Recensione di: David Bernardini, Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Milano, Shake, 2020, pp. 176, 14 euro.
Di Archivio Antifascista
Il rosso e il bruno. Erano questi i colori dominanti del primo nazismo (contrazione lessicale di nazionalsocialismo): il rosso della bandiera con la svastica, ideata da Hitler per evocare il socialismo, e il bruno delle uniformi delle S.A. (Sturmabteilung), la prima organizzazione armata paramilitare del partito nazista. Le Squadre d’assalto, fondate e comandate da Ernst Röhm, furono infatti note anche come “camicie brune” o “armata bruna”, ma vennero pure soprannominate sezioni “bistecca”, ossia brune fuori e rosse dentro, non solo perché vi aderirono in maggioranza lavoratori industriali e agricoli [circa il 62%][1] – tra i quali numerosi ex comunisti o ex socialdemocratici – ma in quanto attraversate da una concezione marcatamente anti-borghese del nazionalsocialismo.
Oltre che tra gli squadristi della S.A., era infatti convinzione diffusa nella “sinistra” del nazionalsocialismo che fosse necessaria una “seconda rivoluzione” che portasse alla liquidazione dei privilegi dei ceti borghesi, dei banchieri e della dinastia imperiale, entrando in conflitto con Hitler per la sua politica subalterna al capitalismo industriale, tanto da essere accusato di tradimento.
Su posizioni ulteriormente estremiste, fin dagli inizi del movimento nazionalsocialista, era stata forte la tendenza definita come “nazionalboscevica” che faceva proprio il modello sovietico del socialismo da caserma, giungendo a una visione strategica in cui l’asse imperiale euro-asiatico – con Terzo Reich e Urss alleate – avrebbe conteso il dominio continentale alle nazioni liberaldemocratiche dell’Occidente.
Tale prospettiva, negli anni Trenta, in Germania poteva vantare diversi precedenti storici, risalenti a von Clausewitz, e anche riferimenti filosofici, tra i quali Jünger; ma l’aspetto più significativo è che nel cruciale primo dopoguerra tedesco il suggestivo incontro tra l’ideologia nazionalista e quella del “socialismo in un solo paese” portò al costituirsi di formazioni e correnti politiche ad esso ispirate, sia in campo nazionalista che in settori social-comunisti.
Tra i principali protagonisti di queste diverse esperienze troviamo i nomi dei comunisti Laufenberg e Wolffheim, dei socialisti Niekisch, Winnig e Paetel, dei nazionalsocialisti fratelli Strasser. Questi ultimi, dopo essere stati promotori e dirigenti del movimento nazionalsocialista nella Germania settentrionale, con forte seguito anche in contesti operai, entrarono in aperto conflitto con Hitler, sia per l’intransigente opposizione alla dinastia imperiale che per la loro concezione di “estrema sinistra” del partito[2].
Infatti, durante la Notte dei Lunghi coltelli – 30 giugno 1934 – Hitler ordinò alle S.S. e alla Gestapo di eliminare fisicamente i vertici delle S.A., a partire dall’ex camerata della prima ora Röhm, assieme a esponenti nazionalbolscevichi come Gregor Strasser, oltre a militari dissidenti e alcuni esponenti della destra conservatrice; ma appare evidente che i principali obiettivi del massacro furono le turbolente S.A. e la “sinistra” strasseriana, nonché una loro possibile convergenza per liquidare e sostituire Hitler[3]. La reazione nazista non risparmierà neppure i presunti fiancheggiatori di Röhm e Strasser negli ambienti artistici, bollati come «bolscevichi della cultura»[4]
Le relazioni intessute tra la Repubblica di Weimar e l’Urss continuarono anche dopo l’avvento del nazismo. Alcuni documenti del ministero degli Esteri tedesco, resi pubblici a Londra negli anni Cinquanta, provano che già nel 1933 vi erano state trattative segrete tra esponenti del governo di Mosca e quello di Berlino. Come è noto questo intenso lavoro diplomatico avrebbe portato a diverse intese russo-tedesche (agosto 1939: accordo commerciale; 23 agosto: patto Ribbentrop-Molotov di non-aggressione; settembre 1939: trattato di amicizia; febbraio 1940: nuovo accordo economico[5]) e, prima della sconfitta totale, alcuni gerarchi e settori nazisti avrebbero inseguito in extremis una pace separata con l’Unione Sovietica. Si trattò comunque di decisioni, dettate da convenienze economiche e dai rispettivi tatticismi, che non rispecchiavano assonanze sul piano ideologico o strategico, in quanto il nazionalbolscevismo era stato da tempo debellato, anche se la fazione “di sinistra” del complotto militare antihitleriano del 20 luglio 1943 – l’Operazione Valchiria orchestrata da von Stauffenberg – sarebbe stata favorevole a un armistizio con Mosca[6].
Questa sintetica premessa può essere utile per presentare il lavoro di ricerca storica da tempo svolto da David Bernardini che ha portato alla recente pubblicazione del libro Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa (Shake edizioni, Milano 2020).
Infatti, se a partire dai primi anni Novanta sono riemerse aree politiche e culturali richiamantesi all’esperienza storica del nazionalbolscevismo, d’altro canto il rosso-bruno è divenuto, paradossalmente, un’indistinta categoria post-ideologica che allude variamente alla presunta fine della contrapposizione tra destra e sinistra, con possibili sintesi o convergenze tra gli orizzonti del fascismo e del comunismo, ma anche al risibile superamento della critica della divisione in classi della società, a favore della riesumazione dell’identità – nazionalista o nazionalitaria – collegata al concetto, ambiguo, di comunità popolare[7].
Le sinergie nazionalbolsceviche o nazionalcomuniste perseguono infatti una prospettiva rivoluzionaria, confidando che «si manifesterà la superiorità dell’appartenenza nazionale su quella di classe» mentre, nella futura «patria socialista», non sarà abolita la proprietà privata ma integrata in una sorta di capitalismo di Stato.
Per questo il comunismo di riferimento è la sua degenerazione staliniana, tra piani quinquennali e guerre patriottiche, non certo quello dell’internazionalismo delle classi sfruttate. D’altronde, l’ordine sociale a cui aspira non si discosta significativamente dalla dittatura nazista, condividendone la concezione totalitaria dello Stato, razzismo e sessismo inclusi.
Paradossalmente, negli ultimi decenni, queste teorie hanno visto una loro sconcertante rinascita soprattutto nella Russia post-sovietica, vedendo sorgere un’area politica ultranazionalista, comprendente organizzazioni diverse, in cui si mescolano sinistramente fascismo, stalinismo e nostalgie zariste, concretizzando quella fusione «di destra e sinistra contro le élite» teorizzata da Aleksandr Dughin.
Negli anni Sessanta e Settanta, oltre che in Francia con i movimenti promossi o legati al belga Jean Thiriart[8], l’Italia è stato il secondo paese europeo dove si formarono raggruppamenti e teorici variamente influenzati dalla corrente nazionalbolscevica, richiamandosi altresì al cosiddetto fascismo di sinistra, ossia alle dissidenze interne al regime mussoliniano che rivendicavano l’originario Programma dei Fasci del 1919 e alla corrente “socializzatrice” della Repubblica di Salò.
Dopo l’esperienza di Giovane Europa (filiazione italiana di Jeune Europe di Thiriart) fu, in particolare, l’Organizzazione Lotta di Popolo a tentare di accreditarsi come terza posizione, rivoluzionaria, secondo la nota formula di dannunziana memoria «aldilà della destra e della sinistra», sino a giungere a mettere sullo stesso piano antifascismo e anticomunismo, quali ideologie funzionali al «sistema». Lotta di Popolo, pur senza mai giungere alle posizioni nazionalbolsceviche, esprimeva una forte contrapposizione al capitalismo – a partire da quello statunitense – non nascondendo simpatie per la rivoluzione cinese, nella convinzione «che il comunismo ha trionfato solo quando si è identificato con la causa nazionale, proprio come ha fatto Stalin»[9].
Se queste erano le pur eterodosse coordinate teoriche di Lotta di Popolo, la sua effettiva attività risultò assai meno univoca, con evidenti risvolti di provocazione nei confronti del movimento studentesco e della sinistra extraparlamentare, mentre è accertata la collusione di alcuni suoi dirigenti e militanti con gli apparati statali durante la stagione dello stragismo, nonché i suoi collegamenti con gruppi dichiaratamente nazi-fascisti, a loro volta impegnati a compiere azioni dimostrative, danneggiamenti e attentati con falsa matrice anarchica o maoista[10].
Tali aspetti meriterebbero peraltro uno specifico approfondimento, non tanto per la – tutto sommato – breve stagione di Lotta di Popolo (1969 – ’73), ma per aver essa fornito i «quadri metapolitici» a successive formazioni armate dell’estrema destra (Anno Zero, Terza Posizione, Costruiamo l’azione…) che ne raccolsero il testimone, nonché per l’influenza nei percorsi avviati tra gli anni Ottanta e Novanta con la rielaborazione e la penetrazione culturale di elementi teorici di quell’area politica in ambiti sociali senza più un’identità di riferimento a sinistra.
L’epoca del post-ideologico ha inoltre aperto larghi spazi all’ideologia dell’obliquo, con accenti apparentemente antisistemici che in Italia attraversano partiti istituzionali come la Lega e il Movimento 5 Stelle e, fuori dal parlamento, gruppi sovranisti di destra e di sinistra che si rispecchiano nella retorica del complotto, ordito da oscure entità mondialiste ai danni dei popoli.
Nei confronti di questo sottofondo trasversale, nella polemica politica ritorna impropriamente il riferimento superficiale al rosso-brunismo, accreditando presunti intellettuali anticonformisti che, per aver rotto «il tabù dell’impurità» (come rivendicato da Costanzo Preve, passato dal marxismo al comunitarismo “moderno”), sono comodamente invitati nei salotti televisivi per screditare la “sinistra radical chic”[11].
Da parte sua, la controinformazione antifascista sovente ha intravisto l’ombra del nazionalbolscevismo pure in gruppi fascisti tricolorati, con appena qualche velleità di ribellismo, o nelle parole d’ordine demagogiche della “destra sociale”, senza invece avvedersi di quanto certe tematiche e posizioni abbiano da tempo travalicato i tradizionali territori del pensiero di destra, dopo decenni in cui l’equiparazione morale tra chi combatteva a fianco dei nazisti e chi era nella resistenza è stata favorita anche dalla sinistra democratica nel perseguire una pacificazione nazionale senza memoria.
Persino settori della sinistra antagonista mostrano talvolta scarsa consapevolezza nell’adottare slogan e analisi provenienti dal campo avverso e scelte di campo, nel segno dell’antiamericanismo, a fianco di cattive compagnie che, indirettamente, ricalcano il copione del superamento rosso-bruno dell’antitesi tra nazione e classe[12].
In realtà, come ben chiarisce storicamente David Bernardini, il nazionalbolscevismo tedesco fu un fenomeno tutt’altro che banale e i suoi protagonisti pagarono con l’annientamento la loro opposizione alla strategia geopolitica imposta al partito nazista da Hitler, affiancato da gerarchi come Himmler e Goebbels con rinnegati trascorsi “strasseriani”.
Nonostante che tale tendenza, interna al nazionalsocialismo,
sia uscita sconfitta e il fatto che in Italia l’area politico-editoriale che si
ispira con qualche coerenza al nazionalcomunismo o al comunitarismo risulti
minoritaria nel panorama del radicalismo di destra, è molto interessante
tornare a Weimar per comprendere come, in tempi di crisi e senza utopie, i
nemici dell’emancipazione sociale giocano la carta del nazionalismo come alternativa
rivoluzionaria al dominio del capitale e quindi, come conclude Bernardini, «la
sfida è allora rifiutare la trappola identitaria».
[1] Il dato è riportato in Peppino Ortoleva e Marco Revelli, La società contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1986.
[2] Gregor Strasser, croce di ferro durante la Prima guerra mondiale, poteva vantare di avere la tessera n. 9 del partito nazista; già Gauleiter di Monaco di Baviera e Bayreuth, nonché deputato al Reichstag, per un certo tempo fu l’unico a poter contendere la leadership a Hitler. Il fratello Otto, su posizioni anticapitaliste ancora più avanzate, dopo aver rotto con Hitler nel 1930 avrebbe fondato il Fronte Nero. Cfr Max Gallo, La notte dei lunghi coltelli. 30 giugno 1934, Milano, Mondadori, 1999.
[3] Per tale sorte i nazionalbolscevichi sono stati definiti da Armin Mohler come i «trotzkisti» del nazionalsocialismo; ma, come il trotzkismo rimane storicamente una tendenza del movimento comunista internazionale, nonostante la liquidazione dei suoi dirigenti a opera di Stalin, così è innegabile che il nazionalbolscevismo appartiene alla storia del movimento nazista. Cfr. Marco Rossi, I fantasmi di Weimar. Origini e maschere della destra rivoluzionaria, Milano, Zero in Condotta, 2001.
[4] Cfr. Lionel Richard, Nazismo e cultura, Milano, Garzanti, 1982, pp. 122-125. In particolare, già nel luglio 1933, i pittori Otto Andreas Schreiber e Hans Weidemann – certo non marxisti – erano stati accusati da Alfred Rosenberg di «bolscevismo culturale» e il pittore Karl Hofer aveva pubblicamente replicato che tali epiteti non avevano senso in quanto nel campo dell’arte il bolscevismo portava avanti una politica identica a quella dei nazisti, perdendo così il suo posto d’insegnante di Belle Arti e ricevendo il divieto di dipingere.
[5] Cfr. Arturo Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia, Roma, Erre emme, 1989.
[6] Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein o Dell’ostinazione, Torino, Einaudi, 2008.
[7] Sull’argomento si rimanda a Pietro Stara, La comunità escludente. La nuova destra tra piccole patrie e Europa nazione, Milano, Zero in condotta, 2007 (disponibile gratuitamente: https://www.zeroincondotta.org/testi/ps_lacomunitaescludente.pdf).
[8] Jean Thiriart (1922-1992), già volontario nella divisione Wallonien delle Waffen-SS, dopo essere stato condannato per collaborazionismo durante l’occupazione nazista e aver fondato nel 1963 Jeune Europe, nel 1969 avrebbe abbandonato la militanza attiva sino al 1982, quando prese parte alla fondazione del Partito nazional-comunitarista, divenendone il teorico di riferimento sull’immutato filo rosso-bruno per cui «La nazione è l’involucro e il socialismo il suo contenuto».
[9] Tale fascinazione per Stalin non fu peraltro ricambiata in Unione Sovietica dove i due principali esponenti nazionalbolscevichi russi, Pëtr Savichij e Nikolaj Ustrjalov, furono rispettivamente condannati a dieci anni di gulag (1945) e alla fucilazione (1937). Cfr. Sergej Kulešov, Vittorio Strada, Il fascismo russo, Venezia, Marsilio, 1998.
[10] Si veda, ad esempio, il capitolo Nazisti in maschera in Luciano Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano, Eelèuthera, 1997.
[11] Dopo aver soppiantato Massimo Fini, fondatore del Movimento Zero, Diego Fusaro rappresenta senz’altro il caso più avanspettacolare. Adepto del filosofo post-marxista Costanzo Preve, ha da tempo precisato che «il mio pensiero non è marxista (con buona pace del coro di chi continua a darmi del marxista)… mi limito a dire che l’obiettivo è per me la ridialettizzazione dell’odierno capitalismo assoluto: e per fare ciò, occorre tornare agli Stati nazionali, al conflitto di classe, al welfare state e alla progettazione operativa di futuri alternativi, sottratti alla presa fatale della globalizzazione e dell’eurocrazia dilagante. Non sono marxista, né voglio esserlo». Sulla base di tale impostazione, in sintonia con Casapound e il Partito comunista di Marco Rizzo, propone un fronte comune contro il «neocolonialismo immigrazionista» e si è fatto promotore della fondazione di Vox Italia, «movimento politico che unisce valori di destra e idee di sinistra» (da notizie disponibili nel web).
[12] Emblematico il caso del Donbass dove, nelle milizie filorusse, si trovano assieme volontari o mercenari di opposto orientamento – dai veterocomunisti ai neonazisti – pagati in dollari dall’autoproclamata Repubblica popolare per combattere le bande ultranazionaliste ucraine, appoggiate dagli Usa, dove militano altri gruppi nazifascisti. La simpatia dell’estrema destra per il Donbass peraltro non deve meravigliare dato che nella Costituzione della Repubblica popolare di Donetsk si vietano l’omosessualità e l’aborto, viene imposta la religione cristiano-ortodossa come religione di Stato e si esaltano i valori tradizionali del «Mondo Russo». Su tale realtà, oltre ai numerosi articoli di stampa in merito all’inchiesta giudiziaria aperta a Genova nell’estate 2018 che vede coinvolto anche il Partito comunitarista europeo, si rimanda ai numerosi interventi di Saverio Ferrari (Osservatorio democratiche sulle destre) presenti in rete.