Settecento anni di rivolte occitane
Di Luigi
Recensione a: Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, Tabor, 2016.
Nella misura in cui contempleremo la bellezza di questa epoca con attenzione e amore, in quella stessa misura la sua ispirazione discenderà in noi e renderà a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che compongono l’aria che respiriamo.
Simone Weil, “L’ispirazione occitana”
Se è la storia dei vincitori quella che ci insegnano a scuola, un libro come questo di Gérard de Sède serve a non farci dimenticare, o a farci riscoprire, la tradizione rivoluzionaria degli oppressi. Uscito in prima edizione nel 1982 e più volte ristampato in francese, è disponibile da pochi mesi in traduzione italiana grazie alle valsusine edizioni Tabor.
Giornalista e scrittore, membro negli anni Quaranta di gruppi surrealisti, de Sède è forse più noto per le sue fantasiose opere su misteri, Templari e affini che hanno ispirato una vasta letteratura esoterica internazionale, fino ad arrivare al Codice da Vinci di Dan Brown. Settecento anni di rivolte occitane non ha però nulla a che vedere con questa letteratura di genere. Seppur misconosciuta quando non mistificata, siamo infatti di fronte a una storia solida e documentata, anche sulla scorta della storiografia occitanista prodotta nella prima metà degli anni Settanta da un’esigua compagine di storici-scrittori-agitatori culturali. Se la narrazione non è infarcita di note e riferimenti bibliografici, che storcano pure il naso gli storici professionisti, specialisti del loro piccolo mondo accademico. Il suo intento non è parlare alle ombre grigie che solcano i dipartimenti universitari, ma alle donne e agli uomini non rassegnati di oggi, che siano occitani o meno.
L’Occitania è il territorio di diffusione della lingua d’oc, nota per essere la lingua dei poeti trovatori, contrapposta alla lingua d’oïl, madre del francese ufficiale. È uno spazio culturale e linguistico che non si identifica con dei confini amministrativi ma abbraccia diverse province della Francia meridionale, estendendosi dalle Alpi ai Pirenei al Massiccio centrale, dalle coste atlantiche a quelle mediterranee, sconfinando per brevi tratti in Spagna e nelle montagne piemontesi. Si tratta di un territorio storicamente disseminato di autonomie locali, che non ha mai conosciuto una durevole unificazione attorno a un potere centrale. Gérard de Sède ne traccia una storia complessiva lunga settecento anni, dalla metà del XIII secolo al secondo Novecento, ripercorrendo il susseguirsi dei movimenti popolari di rivolta che l’hanno attraversata.
Perché ci interessa questo libro? Non certo come contributo all’occitanismo in sé, né tantomeno come una leva su cui possano poggiare istanze indipendentiste che vedono un presunto “popolo” unito da valori identitari comuni ribellarsi all’oppressione proveniente, secolo dopo secolo, dal dispotico Nord. Viene da chiedersi se esista davvero quella precisa identità occitana difesa da de Sède, persistente sul lungo periodo e, soprattutto, che trova nell’attitudine alla rivolta uno dei propri tratti distintivi. Quello dell’identità nazionale è da sempre un terreno scivoloso su cui avventurarsi, perfino in quei contesti in cui ha cercato esplicitamente una sintesi con l’internazionalismo della lotta di classe. Nemmeno ci interessa attardarci nella contemplazione di un suggestivo passato ricco di indomiti ribelli e impenitenti eretici, quanto, piuttosto, conoscere la loro storia, perché per chi la sa leggere con la giusta disposizione aiuta a comprendere come si sia arrivati aïci e ara – qui e ora – e trasmette la consapevolezza di come affrontare questo presente che per non sprofondare nel proprio fango ha quanto mai bisogno di moderni ribelli ed eretici in grado di raccogliere quell’antico testimone.
La crociata contro i catari (1180-1255) pone fine in Occitania a un modello politico-economico aperto, fatto di autonomie locali e tolleranza religiosa. Roma e Parigi si uniscono nello sterminio di una setta eretica pericolosa, che contestava sia la degenerazione del cristianesimo traditore dell’insegnamento di Cristo sia il potere dell’autorità secolare. La crociata religiosa è infatti allo stesso tempo guerra di conquista del Midi, il Mezzogiorno francese, e cancellazione di una società che con la sua stessa esistenza minava le fondamenta dell’impalcatura feudale: le lotte religiose, scrive l’autore, “non sono, in fin dei conti, che lotte politico-sociali condotte sulla terra in nome del cielo” (p. 153).
Nel 1209 cade la roccaforte Bézier e ogni anima viva è passata a fil di spada. Almeno ventimila uomini e donne vengono uccisi, tanto che è rimasta leggendaria la frase del legato papale Amaury: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Qualche decennio più tardi viene espugnato l’ultimo baluardo di Montségur e poi il castello di Quéribus; le strade si riempiono ancora di cadaveri e appena fuori le mura si alzano a centinaia i roghi. Eppure, “sotto la cenere, le braci non avevano smesso di ardere, e i nuclei ereticali sopravvissuti, rifugiandosi nei boschi e sui monti, appoggiati dalle reti di case amiche, ripresero a tessere le fila dell’organizzazione” (Introduzione, p. 20). Parte da qui la storia dei settecento anni raccontata da de Sède, una storia di continue rivolte contro il potere centrale dello Stato e i suoi luogotenenti.
Ad aprirla sono i Tuchini del XIV secolo. Contadini, artigiani, commercianti che rifiutano di sottomettersi al sopruso del diritto feudale sulle tradizioni comunitarie e al grido di «Rei de Fransa, rei de figas, rei de merda!» (Re di Francia, re da ridere, re di merda!) danno filo da torcere al potere di Re e signori, scatenando un’ondata di guerra contro il giogo francese. Il tuchinaggio, represso in Occitania, non scomparirà dalla scena e lo vedremo riemergere tra i montanari delle alpi piemontesi: un’altra pagina nella storia delle rivolte sociali per la quale rimandiamo senz’altro a Gustavo Buratti e alla sua avvincente Breve storia del tuchinaggio occitano e piemontese. Più tardi la crescita del carico fiscale e la presenza nemica dell’esercito nelle campagne fa insorgere i cosiddetti Croquants (soprannome dispregiativo dato a poveri e contadini), il loro nome aleggerà su questi territori per ancora un paio di secoli, riproponendo a più riprese il metodo dell’insurrezione di popolo.
Tra XVII e XVIII secolo, di fronte a un piano sistematico di terrore ed espropri per sradicare il protestantesimo dalla Francia, signori e borghesi per lo più abiurano o emigrano, mentre artigiani e contadini sulle montagne delle Cévennes diventano Camisards, guerriglieri e profeti. “Ho a che fare con dei pazzi”, si lamentava il maresciallo incaricato della loro repressione. E ancora, nel XIX secolo, de Sède racconta l’epopea delle Demoiselles, ovvero di quei montanari che in spirito carnevalesco si travestivano da signore per affermare la rivincita degli umili sui potenti, ingaggiando una guerriglia in difesa dei diritti consuetudinari delle comunità rurali contro le esigenze predatorie della società industriale che strappava loro i boschi, le acque, i pascoli: “una strana interazione tra folklore e lotta sociale e politica, dove non è facile capire quale delle due componenti sia di supporto all’altra” (p. 205).
La storia prosegue con il colpo di Stato di Napoleone III. Già pochi giorni dopo quel 2 dicembre 1851 pare che la pace sociale dominasse il paese, con l’eccezione di qualche dipartimento più agitato, teatro di tentativi di resistenza armata e in certi casi di vere e proprie insurrezioni. Sui ventidue dipartimenti interessati dai disordini, guarda caso ben sedici sono occitani. I manuali di storia passano poi alla Comune di Parigi del 1871, tralasciando i suoi diretti antecedenti che de Sède rintraccia nei comitati rivoluzionari di Marsiglia e Narbonne, attivi qualche mese prima della sollevazione della capitale. Il Novecento, a cui sono dedicati gli ultimi due capitoli, si apre con l’estesa rivolta del Midi vitivinicolo contro i grandi produttori del Nord, annacquatori e contraffattori, che sfruttando una crisi contingente del settore si andavano arricchendo lasciando miseria – e collera – al Sud. Abbiamo poi la guerra antinazista e insieme sociale del maquis occitano nel 1941-1944 e, in conclusione, ancora il connubio di conflitti e identità occitana negli anni Sessanta e Settanta.
La storia degli oppressi, in Occitania come altrove, non è solamente la successione delle crepe aperte nel continuum della storia del potere e nemmeno una marcia carsica, ora sotterranea ora riaffiorante, diretta al sole dell’avvenire, ma una scia di possibilità che si aprono. Il cambiamento futuro dipende anche dal passato, dalla storia delle lotte che ci hanno preceduto, che non sono solo vago ricordo di lontane battaglie, ma la cui presenza attuale è ben concreta in ogni occasione di rivincita. Gli oppressi di oggi combattono anche nel nome e nel solco dei ribelli di ieri, allo stesso modo in cui gli oppressi di ieri lo hanno fatto rispetto ai vinti dell’altro ieri. Come ha scritto Walter Benjamin: “non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Se è cosi, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto”.
La forza è debole perché la situazione è disperata. Difficile dire se sia più disperata oggi rispetto al passato recente e remoto. In ogni tempo il potere ha saputo reprimere le spinte rivoluzionarie o riassorbirle, prima o poi, nella cornice autoritaria. Eppure quella tensione individuale e collettiva alla solidarietà e giustizia sociale, incapace di sottomettersi alla logica paralizzante dei rapporti di forza, non è mai venuta meno. Ogni vittoria del potere non si è mai potuta dire definitiva, perché quel testimone che ogni generazione riceve dalle precedenti porta con sé non tanto il peso della sconfitta quanto la volontà di riscatto. Una chance rivoluzionaria da cogliere e declinare nel proprio presente. In conclusione, con quale sensazione si rimane dopo la lettura di questo libro? Con la voglia di rimboccarsi le maniche e alimentare quel fuoco che ancora cova sotto le macerie della storia.