ottenuto l’individuazione di Edison come responsabile della contaminazione; ora non solo l’azienda deve procedere alla bonifica, ma c’è un procedimento in corso al tribunale civile, con in ballo un risarcimento danni da un miliardo e mezzo di euro. Quindi, quando ho saputo del progetto di una società del gruppo Edison qui a Jesi mi sono subito attivato e informato e, come sempre faccio, sono andato a vedere “le carte”, perché sulle carte bisogna intanto cominciare a discutere. Io sono un attivista da tanti anni, mi occupo molto di valutazioni di impatto ambientale. Allo stato attuale il progetto è in questa fase, una fase centrale che prevede la partecipazione del pubblico; chiunque può infatti proporre delle osservazioni, e ancor di più lo dovrebbero fare l’amministrazione di Jesi e quelle dei paesi limitrofi, perché chiariamo subito un concetto: questo è un progetto di scala nazionale (a mio avviso anche extranazionale) per la quantità di rifiuti che vogliono gestire e quindi, come minimo, l’attenzione deve essere alta in tutto il territorio della provincia.

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G7: rituali e maschere sul palcoscenico della provincia italiana

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Di Vittorio Sergi

Da Rivista Malamente n. 34, ott. 2024

Ogni società ha i suoi rituali politici. La nostra non fa eccezione. Nel 1975 attorno a un grande tavolo fiorito, in una sala regale del castello di Rambouillet in Francia, sotto le luci dei riflettori e l’obiettivo delle telecamere ancora analogiche, si riunirono i capi di stato e di governo di sei paesi. Erano le prime nazioni industrializzate del mondo, tutte potenze coloniali e sorprendentemente ne faceva parte anche l’Italia. L’idea pare sia stata dei presidenti di Francia e Germania, per provare a mettere una pezza su una delle più importanti crisi del capitalismo occidentale dopo il boom degli anni Cinquanta e Sessanta: austerità economica, crisi petrolifera, giovani che non ne vogliono più sapere di lavorare. Se vogliamo vederla dalla parte dei capitalisti possiamo parlare di ristrutturazione o rivoluzione neo-liberale: si era infatti negli anni in cui la prospettiva di innovazione socialista di Allende in Cile era stata sconfitta con argomentazioni di piombo e in Europa la lunga ondata di rivolta giovanile del Sessantotto stava combattendo anche con le armi in pugno ma si avviava sulla sua parabola discendente.

Il rituale, dunque, funziona così: i grandi capi del vapore si siedono e discutono con la faccia seria e usano le parole giuste. Poi tutte queste iniziative si concludono immancabilmente con cene di dubbio gusto, foto di gruppo mediamente ridicole e folclore a uso stampa. Si volta pagina e si continua con la solita politica di potenza. Certo, come tutti i rituali, anche se non si fa niente di concreto si porta a casa qualcosa che in politica è molto prezioso: il prestigio. I summit ospitati dal nostro paese sono stati quello del 2001 a Genova, del 2008 a L’Aquila e del 2017 a Taormina.

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Anche noi stiamo con i falciatori e le falciatrici di OGM

Di Luigi

Immagini tratte dal libro Faucheurs volontaires, Les Dessin’Acteurs, 2010

Mezzana Bigli è un piccolo paese nelle campagne della Lomellina, in provincia di Pavia, recentemente diventato il centro della mobilitazione contro i cosiddetti “nuovi OGM”. Qui, in una porzione di terreno di pochi metri quadrati, l’Università degli Studi di Milano ha messo a coltura la prima sperimentazione italiana di queste nuove tecniche di ingegneria genetica: una varietà di riso – che i simpaticissimi e brillanti ricercatori hanno chiamato RIS8imo – studiato per ottenere piante più resistenti alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico, riducendo l’uso di pesticidi e razionalizzando l’impiego di acqua.

Non entreremo nel dettaglio della critica agli OGM; per approfondire rimandiamo, tra gli altri, all’intervento del collettivo Terra e libertà che abbiamo pubblicato sul n. 33 di Malamente e che smonta punto per punto la retorica green dei tecnologi, mostrando come i “nuovi OGM”, oltre che potenzialmente pericolosi per la salute e l’ecosistema, sono portatori della stessa idea di mondo dei “vecchi OGM”, un mondo che condanna definitivamente l’agricoltura contadina a soccombere di fronte alle monocolture industriali e dove il vivente – che ormai non nasce più, ma viene prodotto – diventa una merce tra le altre, manipolabile e brevettabile.

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Recensione a Carlo Cuppini, “Logout”, Marcos y Marcos, 2024

Di Luigi

«La libertà non è incoscienza. La libertà è dentro casa». Vi ricorda qualcosa?

Nella città di Sbafo, dove abita Luca – protagonista dodicenne di questo romanzo di Carlo Cuppini – non c’è nulla fuori posto. Anzi, non c’è proprio nulla fuori, perché i suoi abitanti non hanno né motivo né intenzione di uscire di casa. Troppe le insidie in agguato all’esterno. Le mura domestiche sono il Sesamo, che offre «serenità, salute, sicurezza, soluzioni», là fuori c’è il Baratro, costituito da «pericoli, incidenti, malattie, terroristi e imprevisti». E poi, dentro la casa ipertecnologica non manca davvero nulla. Le deserte strade di Sbafo, perfettamente allineate, sono percorse avanti e indietro da droni e furgoni robotici, che consegnano a domicilio tutto ciò di cui si può aver bisogno: la mega-azienda TuttoPer ha a cuore i suoi consumatori e può soddisfare in tempi rapidissimi qualsiasi necessità, basta un clic. Ancora: vi ricorda qualcosa?

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Il Gruppo Vulcano ha spento Tesla!

Martedì mattina, intorno alle 4:50, un traliccio dell’elettricità nello Stato tedesco del Brandeburgo è andato in fiamme. Vecchi pneumatici ammucchiati intorno hanno suggerito che si trattasse di un caso deliberato di incendio doloso. Pochi secondi dopo, l’elettricità ai villaggi circostanti è stata interrotta, colpendo migliaia di famiglie. I tagli hanno interessato anche la cosiddetta Gigafactory di Tesla nella vicina area di Grünheide. La fabbrica di automobili dovrebbe produrre 750 auto elettriche al giorno, ma a seguito dell’interruzione, circa 12.000 lavoratori sono stati evacuati mentre la produzione si fermava. Tesla ha dichiarato di non aspettarsi una ripresa della produzione questa settimana e ha stimato che i danni si aggirano intorno a “diverse centinaia di milioni di euro”. Abbiamo tradotto dal tedesco il comunicato del Gruppo Vulcano, che rivendica questo regalo fatto al pianeta e a tutti/e noi per l’8 marzo.

Oggi abbiamo sabotato Tesla. Perché Tesla a Grünau mangia suolo, risorse, persone, manodopera e sputa 6.000 SUV, macchine assassine e monster truck alla settimana. Il nostro regalo per l’8 marzo è chiudere Tesla. Perché la completa distruzione della Gigafactory e con essa l’eliminazione dei “tecno-fascisti” come Elon Musk è un passo avanti verso la liberazione dal patriarcato.

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Appunti di storia popolare del fermano dopo l’Unità

Di Joyce Lussu

Da Rivista Malamente n. 32, mar. 2024 (QUI IL PDF)

Dopo l’unificazione italiana, il biglietto da visita del nuovo Stato nelle regioni del centro-sud sono i carabinieri, le tasse e la leva obbligatoria. Di far parte di una nuova “patria” a ben pochi importava qualcosa. Nei paesi e nelle campagne marchigiane, come altrove, la popolazione non risponde sventolando bandiere tricolori, ma con la diserzione e il conflitto sociale. Quello che segue è un estratto dalla “Storia del fermano”, di Joyce Lussu (1970).

I renitenti di leva

Mentre nel mezzogiorno il rifiuto di arruolarsi nell’esercito italiano si trasforma in aperta rivolta collettiva, nelle Marche è molto diffuso il fenomeno dei renitenti di leva, arrestati a migliaia tra il ’60 e il ’65. Dopo il settembre 1860, quando l’esercito piemontese attraversa la regione, si comincia subito a parlare di coscrizione obbligatoria, e il terrore dilaga per le campagne: i vecchi ricordano le guerre napoleoniche, i giovani hanno sentito l’eco delle feroci repressioni contro i «briganti», con i quali genericamente s’identificano. È il discorso del giorno: se ne parla nelle stalle, in mezzo alle fatiche dei campi, nelle veglie, nelle osterie, quando si è sicuri che non ci sia in giro nessuna spia del governo. Alcuni vanno dai parroci, che alzano le braccia al cielo senza commenti; dai farmacisti, chiedendo se non vi sia qualche droga, che senza togliere la salute per sempre, li renda momentaneamente inabili o deformi; più spesso dalle fattucchiere o dai flebotomi, con la stessa domanda. Altri si fanno coraggio e vanno dal medico supplicandolo di far loro un certificato d’invalidità. Ma nonostante i molti doni di uova, pollame e formaggi, trovano sempre una riposta negativa. Allora i più stoici si mutilano le dita delle mani o dei piedi, o si fanno addirittura strappare tutti i denti; qualcuno si precipita dall’alto di un albero, lussandosi o fratturandosi.

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Avviso agli automobilisti

Di Bernard Charbonneau

Prefazione a L’Hommauto (Denoël, 1967, ripubblicato nel 2003)

Da Rivista Malamente n. 32, mar. 2024 (QUI IL PDF)

Fermi lì! Vicolo cieco. Tornate indietro! Sono finiti i tempi in cui le civiltà erano definite da Cristo o dalla Libertà. Oggi le religioni, fortunatamente ridotte allo spirito, non hanno alcuna influenza sulla morale e sulla politica, e le ideologie sono in crisi. Non è più un Dio, e nemmeno un principio, a presiedere la nostra società, ma un fatto: una macchina, quel grosso scarafaggio con gli occhi fissi, l’automobile, così chiamata perché si muove da sola. A 150 anni, si dirige dritta verso l’avvenire. Quale avvenire? Nessuno lo sa.

Se un marziano dovesse scoprire l’Europa o l’America, definirebbe la loro civiltà come quella dell’automobile. È lei il nostro ideale; ogni autunno andiamo a venerarla sull’altare dove brilla di mille luci. E infesta le nostre strade come i nostri sogni. L’economia della Francia o degli Stati Uniti è, in larga misura, un’economia dell’automobile; se Ford o Renault vendono male, o la loro produzione diminuisce, la crisi, la disoccupazione e la rivoluzione minacciano il Paese: probabilmente è stata la Volkswagen a salvare finora la Germania Ovest da Hitler. Se il flusso di materia su ruote sale velocemente, allora regna la prosperità e la fiducia nel futuro. L’auto invade il tempo: secondo Gallup, gli americani trascorrono il 18,22% della loro giornata in auto. E modella lo spazio; nel tessuto delle case sgombera il vuoto necessario per la sua corsa o per il suo riposo. Perché non ha bisogno solo di strade sempre più larghe, ma anche di un alloggio; potremmo dire: un’altra città e un altro cittadino.

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Viva la maestra

Di Mario Di Vito

Da Rivista Malamente n. 32, mar. 2024 (QUI IL PDF)

Tribunale di Budapest, 29 gennaio 2024, Ilaria Salis a processo. Fotografia di Mario Di Vito.

La paura è la risposta a quasi tutte le domande che possono venire quando si arriva a Budapest e si cercano tracce degli antifascisti. La paura di un paese che agli antifascisti fa più o meno esplicitamente la guerra, che li mette in galera e non li fa uscire, che li considera terroristi e come tali li rivende a giornali e televisioni. La prima udienza del processo a Ilaria Salis, lunedì 29 gennaio 2024, ha visto la totale assenza in aula di antifascisti ungheresi. C’erano degli italiani, qualche tedesco, ma niente ungheresi. Perché? Per paura. Legittima. Dicono che in certe occasioni è pieno così di poliziotti in borghese (è vero) che stanno lì per fotografarli e schedarli. E non è raro che poi quelle foto finiscano in un modo o nell’altro nelle mani sbagliate, cioè in quelle dei neonazisti, che in Ungheria abbondano e non sono solo un mero dato folkoristico come in altri paesi. Basta leggere le cronache, parlare con gli antifascisti, o anche solo scambiare qualche impressione con chi si professa democratico e continua a credere che uno stato di diritto, nonostante tutto, sia un orizzonte possibile persino qui nel paese di Orban.

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Posizione e appello di Soulèvement de la terre sul movimento contadino in corso

Da lundi.am

Già da una settimana il mondo dell’agricoltura sta esprimendo a gran voce e in strada la sua rabbia: quella di un mestiere diventato quasi impraticabile, che si sgretola sotto la brutalità degli sconvolgimenti ecologici che si profilano all’orizzonte e sotto asfissianti vincoli economici, normativi, amministrativi e tecnologici.

Mentre i blocchi continuano quasi ovunque, come movimento Soulèvement de la terre proponiamo qualche riflessione sulla situazione.

Siamo un movimento di abitanti di aree urbane e rurali, di ecologisti/e e di contadini/e (sia di quelli che si sono già insediati che di quelli ancora in via di stabilizzazione). Rifiutiamo la polarizzazione che alcuni cercano di creare tra questi mondi. Abbiamo fatto della difesa della terra e dell’acqua il nostro punto di partenza e di radicamento. Da anni ci battiamo contro i grandi progetti di sviluppo che stanno devastando i territori e contro i complessi industriali che se ne accaparrano e li avvelenano. Sia chiaro, l’attuale movimento, in tutta la sua eterogeneità, è stato avviato e guidato in gran parte da forze diverse dalla nostra. Alcuni dei suoi obiettivi sono diversi dai nostri, mentre altri sono assolutamente condivisibili. In ogni caso, quando sono iniziati i primi blocchi ci siamo uniti ad alcuni di loro e alle azioni di vari comitati locali. Siamo andati a incontrare contadini e agricoltori mobilitati. Ci siamo confrontati con compagni e compagne di diverse organizzazioni contadine per capire la loro analisi della situazione. Ci siamo identificati nella rabbia dignitosa di chi rifiuta di rassegnarsi alla propria estinzione.

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