Figli della libertà
Film documentario di Lucio Basadonne e Anna Pollio, 78 minuti, Italia, 2017
Recensione di Vittorio
È una calda sera di inizio estate. Siamo in giro con la solita compagnia di amici di Senigallia e il nostro corredo di otto bambini indisciplinati e rumorosi. Nella incantevole frazione fortificata di Piticchio di Arcevia è prevista la proiezione di Figli della libertà all’interno della programmazione di un piccolo festival a tema ecologico. Quale opportunità migliore per solleticare le nostre sensibilità libertarie in tema di educazione? Anche i più piccoli hanno assistito alla proiezione, alcuni con interesse, altri addormentandosi sulle sedie dopo la lunga giornata di giochi e bagni al mare. Io invece mi sono arrabbiato. La protagonista è la piccola figlia di Lucio e Anna, che affronta con ironia e leggerezza un percorso di educazione libertaria a Genova mentre i suoi genitori documentano altre esperienze in giro per l’Italia. Il film, costruito con la stessa tecnica narrativa del precedente Unlearning, fallisce completamente negli obiettivi dichiarati, annoia a livello narrativo e indispone per la superficialità con cui affronta l’argomento dell’educazione libertaria.
Alla fine della proiezione era presente l’autrice e ne approfitto per provare ad aprire un dialogo. Dopo un primo assonnato silenzio iniziano alcune domande molto generali, poi arrischio la mia: « Cosa significa per voi educazione libertaria?» La risposta disegna una conoscenza superficiale del tema dove le diverse esperienze di educazione libertaria vengono associate senza distinzione di qualità e storia dei diversi progetti all’educazione parentale, descritta come facoltà di ogni famiglia di scegliere la migliore educazione per i “propri” figli.
Qui sta il principale problema dell’approccio proposto dal film: l’educazione parentale non è l’educazione libertaria, che nelle sue esperienze più consapevoli si allaccia a una storia di almeno trecento anni di sperimentazioni e progetti pedagogici ispirati da filosofie politiche principalmente di stampo anarchico, comunista libertario e socialista. La pedagogia, inoltre, proprio perché riflette sulle pratiche dell’educazione, è necessariamente orientata a una lettura universalista del fenomeno educativo e quella ispirata da principi egualitari si propone di migliorare l’educazione di bambini e bambine a partire da una critica degli ostacoli sociali e culturali che la impediscono. In Figli della libertà invece l’unica forza in campo è la volontà delle “famiglie”, questa istituzione
sociale funesta e fortemente conservatrice che non viene per nulla criticata né messa in questione con il risultato di trovare in primo piano le teorie aristo-freak di Erika di Martino, blogger di professione che promuove da anni l’educazione parentale come alternativa alla scuola pubblica.
Sul suo sito www.controscuola.it si trova la sintesi di questo pensiero apparentemente ingenuo ma in realtà fortemente classista: “lei e suo marito non credono che la scuola allo stato attuale possa dare ai loro bambini l’opportunità di imparare e sperimentare fino in fondo ciò che è veramente importante nella vita. Essi amano stare insieme ai loro figli, seguirli mentre crescono ed esplorano il mondo e pensano che la loro educazione sia responsabilità della famiglia, non dello Stato”. Diciamolo a chi ha entrambi i genitori lavoratori e assenti per ore o giorni da casa, ai figli degli integralisti di ogni religione, alle madri single, a chi ha figli disabili e una pensione minima. Da questo orizzonte viene totalmente cancellato il significato sociale e comunitario dell’educazione per ricondurla a una scelta privata e quasi intima dove l’ego dei genitori finisce per schiacciare quello dei figli, costretti a sopportare madri e padri 24 ore su 24.
L’educazione libertaria descritta da Figli della libertà diventa un rifugio per privilegiati che non hanno le capacità o le forze di affrontare le contraddizioni del sistema educativo come contraddizioni sociali e politiche e scelgono la ritirata come strategia di presunta salvezza personale. Non si accenna neanche alle difficoltà anche nelle relazioni lavorative tra organizzatori e insegnanti che emergono nell’ambito delle esperienze di piccole scuole autogestite, dove spesso l’auto-sfruttamento, la dequalificazione e la mancanza di welfare vengono taciute in nome dell’ideale “alternativo”. Insomma, l’aggettivo libertario nei contesti descritti dal documentario di Basadonne e Pollio corrisponde a individualista ed elitario.
Questo documentario è un’occasione mancata, perché sicuramente nel campo della educazione libertaria esistono piccoli progetti alternativi come quelli che abbiamo descritto anche noi (Serendipità a Osimo, ad esempio) che articolano la sperimentazione in una capacità di leggere in modo critico la relazione con il sistema educativo statale e il contesto socio-economico in cui la scuola libertaria si inserisce. Esistono inoltre esperienze consapevoli come la Rete per l’educazione libertaria che dialoga in modo costruttivo anche con chi lavora nella scuola pubblica. La storia di questo documentario è purtroppo è anche lo spaccato di una situazione di confusione e di superficialità in cui spesso si fermano le buone intenzioni di cambiare il proprio piccolo mondo senza approfondire le ragioni della critica sociale e il significato nobile e impegnativo della parola libertà.