Breve esposizione della nozione di territorio e delle sue implicazioni
Di Miguel Amorós
Il sottotitolo che abbiamo scelto per Malamente è “rivista di lotta e critica del territorio”. Non solo perché la rivista si rivolge in prima battuta a uno specifico territorio – quello marchigiano – ma anche perché dal momento in cui il territorio viene sempre più ridotto a serbatoio di risorse da sfruttare per le esigenze dei centri di potere urbani, riteniamo che la “questione territoriale” sia diventata uno dei punti nevralgici dell’attuale questione sociale.
Con questo testo di Miguel Amorós, col quale inauguriamo i supplementi di Malamente, andiamo alla scoperta dei fondamenti storici e teorici della nozione di “territorio” e soprattutto di una prospettiva per la sua difesa, che allo stesso tempo sia anche una rottura insanabile con il sistema, i suoi difensori e i suo co-gestori ecologisti, non potendosi avere difesa senza conflitto. Un territorio realmente autonomo e liberato presuppone infatti, necessariamente, la fine dello Stato e la fine dell’economia di mercato e anche la fine delle conurbazioni metropolitane create e organizzate dal capitale. Resistenza al capitalismo, dunque, e fin dove possibile secessione da questo, per riscoprire qui e ora le modalità di autogoverno, il consolidamento di legami comunitari, la democrazia diretta e la dignità della vita umana.
Pensiamo che il concetto di “territorio” non si appiattisca su una dimensione spaziale né tanto meno amministrativa, assoggettata da un potere che risiede esternamente ad esso e ne pianifica flussi e sviluppo, ma sia per prima cosa l’unità di ambiente e abitanti, natura e memoria. Un luogo non colonizzato dalle merci e dal loro consumo e non piegato all’agricoltura industriale, in cui ritrovarsi e da dove ripartire. Inoltre, la riappropriazione dello spazio vitale all’insegna dell’autonomia e dell’autogestione acquisisce il suo senso pieno solo se non è disgiunta dai principi dell’accoglienza e della solidarietà con gli sfruttati ed esclusi di ogni angolo di questo mondo globalizzato.
Quelle che dovremmo cercare di costruire sono le forme di uno “sviluppo insostenibile”, cioè che il sistema non possa sostenere. In questo senso, avvertiamo come sempre più impellente la necessità di dare vita e sviluppare opposizioni locali determinate a difendere i propri territori dalle grinfie del progresso, dallo loro pianificazione funzionale ai poteri che vi si intrecciano, estranei e nemici rispetto alle comunità residenti. Opposizioni che fin da ora devono prendere coscienza dei propri obiettivi e delle proprie aspirazioni, senza aspettare la prossima grande – o piccola – opera devastatrice e che sappiano rifuggire dalla ricerca spasmodica della contestazione spettacolare, buona solo per le colonne dei giornali e gli scatti dei fotografi.
Il contributo di Amorós che appare su queste pagine in prima traduzione italiana è stato utilizzato dall’autore per alcune presentazioni pubbliche tenute alla Biblioteca Social A. Gavilla (Santiago), al CSO Palavea (La Coruña), all’Ateneo Ecaixe (Lugo) e alla Cova dos Ratos (Vigo), rispettivamente il 30 e 31 ottobre e il 1 e 4 novembre 2013; successivamente è stato pubblicato con titolo “Nocividades, defensa del territorio y crisis”, in «Argelaga», dossier n. 1, dicembre 2013.
1. Il concetto
Il monte Lushan in Cina si trovava spesso avvolto da nubi ed era molto difficile distinguere la sua figura. Lo ha detto in un verso Su Shi, poeta della dinastia Song: “Non conosco il vero aspetto del Monte Lushan / quando vi sono immerso…”. Questo verso indica la difficoltà reale di conoscere la vera essenza delle cose, poiché questa non appare mai immediatamente e chiaramente alla comprensione che si pone al di sotto di esse. La metafora poetica ci servirà come ammonimento prima di affrontare l’idea di “territorio”, il cui sviluppo dovremo tirare fuori dalla nebbia in cui è immerso e che non potremo altrimenti dissipare, per mostrare in tal modo solo ciò che “territorio” significa in realtà. In caso contrario, come dice un altro proverbio cinese, non prenderemo che del vento e non coglieremo che delle ombre.
L’impresa non sarà facile, visto che non viviamo più in una “bella totalità” come gli antichi, dove lo spazio si confondeva con il Cosmo, popolato di forze vive in perfetta armonia, e dove gli individui e la Terra “Madre” costituivano dialetticamente un’unità. Nei periodi di crisi, il potere unificante scompare dalla vita sociale e i suoi elementi non interagiscono più, essi cessano di relazionarsi, svincolandosi gli uni dagli altri e comportandosi come realtà indipendenti e perfino ostili. Il concetto non corrisponde più all’oggetto e la coscienza non ha altro rimedio che guardare oltre se stessa: la critica anti-industriale è la rappresentazione contemporanea di questa ricerca.
Il territorio si presenta davanti agli individui, essi stessi separati gli uni dagli altri, come una cosa estranea, mentre è il risultato della loro attività. Nella bocca di un urbanista, questo territorio sarà considerato come una riserva di spazio in prossimità di un’area urbana o come lo spazio compreso tra due conurbazioni. Questa nozione è strettamente correlata a quella di “terreno”, una superficie non costruita il cui uso e destino devono essere regolati per mezzo di una corretta politica di zonizzazione. Un politico o un immobiliarista sarebbero d’accordo con l’idea di suolo edificabile, anche se per determinarne l’uso impiegherebbero meglio l’espressione “corretta riqualificazione”. Un esperto di pianificazione utilizzerebbe il termine “territorio” alludendo a uno spazio o a un “sistema” neutro composto da nodi interconnessi tramite “reti e flussi”. Per gli strateghi del capitalismo verde il territorio è prima di tutto una fonte di risorse energetiche e la base di uno sviluppo sostenibile dell’economia autonoma, appoggiato su macro-infrastrutture, mentre per i loro collaboratori ecologisti, sarebbe un complesso di ecosistemi la cui preservazione costringe alla ricerca di una formula giuridico-politica che lo renda compatibile con il suo sfruttamento, vale a dire con il dominio sociale delle merci. Così dunque troveremo, dissimulato sotto un gergo scientifico e tecnico, qualcosa di simile all’idea di “ambiente”.
La definizione di “territorio” è stata quindi contaminata dagli interessi economico-politici che si nascondono alle sue spalle, per ridurla generalmente a uno spazio fisico, un vuoto geografico, un supporto, un’epidermide, un paesaggio, un mondo esterno e, in definitiva, a ciò che il sociologo Marc Augé chiama un “non-luogo” – che potrebbe anche essere chiamato “palcoscenico” o “scenografia” – ossia una porzione di spazio senza una vera identità e senza abitanti stabili, dove ogni soggiorno è provvisorio perché al suo interno tutti sono o passanti o clienti e si comportano in maniera codificata e controllata. Da questo punto di vista, il territorio sarebbe l’opposto della “città”, opposizione puramente formale dal momento che la diffusione selvaggia o pianificata degli agglomerati urbani che portano impropriamente questo nome tende a fondere le due cose. Attualmente quello che si chiama “città” è solo un “non-luogo” abitato. Alla fine dei conti, in una società pienamente urbanizzata, dove non ci sono più rotture chiare tra città e circondario, il territorio visto da un manager non dovrebbe essere che il periferico confuso con l’urbano nel medesimo spazio dell’economia, in altre parole, una grande fabbrica che come tale si oppone solo alle masse che la occupano. Ma questo non è quello che era, è ciò che è diventato.
Nell’interesse di una comprensione globale del termine dovremo scavalcare gli interessi contingenti che si basano su delle determinazioni pietrificate per andare direttamente alla contraddizione nella sua esistenza concreta e cangiante. Il territorio è lo spazio definito nel e attraverso il tempo o, per dirlo in altro modo, è un fatto sociale e storico. Parafrasando Hegel, diremmo che non contiene unicamente la sostanza (la natura come totalità astratta), ma anche il soggetto (l’umanità come agente della trasformazione), formando così un’unità dinamica tra i due. Il suo concetto è legato fin dagli inizi a quello di civitas, che assicurava il nesso, più che a quello di habitat.
Nella Grecia antica, la polis includeva tanto la città quanto il territorio circostante. Clistene divise la polis ateniese in demi, unità territoriali o villaggi i cui membri erano i demoti, i cittadini. Il territorium, secondo il diritto romano, era l’ambito d’influenza di una comunità politica, “un raggruppamento di uomini uniti dal diritto” (Cicerone). In senso stretto, il suo significato era simile a quello del municipio romano, ma senza perdere il carattere di spazio sacro: il re Numa Pompilio instaurò il culto del dio Termine [il dio dei confini di proprietà] dopo una distribuzione delle terre. L’ager (il campo) e il saltus (lo spazio selvatico), uniti con il populus (la popolazione) e l’urbs (la cinta urbana), costituivano la città propriamente detta. In un senso più largo significava qualcosa di simile all’hinterland, la sua area di influenza culturale ed economica.
Per gli spazi più vasti, oggetto d’amministrazione e di governo, si preferiva il vocabolo regio (regione), derivato da regere, che all’origine significava “dirigere in linea retta”, da cui a sua volta derivavano “regola”, “reggimento”, “re”, “rettore” e anche “regicida”, “rettificare”, “insurrezione”… Nel VII secolo, quando i municipi romani erano letteralmente scomparsi, la parola “territorio” faceva solamente riferimento a una terra lavorata dall’aratro e delimitata da solchi (Isidoro di Siviglia, Etymologiae); ma alcune tracce del suo passato significato si mantenevano nei distretti diocesani. Tuttavia una nuova struttura sociale, la comunità di villaggio, prodotto e causa di un movimento di messa a coltura delle terre provocato dalla scomparsa dello Stato e della sua morsa fiscale, fondata sull’idea di un comune territorio e non su quella di una comune origine, apparirà durante l’Alto Medio evo e si consoliderà nel corso dei secoli successivi. In Francia il territorio in cui si stabilisce la comunità rurale, comprendente la chiesa, le case, le strade, i campi e i boschi, si chiamerà finage; equivaleva più o meno a “municipio”, o meglio alla “giurisdizione”, visto che contemplava implicitamente il diritto ad auto-amministrarsi. In Catalogna sarà la universitat, nei Paesi Baschi la anteiglesia e, in altre regioni iberiche, il concejo.
Nel corso del XII e XIII secolo, quando rifioriscono le città europee, la parola “territorio” recupera il suo significato iniziale di terreno costruito, lavorato o incolto, delimitato da confini che includono la città o villa, “luogo cinto da mura, con i suoi edifici e sobborghi”, alla cui giurisdizione è sottomesso (Alfonso X, Ley de las Siete Partidas). In Castiglia, per definire i confini formali della città si utilizza di preferenza la parola alfoz, derivata dall’arabo alfohoz, in Francia banlieu o districtus, in Italia contado, ma la definizione migliore della nozione di territorio è quella di “comunità di villaggio e di terra”, formula utilizzata per descrivere le terre appena ripopolate in Castiglia e in Aragona. Il territorio non è dunque solamente uno spazio geografico, è lo spazio dell’uomo, della natura trasformata dall’attività umana; “cultura” significa in origine “natura lavorata” e la parola “coltivazione” ha le stessa radice. È dunque lo spazio della cultura e della storia, lo spazio sociale che contiene, riproduce e sviluppa delle relazioni sociali. Spazio che è anche naturale. Elisée Reclus, nel suo L’uomo e la terra, fa riferimento all’armonia delle comunità indigene con il loro ambiente: “Non possiamo forse dire che l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa?”, mentre Marx chiama la natura “il corpo inorganico dell’uomo”, lasciando intendere che il genere umano non si concepisce senza la natura di cui fa parte e con la quale intrattiene un “metabolismo” speciale. Il territorio è la scena di questo metabolismo.
Sappiamo che il dominio delle forze naturali non ha liberato gli esseri umani, al contrario, questo dominio si è tradotto in differenti forme di oppressione sociale che poterono essere attenuate là dove il dinamismo storico fu maggiore e dove il soggetto, l’essere sociale, poté almeno in parte emanciparsi dall’oggetto, la natura: vale a dire in un tipo particolare di insediamento fortificato, il borgo, la villa o il sobborgo, cioè la città medievale, una comunità autogovernata, rinsaldata da un giuramento (conjuratio). La sua esistenza non sarebbe stata possibile senza l’apporto delle eccedenze alimentari e del lavoro artigianale dei villaggi vicini, ad essa collegati da uno spazio di interscambio, ossia un mercato. Il suo segno distintivo era la porta, che la metteva in comunicazione con il territorio e con il mondo. D’altra parte, come dice un proverbio spagnolo, non si possono mettere porte alla campagna. La città fu la culla della libertà e della democrazia, della scrittura e delle arti, della giustizia e del diritto, della scienza e del pensiero razionale, ma fu anche il luogo in cui nacquero la burocrazia, la tirannia, il lavoro salariato, le classi e il denaro.
Man mano che si svilupparono ed estesero la propria influenza, le città assorbirono le popolazioni, l’energia e le ricchezze, stratificandosi socialmente e concentrando il potere, compromettendo in questo modo il loro equilibrio interno ed esterno (i conflitti all’interno e all’esterno delle mura delle città medioevali furono infatti costanti). Nella loro prepotenza, si impossessarono delle campagne che avevano poco prima contribuito a liberare, scatenando frequenti jacqueries. I contadini iniziarono a creare proprie distinte istituzioni. In alcune zone rifiutarono di porre se stessi sotto il dominio delle città: Plebs semper in deterius prona est (“la plebe è sempre propensa al peggio”) dirà l’arcivescovo di Magonza nel 1127 dopo essere stato informato del rifiuto dei contadini di pagare la decima.
Il sogno egualitario è stato fortemente presente nei movimenti ereticali, nelle guerre di religione e nelle rivolte contadine. La classe contadina, liberata dalla tutela feudale, esprimendosi nel linguaggio della religione, si lanciava nella realizzazione immediata del paradiso terrestre. Le campagne non erano prive di esperienza storica e né l’arte, né la libertà, né le insurrezioni erano loro sconosciute, ma il tempo della campagna trascorreva meno linearmente del tempo della città, privilegiando il collettivo rispetto all’individuale, la sussistenza comune al profitto privato, la tradizione alla novità, la morale all’economia, l’abitudine al mercato. Erano uno spazio intensamente ordinato, mediante usi sanciti da pratiche antiche. Mentre la città potrebbe descriversi come Gessellschaft, nel senso in cui l’intendeva Ferdinand Toënnies di “associazione”, aggregato in cui predomina l’interesse individuale centrato sul valore di scambio e in cui la coesione di un ordine regolato nei minimi dettagli deriva da una “volontà arbitraria”, la campagna si potrebbe intendere come Gemeinschaf, “comunità” produttrice e consumatrice di valori d’uso, retta da un unico interesse comune a tutti e in cui l’ordine iscritto nella memoria si dispiega naturalmente, per abitudine, da una “volontà essenziale”. In entrambi i casi, sebbene in maniera differente, l’interesse individuale coincideva con l’interesse collettivo o, il che è lo stesso, con la ragione, anche se in un caso restavano separati nonostante i fattori che li facevano coincidere e, nell’altro, non erano più distinguibili malgrado i fattori che tendevano a separarli.
Se, come dice Spinoza nel Trattato politico, “la libertà umana è tanto più grande quanto più l’uomo è capace di farsi condurre dalla ragione”, si può quindi concludere che i bisogni comuni guidavano il contadino libero e i desideri comuni il cittadino. Due forme diverse di ragione e di conseguenza due forme diverse di libertà: una organica e una economica, una basata sulla comunione il consenso, l’altra sul contratto e il patto. Nelle campagne il diritto consuetudinario impediva la separazione contenuta nel diritto romano tra i domini pubblico e privato; il prestigio era preferibile alla proprietà, le radici allo sradicamento, la stabilità al movimento e, infine, l’economia domestica al mercato. Ma niente di tutto ciò le ha messe al riparo dai poteri separati che la storia aveva prodotto: da una parte la Chiesa, i signori feudali e i proprietari terrieri, dall’altro le città divenute parassitarie e lo Stato. La società rurale non è mai stata una “società congelata”, profonda e immutabile al margine degli avvenimenti. Spesso, anzi, vi ha preso parte in maniera rilevante, come nota Guy Debord ne La società dello spettacolo: “[…] le grandi rivolte dei contadini in Europa sono anche il loro tentativo di rispondere alla storia […]”.
Il decadimento della comunità rurale fu lento ma inesorabile: l’intrusione dell’autorità centrale attraverso oneri e decreti inappellabili, l’eccessiva fiscalità imposta da diversi poteri, la perdita dei diritti e, soprattutto, l’usurpazione dei terreni comuni da parte di potenti e signori determinarono la separazione tra la popolazione rurale e il territorio (tra “finage” e “village”) e tra il territorio e la città. La dispersione dei contadini impoveriti ne fu il corollario obbligato. Un sistema punitivo crudele consistente nell’impiccare a gruppi di cento i vagabondi fuggitivi dai domini dei signori inglesi venne nel XVI secolo a culminare l’opera genocidaria delle enclosures (“recinzioni”): era chiaro che davanti alla scelta di integrarsi nel mercato del lavoro oppure di vivere di mendicità o di furti, essi inclinassero per quest’ultimi. Tuttavia, malgrado il loro sradicamento forzato conservavano la dignità di uomini liberi. La pratica sbrigativa per sbarazzarsi di queste persone sradicate, considerate come un pericolo sociale, non è stata abbandonata che quando la mancanza di forza lavoro s’è fatta sentire e ha reso necessario lo sfruttamento di questi esclusi, come manodopera a buon mercato.
Duecento anni dopo, il progetto dei fisiocrati illuministi, che avrebbero dovuto risolvere la questione agraria senza violenze e allo stesso tempo incrementare i prelievi per le casse dello Stato, può essere riassunto nella creazione di una classe di proprietari terrieri, cosa difficilmente realizzabile ricorrendo all’enfiteusi o alle leggi sui beni alienabili, ma perfettamente possibile con la ripartizione delle terre derivanti dalla scomparsa violenta dell’aristocrazia, che si verificò unicamente in Francia. La fine dell’Ancien Régime e il trionfo politico della borghesia, ereditaria del secolo dei Lumi, nel XIX secolo non hanno risolto la questione. La privatizzazione e l’industrializzazione non l’hanno che aggravata, senza che il movimento operaio, essenzialmente urbano, ne abbia preso sufficientemente coscienza. La lotta di classe non ha prestato adeguata attenzione alle questioni agrarie. La proprietà privata ha definitivamente sottratto l’individuo a un territorio divenuto forza produttiva, rompendo così i legami organici che li univano e preparando il terreno al dominio della merce. In definitiva: lo ha trasformato in proprietario o proletario. La natura, il campo, il villaggio, la città, il territorio sono diventati, nel corso del medesimo processo storico di alienazione, delle entità reificate, separate e distinte, estranee le une alle altre.
2. La frammentazione
Quali che siano state le vicissitudini delle tappe dell’accumulazione e le metamorfosi del libero mercato, non c’è dubbio che il capitalismo sia stato un fenomeno urbano e che la sua espansione sia proceduta parallelamente all’urbanizzazione e all’affermarsi dello Stato, ovviamente a spese del territorio. Le città hanno dato vita a una classe legata al commercio e all’industria, la borghesia, sotto la cui direzione s’è prodotta la “rottura metabolica” tra la società urbana e la prima fonte di ricchezza: la terra (l’altra è il lavoro). La produzione capitalistica, alleata ai signori della terra e protetta dallo Stato, s’è imposta nelle campagne impoverendole allo stesso modo degli operai. In un’ottica economica ogni progresso agricolo, effettuato in condizioni capitalistiche, è stato un progresso contro la stessa campagna: la “separazione radicale tra i produttori e i mezzi di produzione” (Karl Marx, Il Capitale), responsabile della figura del “bracciante giornaliero”, provocò di conseguenza una separazione completa e irreparabile tra la citta e il territorio, causa di irrisolvibili guai nella misura in cui quest’ultimo non venne considerato altro che una fonte di capitali.
Il progresso delle ideologie liberali significò espropriazione dei contadini, spoliazione delle proprietà comunitarie, disboscamenti e bonifiche, imposte e consolidamento di una classe di grandi proprietari terrieri. La proprietà inamovibile fondata sul patrimonio familiare si trovò soppiantata dalla proprietà alienabile fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il principale effetto della produzione capitalistica è stato di portare a compimento “la separazione tra lavoro e proprietà, tra lavoro e condizioni oggettive del lavoro”. Successivamente “il capitale distrusse il lavoro artigiano, la piccola proprietà fondiaria lavoratrice etc., e anche se stesso nelle forme in cui non si presentava in antitesi al lavoro: nelle forme del piccolo capitale e in quelle forme intermedie, ibride, tra i vecchi modi di produzione (o come essi si sono rinnovati sulla base del capitale) e il modo di produzione classico, adeguato al capitalismo stesso” (Karl Marx, Grundrisse).
Il ciclo si chiudeva: l’attività umana aveva generato delle forze che, sottraendosi ad ogni controllo, opprimevano la società. Il mondo storico si era rivelato come un mondo disumanizzato, coercitivo e contrario alla ragione, che aboliva e ricreava costantemente se stesso su basi sempre più opprimenti per un nuovo ordine sociale. L’oppressione si manifestava soprattutto nello smantellamento della vecchia struttura urbana e nel suo rimpiazzo con un’altra, molto più aggressiva. Le nuove oligarchie cittadine non bramavano tanto le rendite della terra quanto la forza lavoro divenuta eccedente. La città prodotta dalla cosiddetta “rivoluzione industriale” si ridefiniva infatti in totale opposizione al mondo rurale, del quale aveva assorbito la popolazione, e oscurava la nozione stessa di territorio riducendone la portata e relegandolo alla sfera del non-urbano. Il territorio era sempre più assimilato a quello che i Romani chiamavano suburbia, luogo al di fuori delle mura, spazio disarticolato e mal definito, senza un ordine preciso né un funzionamento regolato, nel quale erano collocate le attività sporche e rumorose, ma suscettibile di possedere un valore di scambio che lo rendeva malgrado tutto attraente. Ci fu senza dubbio nelle campagne, a partire dal XVIII secolo, un processo di “proto-industrializzazione”, sospinto dal diffondersi del lavoro e della produzione a domicilio. Qui si installarono le prime fabbriche, oggetto delle rivolte luddiste.
Il territorio restava così alla mercé di forze principalmente urbane, che regolavano le loro divergenze nei mercati, nelle borse, nelle cancellerie e nei ministeri, piuttosto che in spazi aperti e liberi. Naturalmente, nelle prime fasi del capitalismo, quando la campagna era ancora lontana dall’abbandono e dalla distruzione attuale e concentrava la maggior parte della popolazione, il problema agrario era di gran lunga la più grande preoccupazione dei riformatori sociali, che hanno in effetti prodotto un’abbondante letteratura sul tema. Tuttavia prendendo per buono il postulato quasi dogmatico di Marx che la classe redentrice dell’umanità era il proletariato, cioè una classe urbana, se ne deduceva che la soluzione sarebbe passata per le città, dopo che la classe operaia avesse preso il controllo dei mezzi di produzione e assolto il compito che la borghesia era incapace di realizzare, cioè l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Ma questo sviluppo, benché diretto dalla classe operaia, conduceva a conseguenze nefaste per la campagna perché imitando il modello produttivista borghese provocava una miseria intollerabile che gettava i contadini fuori dai loro villaggi per spingerli verso le porte delle fabbriche alla ricerca di un salario.
Non senza una certa ingenuità la rivoluzionaria Vera Zasulič domandava a Marx quanti secoli ci sarebbero voluti in una Russia arretrata dove esisteva ancora la comune di villaggio, il mir, prima che nelle campagne si fosse conclusa l’opera dissolvente della borghesia, segno inequivocabile dell’inizio della rivoluzione socialista. Marx rispondeva brevemente che il mir era “il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia” (lettera dell’8 marzo 1881), ma spiegava più a fondo la sua idea in alcuni appunti preparatori alla risposta. L’annientamento della comunità rurale per creare una minoranza contadina prospera e una massa proletarizzata non era una fatalità storica; se “nel momento dell’emancipazione” lo si aiutava a “distaccarsi dalle sue caratteristiche primitive”, il mir sarebbe potuto diventare “un elemento della produzione collettiva su scala nazionale”. Marx, ispirandosi allo storico George Ludwig von Maurer, affermava che “la vitalità delle comunità primitive era incomparabilmente superiore a quella delle società semitica, greca, romana, etc., e più ancora a quella delle società capitaliste moderne”, inoltre “la nuova comune introdotta dai Germani in tutti i paesi conquistati aveva rappresentato durante tutto il Medio evo il solo focolare di libertà e di vita popolare”. Naturalmente in tutta Europa si sono conservati dei residui di questa comunità rurale, sotto forma di diritti di uso e sfruttamento comune di pascoli, terreni incolti, sorgenti, torbiere e boschi, chiamati allmende in Svizzera e Germania, commons in Inghilterra; avevano un toponimo che richiamava il thing, l’assemblea germanica degli uomini liberi presieduta da un giudice o langman (“colui che dice la legge”). Ma questa comunità si era mantenuta viva solamente in Russia, cosa che permetteva un’uscita originale dalla crisi capitalistica favorendo la trasformazione progressiva di una “agricoltura parcellizzata e individualistica in un’agricoltura collettiva” e facilitando “la transizione dal lavoro individuale al lavoro cooperativo”. Marx suggeriva che per coordinare gli sforzi, era necessaria la creazione di un’assemblea di delegati contadini eletti nelle comunità, ma che tutto sarebbe dipeso dai cambiamenti radicali il cui agente principale era comunque il proletariato: “per salvare la comune russa, ci vuole una rivoluzione russa”.
Kropotkin si spinse oltre e nel suo Il mutuo appoggio proclamò il “principio territoriale” della comunità di villaggio e i patti di solidarietà tra le città medioevali come fondamenti storici di una società libera. In particolare, la municipalità rurale, della quale restavano ancora abbondanti vestigia, era per lui “la cellula primitiva di tutta la vita sociale futura”. Tuttavia non la difendeva in quanto tale: “è in un territorio sufficientemente vasto per contenere città e campagna – e non in una città isolata o in un singolo villaggio – che si potrà, un giorno, lanciarsi verso l’avvenire comunista” (Pëtr Kropotkin, Campi, fabbriche e officine). In ogni caso, il cammino per raggiungere il comunismo libertario non appariva molto chiaro nell’opera di questo principe ribelle, che faceva eccessivo affidamento nell’evoluzione sociale e prevedeva il formarsi di sempre più libere associazioni che avrebbero regolato i problemi che lo Stato era incapace di risolvere. Il pensiero anarchico ha in gran parte adottato il suo ideale comunista, ma non il suo ottimismo darwiniano.
In questo sguardo al passato in cerca di ispirazione incontriamo altri autori come William Morris o Gustav Landauer. Quest’ultimo insistette ancor più di Kropotkin sulle comunità precapitalistiche, considerandole come “embrioni e specchi della vita culturale dell’avvenire”. Il periodo della Gemeinschaft medievale non rappresentava l’Età dell’oro alla quale si doveva ritornare, ma una fonte di esperienze autonome utili per la ricostruzione di una società senza Stato. Non si trattava di disprezzare i mezzi forniti dalla modernità, ma di mettere in conto tutti gli effetti negativi che poteva suscitare l’idea di progresso, verso la quale Landauer era molto critico.
Solamente in Spagna la comunità rurale consuetudinaria fu considerata come una risposta immediata al problema agrario, ovvero la questione territoriale dell’epoca, ma non da parte degli anarchici. In Spagna sussisteva una tradizione di riformismo illuminato che era culminata nel liberalismo sociale dell’erudito e politico “rigenerazionista” Joaquín Costa. Una costante del pensiero sociale agrario era rappresentata dalla subordinazione della proprietà della terra all’interesse generale, favorendo così uno sviluppo rurale che tratteneva le masse in campagna mediante vecchie formule di possesso e usufrutto come l’enfiteusi, il censo e la locazione, evitando così la loro miseria e la loro proletarizzazione. Lo Stato doveva essere il motore del cambiamento, motivo per cui questa riforma richiedeva la nazionalizzazione della terra, ma il dramma dei riformatori stava nel fatto che il potere statale era nelle mani di una minoranza di privilegiati, i cui interessi erano totalmente opposti a queste proposte.
Costa fu il solo tra i riformatori, alla fine della sua vita, dopo essersi convinto dell’inutilità dei tentativi di rigenerare “dall’alto” uno Stato liberale oligarchico e dispotico, a far appello a una “rivoluzione dal basso”. Nella sua importante opera pubblicata nel 1898, Colectivismo agrario en España, studiava, così come Kropotkin, la ricca tradizione delle istituzioni contadine di cui rimanevano abbondanti vestigia: le forme di insediamento e di cooperazione, i concejos, i beni privati e comuni, le terre franche, le riallocazioni a sorte, la gestione collettiva dell’acqua e dei punti di pesca, le corporazioni, le confraternite, i lavoro comunitari (auzolan, andecha, sestaferia), etc.Tra l’XI e il XIII secolo il municipio iberico fu un’entità pubblica con una giurisdizione e un’amministrazione autonome, governato da un concilium, la “giunta” o assemblea di tutti gli abitanti, che decideva sugli interessi collettivi e in particolare su quelli relativi all’utilizzo dei beni comuni, amministrava la giustizia e poteva anche mobilitare delle forze per assicurare la difesa. L’organizzazione del concilium era un sistema politico che emanava dal común, la gente comune, sistema che è stato pervertito dal crescente potere degli oligarchi e dal sistema di regimiento, fino a scomparire nelle città del XVI secolo, ma che ha trovato prolungata vita nei piccoli villaggi rurali. Partendo da questa constatazione Costa elabora una strategia collettivista che aspira a rompere il dominio dell’oligarchia terriera: abrogazione delle leggi sui beni alienabili, autorizzazione per le municipalità di acquisire delle terre o di prenderle in locazione e ripartirle tra i piccoli coltivatori, i braccianti e perfino gli artigiani e gli operai industriali, ricostruzione del patrimonio del concejo (anche se per questo bisognava ricorrere all’espropriazione forzata), recupero delle pratiche collettive e del diritto consuetudinario, etc.
Costa sosteneva che il più importante problema sociale fosse la risoluzione della questione agraria, cosa che non era così campata in aria in un paese prevalentemente rurale e la sua penna non aveva dubbi quando scriveva che tutto dipendeva dal fallimento dello Stato monarchico e oligarchico. Non si spinse oltre, ma l’anarchismo spagnolo, caratterizzato dall’adozione del principio territoriale della federazione di municipalità indipendenti come chiave di una riorganizzazione sociale libertaria, non ha mai dimenticato i suoi precursori e ha sempre riconosciuto la loro eredità: le misure di collettivizzazione della Rivoluzione spagnola del 1936-’37 non si possono comprendere senza considerare questa impronta secolare, che alcuni hanno confuso con il millenarismo, una tradizione impressa indelebilmente nella coscienza storica dei lavoratori e dei braccianti sindacalizzati, che Costa ha sostenuto essere la base indiscutibile di una società libera ed emancipata.
3. La pianificazione
Il capitale, basato sulle innovazioni tecnologiche, ha impresso alla città un ritmo di crescita che esaurisce le riserve disponibili in acqua, energia e cibo, obbligando allo sviluppo di infrastrutture idrauliche, energetiche, di trasporto e di smaltimento dei rifiuti. La moderna classe dominante non trova la sua origine esclusivamente nell’industria e nel commercio, ma si è sviluppata in gran parte anche attorno all’attività immobiliare, all’edilizia e alla gestione delle infrastrutture di base. La città industriale non era un insediamento compatto perché nulla la poteva limitare; con l’utilizzo delle macchine, con un’importante quantità di energia, con un imponente apparato burocratico e i nuovi mezzi di trasporto che ha sviluppato, non ha cessato di crescere e di estendersi nella sua periferia, configurando così una morfologia spaziale radicalmente inedita, articolata in una struttura di mobilità meccanica.
La società divisa in classi è una società urbana. Durante il XX secolo, la logica di concentrazione ha prodotto una civilizzazione urbana senza vere città: negli agglomerati urbani si trova un centro quasi disabitato dove tutto il potere è concentrato nelle mani di una élite industriale, finanziaria e immobiliare, circondato da aree suburbane sempre più estese e popolate da masse salariate. Alcuni sociologi parlano di “città diffusa”, di “metacittà” o di “post-città”, ma per Lewis Mumford in Il futuro della città (1956) si tratta piuttosto di una “anti-città”: “città disseminata, città annichilita”. Questa città è il prodotto della decomposizione della realtà urbana iniziato con la nascita dello Stato moderno, costituito da un insieme di frammenti sradicati e disseminati nell’ambiente circostante, senza vita pubblica, senza normale comunicazione: uno spazio in rovina dove è disgraziatamente ammassata una popolazione massificata e uniformizzata. Patrick Geddes, che ha osservato la nascita del fenomeno nei bacini minerari britannici, ha coniato il nome “conurbazione” per indicare questo tipo di agglomerato che permette solamente una vita ridotta ai minimi termini, motorizzata e confinata in spazi chiusi per la maggior parte del tempo.
La relazione tra città e territorio è degenerata fino all’inconcepibile man mano che le innovazioni tecnologiche si diffondevano. L’ambiente urbano ha invaso e disumanizzato tutto lo spazio sociale, ammassando una popolazione senza alcuna autonomia in condomini patogeni, distruggendo le terre coltivabili, deteriorando o banalizzando il paesaggio: il territorio non è più che uno spazio suburbano risultante da un nuovo barbaro modello di occupazione. Il caos urbano ha raggiunto tali livelli estremi che i dirigenti della città industriale sono stati costretti a prevedere una certa organizzazione della sua trama urbana, dando vita alla scienza dello spazio economico: l’urbanesimo.
Di fronte a territori sfigurati e degradati prodotti dall’espansione urbana, Geddes ha proposto la “pianificazione regionale” sistematica, ripresa dalla Associazione per la pianificazione regionale americana fondata nel 1923 da Lewis Mumford, Clarence Stein e Benton McKaye. I riformisti dell’Associazione intendevano stimolare un modo di vita intenso, gioioso e creativo, fondato su un equilibrio territoriale, proponendo un’agricoltura di prossimità, una decentralizzazione della produzione di energia, una decongestione delle metropoli e una distribuzione equilibrata della popolazione in unità abitative ben equipaggiate e interconnesse. La pianificazione regionale era pensata per eliminare le concentrazioni eccessive di popolazione, lo spreco generalizzato d’energia, di alimenti e di beni di consumo, ma anche per ridurre i trasporti a lunga distanza e per reinstallare le industrie vicino alle fonti di materia prima. Il punto di partenza non era più la “città dinosauro”, ma la regione così definita: “una regione è un’area geografica che possiede una certa unità di clima, di vegetazione, di industria e di cultura. Il regionalista cercherà di pianificare questo spazio in maniera che tutti i luoghi e le fonti di ricchezza, dai boschi alla città, dalla montagna al mare, si sviluppino in equilibrio e che la popolazione sia distribuita in modo da utilizzare, anziché annullare o distruggere, questi vantaggi naturali” (L. Mumford, Regions. To Live In, «Survey», 1925). L’idealismo di questi intellettuali impegnati salta agli occhi quando pensano di “porre un argine al diluvio metropolitano”: idealismo destinato a naufragare nella marea degli interessi economici e a perdersi nei labirinti della burocrazia amministrativa favorevole a questi interessi.
Il tema della pianificazione regionale venne ripreso dal Congresso internazionale d’architettura moderna (CIAM), ma in un’ottica opposta, cioè cercando di conciliare le riforme con i grandi interessi che governano il mondo. Nella Carta di Atene del 1933 il CIAM definiva la pianificazione regionale come una totalità che inglobava anche “il piano di gestione della città” e insisteva nel criticare quei “discendenti degenerati delle periferie” chiamati sobborghi (banlieues), una “specie di schiuma” che sbatte contro i muri della città e che in questi ultimi decenni si era “trasformata in marea e poi in inondazione”, nei cui confronti, al fine di assicurare un nuovo equilibrio o almeno di consolidare il disequilibrio esistente, era necessario non separare il piano della città da quello della regione, cioè dal territorio. Gli architetti funzionalisti parlavano in nome degli interessi generali del capitalismo: accettavano quindi il condizionamento o la domesticazione del territorio come conseguenza economica dei piani di espansione urbana e optavano semplicemente per una verticalizzazione, cioè per un’occupazione intensiva del territorio, inaugurando così l’architettura degli appartamenti “in blocco” per i poveri, tipica del dopoguerra. Questi piani, tuttavia, non potevano contraddire le leggi permissive in materia di beni immobili, che favorivano sfacciatamente i concreti interessi dei proprietari terrieri e degli speculatori. Il profitto immobiliare privato passava avanti a qualunque razionalizzazione della crescita urbana e i piani “regolatori” non si concretizzeranno se non dopo gli anni Cinquanta del XX secolo, nel momento in cui automobile e calcestruzzo apportarono un importante impulso alla suburbanizzazione del territorio e gli interessi legati allo sviluppo prendevano il controllo della politica urbana.
La conurbazione richiedeva costantemente più terra e più motorizzazione. La “zonizzazione” tanto raccomandata dagli architetti del CIAM, che stabiliva grandi distanze tra i luoghi del piacere, del consumo, di residenza e di lavoro, con delle “cinture verdi” intervallate tra loro – che non avevano niente a che vedere con la cintura agricola raccomandata dall’Associazione per la pianificazione regionale – unita alla mancanza di trasporti pubblici, a delle condizioni di vita sempre più sordide e all’accesso a finanziamenti agevolati, precipitò le masse verso l’automobile privata, moltiplicando strade e autostrade e di conseguenza aumentano esponenzialmente la mobilità, la domanda di energia e il disordine. Il processo innescato non fu una semplice diffusione di edifici con aumento dello spazio residenziale, ma una vera e propria urbanizzazione generalizzata, in altre parole una fogocitazione del territorio, che risultava infine coperto da un tessuto urbano indifferenziato. L’abitazione, definita da Le Corbusier “una macchina in cui abitare”, non poteva essere sostenibile economicamente in altro modo. Lo spazio urbanizzato estensivamente è dunque diventato principalmente uno spazio di circolazione dei veicoli; le autostrade modellano il territorio e determinano la sua articolazione.
Nonostante la priorità del profitto privato, la formazione di “megalopoli” o “città-regioni” come buchi neri che assorbivano tutto lo spazio, il patrimonio comune e la vitalità che poteva incontrare esigevano in qualche modo una regolamentazione degli insediamenti extra-urbani e delle installazioni industriali, cosa che è stata chiamata “pianificazione del territorio”, consistente in un prolungamento della già conosciuta pianificazione urbana. La pianificazione del territorio, la cui redazione dipendeva dagli ingegneri e dagli architetti, ha preteso di essere una disciplina scientifica la cui funzione era quella di offrire un quadro giuridico all’azione degli “agenti economici” ma che in realtà serviva nient’altro che a legalizzare gli atti arbitrari e gli eccessi dei costruttori, degli industriali e degli speculatori immobiliari. Fungeva cioè da copertura scientifica per lo sviluppo immobiliare. Cercava innanzitutto di accrescere il territorio edificabile, la sua facile “interconnessione” e quindi la moltiplicazione delle infrastrutture. Era il territorio a sottomettersi alle infrastrutture e non viceversa. Quest’ultime condizionavano e determinavano ogni utilizzo del territorio: paesaggio, cultura, circolazione, dormitori, tempo libero, discariche, carceri, produzione di energia, etc. E dove arrivano le autostrade ci sono sempre sviluppatori immobiliari e speculatori.
La legislazione elaborata per giustificare questa “cultura delle strade” con il pretesto dello “sviluppo regionale”, di “economie di scala”, di “creazione di posti di lavoro” e di aumento della fiscalità, si chiamò anche “regolamentazione territoriale”. Era la consacrazione del disordine a un livello qualitativamente più alto di degrado perché per i dirigenti non si trattava di controllare o proteggere qualcosa, ma di “connettere” e “dinamizzare”, cioè di creare le condizioni ottimali per una crescita speculativa che producesse profitti considerevoli e soprattutto rapidi. La “pianificazione” era il contributo dei funzionari, dei tecnici urbanistici e delle pubbliche istituzioni alla distruzione del territorio e alla creazione delle regole politiche per la sua completa trasformazione in capitale.
Cinquant’anni dopo la Carta di Atene, quando le corporazioni dei finanzieri e degli speculatori erano diventate molto più forti, la Conferenza europea dei ministri responsabili della pianificazione del territorio (CEMAT) che si è tenuta il 25 maggio 1983 a Torremolinos, luogo emblematico della distruzione selvaggia della costa spagnola, precisava i suoi obiettivi in una Carta europea di pianificazione del territorio, definendola “espressione geografica della politica economica, sociale, culturale ed ecologica di tutta la società”, vale a dire la trascrizione geografica dell’ideologia dello sviluppo. Era un tentativo molto più serio di pianificare lo sfruttamento sistematico del territorio. In quel momento si cominciavano a percepire i risultati dei cambiamenti tecnologici del dopoguerra che derivavano dalla corsa alla produttività. L’ambiente urbano, sviluppandosi esponenzialmente, si scontrava frontalmente con il territorio, ostacolando i suoi processi ciclici. Inoltre, le novità che riguardavano l’agricoltura (principalmente l’utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi) e i trasporti (automobili di grossa cilindrata e sostituzione del trasporto merci ferroviario con quello su ruota) uniti allo sviluppo della produzione di energia e dell’industria petrolchimica, originarono nocività fino allora inimmaginabili. La vera tragedia era già tutta lì: l’esodo rurale, l’accumulazione di rifiuti, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse energetiche, i buchi nell’ozono, il riscaldamento planetario, il cambiamento climatico, etc., ne erano le prime manifestazioni.
Nel corso di questo disastro il movimento ecologista è degenerato in partito “verde” e ha preso rapidamente il treno della politica sviluppista. In risposta alla statalizzazione dell’ecologismo, lo Stato si è ecologizzato finendo per ammettere che le “profonde modificazioni” provocate dal capitalismo nella società civile richiedevano “una revisione dei principi che reggono l’organizzazione del territorio per evitare che si ritrovino determinati esclusivamente da obiettivi a corto termine”, per procedere ad una “sistematica implementazione di piani di utilizzo del suolo” che dovrebbe porre le basi di una “utilizzazione razionale del territorio”. La fraseologia del “benessere”, dello “sviluppo equilibrato tra regioni”, della “qualità della vita” e dell’“interazione con l’ambiente” marcava il passaggio ad una società di massa in cui il territorio non era più principalmente una fonte di cibo, ma piuttosto uno spazio-capitale organizzato per essere consumato in ogni sua parte. E il principale consumo proveniva dall’industrializzazione del tempo libero attraverso seconde case e attività turistiche.
Nel frattempo, il territorio non era solo una semplice riserva di suolo urbanizzabile, perché nello sfruttamento delle sue risorse andavano sorgendo interessi che si sommavano a quelli del settore immobiliare e delle grandi infrastrutture. Da allora c’è stata una cascata di leggi di “pianificazione” e di piani territoriali, ma la forte domanda di suolo, i condizionamenti politici e le crisi – la “variabilità della congiuntura economica”, direbbe un esperto – hanno impedito la loro applicazione globale. Dopo il “Rapporto Bruntland” delle Nazioni Unite (1987) i decisori economici di fronte al problema della prossima penuria di energia, hanno preso coscienza della dimensione “verde” del capitalismo. Per il futuro, l’ideologia dello sviluppo sarà sostenibile o non sarà. Per essere più precisi, questa ideologia è stata definita nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 come l’unione dell’ambiente con l’economia globale, in forma di “capitale territoriale”. Il territorio acquisiva così una “nuova dimensione” all’interno dell’alta politica, situandosi al centro di un triangolo società-economia-ambiente. Diveniva prioritario dargli una “strutturazione” in quanto “periferia” di una serie di nuclei centrali con i quali doveva connettersi tramite le nuove infrastrutture in progetto. Con questo tipo di decentralizzazione avrebbe “massimizzato” la sua competitività – aumentando al massimo il suo “valore” come “risorsa” – e si sarebbe rinsaldata la “coesione economica e sociale”, correggendo i gravi disequilibri causati dal diseguale potenziale economico tra il territorio e le aree metropolitane, questi “laboratori dell’economia mondiale” e “motori del progresso”.
In Spagna la pianificazione territoriale è responsabilità di un livello burocratico intermedio, quello delle regioni autonome, che ha portato a piani di sviluppo esagerato sulla cui sostenibilità “vigilano” comitati composti da quadri finanziari, manager aziendali e politici responsabili delle aree in questione. I leader europei hanno concretizzato il loro obiettivo nel 1999 in un documento intitolato Strategia territoriale europea, dove esprimevano la volontà di integrare anche le zone più recondite del territorio nell’economia mondiale, rivalorizzandole grazie all’accesso alla “rete transeuropea” di trasporti, telecomunicazioni ed energia, cioè attraverso la costituzione di un mercato europeo integrato di costruzione, distribuzione, turismo di massa, gas e elettricità. I fondi per la ristrutturazione, i piani per lo sviluppo locale, la legislazione ambientale, l’aumento produttivo e l’informatizzazione totale saranno i componenti di un “nuovo modello di sviluppo policentrico” che, tramite meccanismi di partecipazione online e di concertazione pubblico-privato, darà vita a una “nuova cultura del territorio” che dissimulerà finché possibile la contraddizione insuperabile tra i processi naturali che realmente governano il territorio e i processi industriali che strutturano la società globalizzata. Detto in altri termini: stanno cercando di spegnere il fuoco bruciando un diverso tipo di combustibile.
4. La difesa
Nell’attuale stadio della crescita capitalistica, quello dello sviluppo globalizzato, il territorio è stato trasformato non solamente in supporto delle infrastrutture e nel più solido pilastro dell’urbanizzazione, ma anche nella principale risorsa sfruttabile e nel principale motore dell’attività economica. In un’economia terziarizzata, con quasi più nessuna attività agricola, si scopre che il capitale-territorio contende al capitale-città il primo posto come forma dominante di capitale. L’accumulazione del capitale è stata delocalizzata e il territorio è diventato ora l’elemento primario della fabbrica diffusa e allo stesso tempo il punto finale del processo di industrializzazione della vita. Parallelamente, il territorio in quanto capitale deve essere controllato e messo in “sicurezza” in funzione dell’importanza strategica acquisita. Ma, precisamente, le conseguenze delle sue nuove funzioni hanno portato il territorio a diventare la contraddizione che contiene tutte le altre per il sistema capitalistico: da un lato, la sua distruzione in quanto risorsa finita impedirà uno sfruttamento che si vuol pretendere illimitato, minacciando così i fondamenti stessi dell’economia; dall’altro la sua distruzione intesa come completa artificializzazione dello spazio sociale in cui si accumulano le nocività di una crescita avvelenata comporterà per la sopravvivenza della specie umana delle condizioni così abominevoli che difficilmente si potranno sopportare.
La crisi energetica è l’esempio della prima contraddizione; le rivolte spontanee delle banlieues metropolitane del mondo quello della seconda. Per di più, la distruzione del territorio è inevitabile nel contesto attuale, poiché la tecnologia, la forza produttiva preponderante, è una forza eminentemente distruttiva; la catastrofe è allo stesso tempo il risultato e la precondizione del funzionamento capitalistico contemporaneo. Le catastrofi conducono a più controllo – la soluzione tecnica per eccellenza – e così la distruzione del territorio non si ferma davanti alle sue conseguenze, ma impone una tecnosorveglianza che i “verdi” chiamano “tracciamento”, gli esperti di polizia “contenimento” e i dirigenti semplicemente “mantenimento dell’ordine”. I controlli hanno per scopo sia di adattare la popolazione alla devastazione che di canalizzare e dissuadere la protesta. Per il primo obiettivo il potere farà ricorso alla legislazione ambientale e ai media, proponendo come diversivo le piattaforme di azione della società civile, l’ecologismo politico o il volontariato. Per l’altro obiettivo, utilizzerà direttamente la tecnovigilanza e le forze dell’ordine. Questi sono i due poli il cui unico compito è quello di neutralizzare la lotta anticapitalista per eccellenza: la difesa del territorio. La dialettica capitalistica della distruzione e della ricostruzione si completa con una dialettica dell’integrazione e della repressione.
Il territorio, dopo essere stato in gran parte convertito in una fabbrica diffusa è diventato il luogo in cui gli antagonismi sociali hanno potuto svilupparsi in tutta la loro ampiezza, tanto che la questione sociale si può presentare come una questione territoriale. In Castiglia, la “difesa del territorio” come difesa dei beni comuni contro l’usurpazione della nobiltà è menzionata dal XV secolo, ma l’utilizzo generale dell’espressione è molto più recente e proviene probabilmente dalle lotte delle comunità contadine latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta in difesa del loro ambiente e della loro cultura contro l’agro-industria, lo sfruttamento delle miniere a cielo aperto e la costruzione di dighe. Al saccheggio del territorio per interessi economici ben precisi, le comunità opponevano l’idea di un territorio considerato bene comune, con un utilizzo collettivo regolato, tale da garantire una protezione, una risorsa e una fonte di vita. Nei paesi in cui regna il turbocapitalismo la difesa del territorio si manifesta nelle campagne sotto forma di attività per proteggere l’habitat rurale e lo stile di vita che quest’ultimo rendeva possibile, a partire dalle lotte contro lo stoccaggio dei rifiuti nucleari, mentre nelle conurbazioni appare come risposta alla degradazione insopportabile dello stile di vita urbano. In entrambi i casi si tratta di difesa di un’identità perduta, quella di cui Catone parlava già nel De Agri Cultura: “quando i nostri antenati elogiavano un uomo dabbene, così lo elogiavano: che era un buon agricoltore e un buon contadino” (i Romani consideravano il lavoro della terra come l’unica vera occupazione di un uomo libero).
Nelle campagne questa difesa si prolunga in una resistenza alle infrastrutture e all’industrializzazione dell’attività agraria, una resistenza che tenta di restaurare la democrazia assembleare; negli agglomerati urbani è una lotta per la decolonizzazione della vita quotidiana che prende le forme di una lotta per il ritorno alla vita pubblica o per la diserzione della città. Nel primo caso fa appello all’appoggio delle masse urbane, nel secondo si invitano i cittadini dalla piazza pubblica a occupare e coltivare le terre. La difesa del territorio è dunque una lotta per la città e viceversa la lotta per la città è una difesa del territorio. Ci fu un tempo in cui la popolazione cittadina comprendeva una forte componente contadina rappresentata nelle sue istituzioni. La città e il territorio non sono mai state realtà distinte e opposte, ma interdipendenti, non si possono concepire l’una senza l’altra, né essere trasformate separatamente. La libertà cittadina non potrebbe esistere in un territorio asservito e l’autonomia comunale non potrebbe esercitarsi nel contesto di una megalopoli. Perché ci sia un versa simbiosi entrambe esigono lo smantellamento delle conurbazioni e l’autogoverno, ma non l’abolizione della città: la deindustrializzazione segue i passi della ruralizzazione e non quelli della barbarie anticivilizzatrice. De-urbanizzare le campagne e ruralizzare le città, ritornare in campagna e ripristinare le città, sono queste le linee convergenti di una futura rivoluzione antistatale e anticapitalista. Il diritto al territorio che deve promanare da un uso razionale dello spazio è anche un diritto alla città e necessita tanto della fine dello Stato che di quella del mercato globale.
Se affermiamo che la difesa del territorio è la nuova lotta di classe, se ripetiamo che la questione sociale è prima di tutto una questione territoriale, non è perché gli obiettivi della classe oppressa si siano spostati dalla fabbrica verso l’agricoltura, la raccolta o la caccia. In una società in cui lo sfruttamento è fondamentalmente tecnologico, gli oppressi non formano una classe poiché non sono nient’altro che protesi delle macchine, delle masse fatte a immagine del mondo urbano nel quale sopravvivono. Ciò che li definisce non è il fatto di percepire un salario in cambio di un lavoro, ma l’essere stretti in un ingranaggio che li obbliga a consumare e a indebitarsi in uno spazio chiuso e condizionato: quello dell’economia di mercato. Si definiscono quindi per un modo di vita imposto, sul quale non hanno alcun potere decisionale. Il suddetto spazio è uno spazio urbano, ma senza una reale vita urbana, ideale per innescare comportamenti nevrotici, parassiti e sociopatici; è lo spazio delle masse senza voce e senza coscienza, amministrate meccanicamente e autoritariamente dai professionisti dell’addomesticamento. Il degrado della convivenza sociale e l’aggressività che la caratterizza sono entrambi un prodotto di fattori morbosi provocati dal sovraffollamento, dal ritmo delle macchine, dalla tensione consumista, dalla mancanza di comunicazione e dalla solitudine.
Patrick Geddes ha chiamato pathopolis le metropoli degenerate, queste città malate dove la vita umana è effettivamente limitata da condizioni patologiche che si vanno sempre più aggravando. L’intensità delle rivolte urbane riflette l’enorme violenza che devono sopportare quotidianamente gli abitanti demoralizzati di queste conurbazioni. Non è una violenza di classe, ma una violenza di “declassati”. L’insurrezione latente delle masse non è che l’espressione violentemente logica della patologia di una vita privata mediocre, apatica e schiava dell’economia. La miseria della vita quotidiana, aggravata dalle crisi, è il comune denominatore di tutti i disordini urbani, è il substrato di tutte le rivolte, che abbiano avuto luogo nelle città statunitensi degli anni Cinquanta o più recentemente a Stoccolma, Ankara o San Paolo. È attraverso queste rivolte che si annuncia il nuovo proletariato.
Né è quindi nelle questioni del lavoro che dobbiamo cercare la base su cui ricostruire il soggetto della storia, l’unificazione di oggetto (la realtà oggettiva) e soggetto (l’agente della Ragione), poiché tale soggetto si trova in realtà nella protesta contro l’espropriazione totale della vita. È una protesta che contiene implicitamente il rifiuto di uno spazio reificato e massificato in cui regnano la perdita di memoria, l’assenza di legami e la sottomissione; ovvero il rifiuto dell’ambiente metropolitano. Così la critica della vita quotidiana comporta una critica dello spazio: dalla critica del concentrazionismo urbanistico dei dirigenti arriviamo a una critica della domesticazione del territorio, acquisendo in questo cammino una coscienza sociale dello spazio, altrimenti detta una coscienza territoriale. La difesa del territorio, che naturalmente prende forme assembleari, è la materializzazione di questa presa di coscienza. La comunità si manifesta come riunione, come junta, non come un’associazione, cioè un’entità suscettibile di essere istituzionalizzata. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che se l’oppressione, penetrando in tutti gli interstizi della vita, ha acquisito una dimensione legata allo spazio, la lotta contro di essa ha fatto altrettanto. Nel fragore della battaglia, la classe che ha coscienza, il nuovo proletariato, si costituisce creando e difendendo il proprio spazio, che è il suo mondo, il suo oggetto. Il suo habitat è la fabbrica diffusa che egli deve deindustrializzare e de-urbanizzare per poterlo gestire liberamente e il suo strumento organico non è altro che la comunità territoriale rappresentata dall’assemblea.
Se la pianificazione del territorio era l’ultima fase della pianificazione della vita, in altri termini il caos pianificato, il primo compito della sua difesa sarà di “de-pianificarlo”, cioè de-massificarlo, de-privatizzarlo, condurlo verso quell’anarchia che, come diceva Reclus “è la più alta espressione dell’ordine”. La difesa del territorio deve fare fronte a importanti contraddizioni. La prima di queste risiede nel fatto che il soggetto che deve condurla è in larga parte concentrato nelle conurbazioni, terreno sterile dell’incoscienza e dell’oblio, ed è per questo che i movimenti di esodo e ripopolamento seguiranno ritmi differenti e non coordinati. Rendendo quasi impossibile l’appropriazione liberatrice dei luoghi e l’abbandono delle zone sovraffollate, l’urbanesimo e la pianificazione territoriale hanno infatti innalzato enormi ostacoli alla redistribuzione delle popolazioni.
Questa contraddizione si sovrappone a un’altra: la lotta a partire dalla conurbazione è principalmente distruttrice, perché poco si può costruire di autonomo e reale in questi spazi deserti di servitù salariata e consumistica, mentre nelle campagne l’aspetto costruttivo ha più opportunità, dal momento che la “cultura contadina” riemerge facilmente in un terreno che è separato dal mercato. Tutto questo favorisce, in assenza di coscienza sociale, lo sviluppo di ideologie messianiche e nichiliste nelle zone urbanizzate e di ideologie cittadiniste e di ritorno alla terra nelle zone non urbanizzate: tutte forme di falsa coscienza che oscurano lo spirito e rendono gli individui estranei a una vita libera. Così, nelle aree metropolitane le lotte salariali saranno incensate come l’espressione più alta della “lotta di classe” mentre il confronto con le forze dell’ordine potrà essere elevato sull’altare della radicalità e la violenza eretta a valore assoluto come “poesia della rivolta”. Dall’altra parte, nelle zone neo-rurali il protezionismo legalista, il ricorso ai partiti e alle amministrazioni, i compromessi ambientali degli imprenditori dell’economia pseudo-solidale saranno considerati come la panacea della decrescita e della ruralità ben intenzionata.
Ovunque si deve costruire una comunità di lotta per andare avanti e se non dobbiamo disprezzare gli orti urbani, il co-working e i metodi di autodifesa delle mobilitazioni, non bisogna dimenticare l’occupazione dei terreni abbandonati o espropriati, né il sabotaggio delle culture transgeniche, né quello delle macchine destinate alle infrastrutture o quello dell’industria turistica. È altrettanto utile alla lotta saper fare il pane che saper montare e tenere una barricata. Secessione e resistenza non hanno come obiettivo una sopravvivenza isolata senza il consolidamento di una comunità e l’abolizione del capitalismo. Il ristabilimento delle antiche comuni libere e delle juntas, la creazione di una moneta “sociale”, i circuiti corti di produzione e consumo cooperativi o, ancora, il recupero delle terre comunali non devono diventare delle vie per “un altro” capitalismo e dei pretesti per l’inattività o il cittadinismo. Il loro scopo nell’ambito dell’oikos (unità di base della società) è la produzione di valore d’uso e non di valore di scambio. Tutti questi non sono i simboli identitari di un sorta di ghetto rurale hipster, ma aspetti distinti di una stessa lotta per un territorio emancipato dalle merci e dallo Stato, la cui atmosfera può liberare coloro che la respirano. Sono elementi di importanza capitale il cui assemblaggio corretto determinerà una strategia efficace per condurre le forze della coscienza storica alla vittoria. L’elaborazione di questa strategia è l’obiettivo della riflessione anti-industriale, che non si perde in generalizzazioni teoriche astratte e non assume posizioni di pura negatività né di solo attivismo in positivo, dal momento che sa, in modo molto concreto, quello che vuole. Ecco perché non cerca di catturare la luna nel suo riflesso sull’acqua. Sa esattamente dove guardare per trovare le cose.